Nello svolgere gli esercizi di meditazione adopero spesso un mantra di Massimo Scaligero, che recita cosí: «Quiete lontana di Costellazioni / Ansia di Luce sulla terra / accendono il Ritmo dell’Anima / incontro alla Tua Donazione senza fine».
Un giorno, parlando con un’amica che mi esponeva accorata alcune sue difficoltà, ebbi a consigliarla di mettere tale frase tra i suoi pensieri e di meditarla a intervalli regolari. Ero convinto che avrebbe giovato.
Dopo un po’ di tempo, la incontrai di nuovo; mi rivelò di star peggio di prima. La sentivo angosciata, nervosa, quasi sull’orlo di una crisi. Le sue parole fluivano veloci; da esse traspariva una carica di rabbia e di delusione per il suggerimento che mi ero permesso di darle e che sembrava non aver funzionato.
«Come vuoi che possa pensare alla “Quiete lontana di Costellazioni”, quando mio marito ha abbandonato me e i nostri figli? Cosa vuoi che mi interessi dell’ “Ansia di Luce sulla terra”, se sono senza lavoro e devo arrangiarmi a fare servizi di pulizia in una trattoria, per portare a casa qualche euro? E il “Ritmo dell’Anima”? Quale ritmo? Io non ci dormo la notte pensando cosa dovrò fare all’indomani! E poi, scusami, quella “Donazione Senza Fine” che vorrebbe significare? Che riceverò una eredità da uno zio sconosciuto defunto in Argentina? Ma fammi il piacere! Ti avevo chiesto una soluzione pratica, concreta, e tu mi hai propinato una filastrocca per bambini!».
Come si vede, i pentoloni in cui le forze avverse all’umano fanno ribollire le nostre esistenze (e le nostre anime) al fuoco scoppiettante delle vicissitudini, sono ben scoperti. Si fanno vedere, anzi! vogliono essere veduti! Perché cosí uno si scoraggia e finisce per credere che tutto sia oramai inutile, tutto sia perduto, che non ci sia piú nulla da fare.
Quando cadiamo preda dei nostri tormentatori interni, non c’è santo che tenga. Il pentolone cuoce, ribolle, gorgoglia e trabocca. Pare inarrestabile. Giunge il momento in cui si è convinti che peggio di cosí non potrebbe andare.
Invece no, direbbe il saggio: potrebbe anche piovere (ma questo aggiornamento è meglio tenerlo per sé. Chi soffre, soffre per mancanza di Spirito, non per mancanza di spiritosaggini).
Nella vita capitano molte cose. Tutte rientrano però in due grandi categorie: quando siamo passivi e le subiamo (siamo gli effetti) diciamo gli indignati: «Guardate cosa è successo a me!»; quando siamo attivi e le cose le abbiamo provocate noi (in tal caso siamo le cause) allora (se si tratta di cose buone) esclamiamo con una certa baldanza: «L’ho fatto io, l’ho voluto io». Se invece sono cose da non ostentare, o magari da nascondere, allora con rapida inversione ad U torniamo a lamentarci, sostenendo e deprecando d’aver dovuto subire i fatti e d’esser stati costretti al peggio.
Evidentemente la visione dell’“io” e quella del “me” non concordano mai. O meglio, concordano secondo il gruppo di quegli elementi portanti, che di volta in volta aderiscono o ricusano. Se si vuole avere un immediato esempio pratico, basterà ascoltare e confrontare le varie opinioni che circolano sugli accadimenti internazionali.
A parte il riferimento attualistico, ci siamo mai chiesti chi sono questi “io / me”? E perché li chiamiamo in causa continuamente? Per farci compiangere o per ricevere complimenti e congratulazioni? Possibile che questi due brevi pronomi personali, indicanti un unico essere, non abbiano altre funzioni?
La questione è vecchia quanto il mondo, e l’impegno di approfondire il tema una volta per tutte gli sta alla pari. Cosa intendo dire quando affermo d’essere un “io”? Qualcosa di estremamente semplice, incontrovertibile; qualcosa di apodittico. Nessuno me lo può negare, nessuno me lo può vietare.
Ma io, sono in grado di spiegarmelo? Che cos’ è con esattezza un “io”? È una monosillaba talmente spiccia e immediata, che per pronunciarla non occorre impiegare intelletto, volontà o cultura, né assumere una particolare decisione. Non serve neppure quel puntiglio che normalmente s’impiega quando prendiamo una posizione ben definita nei confronti di un qualche argomento, e lo vogliamo dichiarare agli altri, affinché tutti (ma proprio tutti) sappiano che “io” la penso cosí.
