L’Apologia di ‘Ain al-Qudāt al-Hamadhānī non è solo un documento di grande significato poetico e mistico, ma anche un documento di alto valore storico e filologico. Il Prof. Arberry lo ha tradotto con stile adeguato, aggiungendo delle note e una prefazione. Il trattato, intitolato Lamento di uno straniero esiliato da casa, è dovuto ad un Sufi, la cui grandezza risulta dalla sua storia personale e dai suoi stessi commenti sulle tragiche vicissitudini della sua vita. Fu imprigionato ingiustamente per motivi paragonati da Arberry a quelli di cui furono vittime al-Hallāj e al-Suhrawardī: ostilità settaria e intolleranza dottrinaria. Il Sufi, dopo aver tentato invano di contestare il giudizio, fu condannato a una morte crudele all’età di 33 anni, nel 1131 a.C.
Le accuse formulate da un’oltraggiosa ortodossia e da una teologia gelosa del proprio ambito, sono quelle che la religiosità, quando decade sul piano formale e mira ad una vendetta giuridica, formula contro la libera esperienza dello spirituale. L’Apologia offre al Sufi l’opportunità di esprimere alcune leggi eterne dello Spirito; leggi che le religioni dovrebbero ricordare invece di spingere la politica alle estreme conseguenze. Le sofferenze causate dall’ingiustizia permettono ad ‘Ain al-Qudāt di percepire i mezzi per superare le condizioni umane, che conducono il discepolo mistico alla soglia spirituale. Varcare la barriera della sofferenza significa superare “l’oscurità della materia”: possibilità che corrisponde alla capacità di discernere la vera essenza della Terra oltre i limiti della sua illusoria apparenza. Inoltre la possibilità di utilizzare la sofferenza come veicolo, dipende dal fatto che il pensiero volitivo sia stato precedentemente esercitato alla meditazione. È però necessario dire che, ad un certo stadio dello sviluppo interiore, la possibilità di superare la soglia dell’umano, significa la possibilità di affrontare quella porzione oscura e abissale nella quale l’anima vibra ancora a valori terreni che riverberano l’oscurità della materia. Da questo punto di vista il martirio, come morte sacrificale, rappresenta realmente e simbolicamente il raggiungimento dell’autoconsacrazione dell’asceta.
Il pensiero di ‘Ain al-Qudāt chiarisce che l’esperienza spirituale è regolata da precisi avvenimenti, ritualmente previsti, che sono preparati da eventi dolorosi sul piano esistenziale: attraverso questi eventi comincia a divenire evidente l’ostacolo di base al sovrasensibile, cioè la sfera della materialità. Questa non è la vera barriera, ma piuttosto la consonanza del corpo vitale con essa. Il corpo vitale che risuona secondo la sua materia fisica, viene risvegliato alla propria natura spirituale da un dolore che agisce in profondità; ma è la profondità che il pensiero può raggiungere, ovvero il pensiero mentale, che opera la conversione di se stesso: mutando la propria astrattezza nel puro veicolo della volontà. A quel livello, se il pensiero non realizza la conversione del sé, verrà afferrato dagli istinti.
Difendendo se stesso nell’appellarsi alla dottrina sufi del fanā, ‘Ain al-Qudāt sostanzialmente afferma che, oltre i limiti della natura, l’asceta può ritrovare la veste brillante del mondo minerale e percepire la grandiosa sintesi dei ritmi dell’universo attraverso i quali la segreta struttura della mineralità ritorna allo Spirito, in armonia con un’alchimia divina che, per una cosmica predisposizione, si attua naturaliter nell’uomo attraverso la sua esistenza sensibile. Nei tre capitoli aggiunti al Lamento, al-Qudāt indica le tre vie del dolore che conducono al rapporto con la Divinità: “La fede in Dio, nel Suo Messaggero e nell’Ultimo Giorno”.
Massimo Scaligero
A Sufi Martyr, The Apologia of ‘Ain al-Qudāt al-Hamadhānī, di Arthur J. Arberry.
London, George Allen and Unwin Ltd., 1969.
Da: East and West, Marzo-Giugno 1971, Vol. 21, No. 1-2.