Già, proprio cosí! Ma cosí “come”? Cos’è ‘sto io? Cos’è il pensiero? E quale rapporto c’è tra i due? Perché è chiaro che un legame c’è, ma è pure evidente che a questo legame non ci badiamo mai. Non ce ne curiamo. E dato per scontato; è un regalo della natura, come il fatto di avere una testa, due braccia e due gambe.
Quindi perché indagare? Adoperiamo quello che c’è, e stiamocene contenti che funzioni, se non del tutto bene, almeno in modo decente, da sopperire alle normali esigenze di vita. Cosí pensa l’ingenuo; talmente ingenuo da sentirsi quasi innocente. Nel frattempo però, nell’incapacità di creare una tensione equilibrata ed omogenea, una polarità tira da una parte, l’altra polarità fa altrettanto, ma in senso contrario, e l’ingenuo/ quasi-innocente finisce per sentirsi diviso, lacerato, spezzato in due. Spesso noi con lui.
Presto, molto presto, ci consoliamo; abbiamo tante cose con cui distrarci; ognuna di esse è come la cassa delle meraviglie dei prestigiatori; contiene un’infinità di casse piú piccole, che noi, per ottusa diligenza e frainteso senso del dovere, continuiamo ad aprire giorno dopo giorno, nella speranza di trovarvi qualcosa di utile, se non di buono o di prezioso… (non si sa mai!).
Naturalmente sono tutte casse rigorosamente vuote; ma pure da questo vuoto ricaviamo una lezioncina di comodo; quella di credere che la vita sia cosí e che non ci sia null’altro da fare che prenderla come viene. Il vuoto, grazie alla nostra inerzia, è avanzato di grado, si è indottorato, si è trasformato in nihilismo. Non lo sappiamo, ma siamo diventati illusionisti a rovescio; l’illusionista infatti fa vedere ciò che non c’è, noi invece prendiamo ciò che non c’è, lo esibiamo di fronte alle nostre coscienze che stanno a guardare a bocca aperta, …e hop-la! Ecco saltar fuori una nuova tendenza esistenzialistica. Una filosofia di vita. Che andrà studiata, avrà i suoi testi, i suoi epigoni; magari anche i suoi esegeti.
Essendo il niente del niente, molti ne saranno attratti, perché il nulla è la calamita dell’ozio, e non c’è niente di meglio che avvolgersi in un bel torpore psicofisico per destabilizzare ulteriormente l’anima umana.
Dopo aver per decenni frequentato gli scritti e i pensieri di Massimo Scaligero, tutto questo atteggiamento cosí accomodante, cosí defadigatorio, cosí ludico, cosí fondato sulla logica della irresponsabilità, non mi è piú possibile. Assolutamente. E non perché il contatto con Scaligero abbia insinuato dubbi amletici circa il mio essere, ma piuttosto per il motivo che il Suo insegnamento ha acceso i miei riflettori interni sulla fragilità delle certezze che mi hanno cresciuto; cresciuto e sviluppato fino a diventare maturo in corporeità, mediocremente ricettivo nell’anima, edotto quanto basta nella mente, ma povero, poverissimo, nello Spirito. In altre parole, è sorta una coscienza capace di autocritica; e una volta sorta, non la si può rimuovere, perché, appunto, ogni tentativo verrebbe criticato con quella speciale ironia provocatoria di cui Socrate fu buon maestro.
Oggi quel processo di sviluppo trascorso (chiamiamolo cosí), è diventato pallido e inconsistente; fino a raggiungere – almeno per quel che riguarda il sottoscritto – i limiti dell’assurdo e del ridicolo.
Comunque la bontà della strada compiuta è riconoscibile, in quanto ci si accorge che da una posizione di apparente comodità, di faciloneria e di superficialismo (quindi di auto-inganno) ci si sta ora incamminando verso una verità. Una verità ancora sconosciuta, ma la cui esistenza non è piú confutabile, nel senso che se cammini su una strada, potrai anche non sapere dove ti porta, ma non puoi negare che la strada ci sia.
Una strada unica, in quanto non può venir confusa con nessun’ altra. Una certezza che finalmente non ha bisogno di opinioni, infatti le opinioni di solito stanno come i tarli al legno, rosicchiano fino a mandarne in frantumi la compattezza originaria.
Dunque un percorso nuovo, molto, molto piú complesso, atipico, talvolta scomodo, e, per alcuni versi, anche devastante, rispetto a quelli fin qui sperimentati; perché non lascia in piedi nulla di quel che è stato; non lo annienta, non lo contesta; lo assorbe, lo integra, lo ingrandisce, lo dilata, al punto di farti trovare sulla soglia di un universo nuovo, splendente di luce ma del tutto ignoto; da qui, il passato lo puoi guardare a posteriori con l’amorevole disponibilità con cui si sfogliano le vecchie fotografie ingiallite dell’album di famiglia. Nulla da rimpiangere, nulla da rinnegare.
Di qualunque passato si tratti, si giunge a comprendere che esso fu necessario per farci giungere fin qui; sul limitare di una dimensione conforme al mistero della struttura psicofisica umana, e tuttavia non immaginabile durante il lungo periodo di preparazione; un letargo, che qualche volta si era manifestato come una incomprensibile attesa, per questo subito rintuzzata.
In questa nuova versione (attenzione però a non considerarla come definitiva! Fintanto che il destino, il volere, e le gambe ci spingono avanti, nulla può ancora chiamarsi definitivo!) ci si trova come bambini al primo giorno di scuola. Si avverte d’esser entrati in un mondo enormemente piú vasto di quello conosciuto; tanto vasto che c’è il rischio di perdercisi dentro.
Ma il panico del neofita passa presto. Cosí come in precedenza è accaduto di avere un papà e una mamma che ci hanno presi per mano e ci hanno guidato pian pianino a visitare le cantine e le soffitte della vita, indicandoci ogni volta i pregi e i pericoli, ora saranno i Maestri Invisibili e le Guide spirituali a prendersi cura delle nostre anime e fare in modo che i nostri passi restino entro i limiti del tracciato.
Perché c’è sempre un tracciato, un cammino da percorrere, anche se nella stragrande maggioranza dei casi ne siamo totalmente all’oscuro. Si dice alla buona: «Eh! che ci vuoi fare? Son cose piú grandi di noi!». Una miopia voluta e mirata a giustificare tante deviazioni.
Non abbiamo la minima idea che i nostri percorsi sono tracciati da mani occulte e che, nel migliore dei casi, potremmo essere chiamati a cooperare per renderli migliori e proficui ai fini della nostra evoluzione interiore.
Tra il dire e il fare, però, c’è di mezzo il pensare; e tra il “pensare in brutto” ed il “pensare in bello”, c’è di mezzo il cervello.
Sul cervello e la sua funzione la Scienza dello Spirito ci ha fornito molte informazioni, eppure non ho trovato – forse perché non ho cercato a lungo o nel luogo esatto – un quadro preciso di quello che viene considerato il nostro organo N° 1. Trovo interessante invece la teoria di uno scienziato (docente di fisica sperimentale) che – in quanto amico – ha voluto un giorno rivelarmi quella che lui considera la scoperta piú preziosa della sua vita e dei suoi studi: che cioè la finalità della vita dell’universo (ovvero il senso di tutta l’evoluzione cosmica) consiste nell’essere riuscita a creare, attraverso una serie pressoché infinita di combinazioni, un organismo concepito come abbozzo di un sistema nervoso capace di volere, di intendere e di provvedere alle proprie necessità.
Dal punto di vista della scienza, questa può sicuramente essere un’idea prioritaria e molto stimolante; ma vi manca qualche cosa, che invece si trova sparsa abbondantemente in tutta la letteratura della Scienza dello Spirito; anzi, direi che ne è il vessillo, l’elemento di spicco, anche se per lo piú nascosto, occultato dietro caterve di teorie e argomentazioni.
Ma è risaputo: a furia d’insistere, qualcosa viene sempre fuori, emerge sulle altre; cosí un secolo e mezzo fa, tra tanti provetti studiosi dell’interiorità umana, è apparso all’orizzonte il dott. Rudolf Steiner, il quale sembra esser stato l’unico ad avvertire una particolare esigenza sorta tra i suoi contemporanei: verificare e stabilire una correlazione logico-filosofica – ineccepibile – dello sviluppo biologico degli esseri umani e l’anelito di questi a vivere ed agire in modo libero.
Possiamo anche dire in altri termini che, mentre la funzione cerebrale, ancorché sviluppata in modo incompleto, è in grado di avvertire, o quanto meno di porsi la domanda, per ora vagamente, di attingere la propria forza da una dimensione extrasensoria, ovvero da un mondo spirituale, per contro, la vita e lo sviluppo morale dell’anima devono ancora scoprire e rintracciare in modo autonomo la strada che li possa condurre a questa verità. Non perché l’umano sia in partenza maggiormente preparato nella funzione della mente che non in quella del cuore, ma per il semplice fatto che l’assalto delle percezioni sensibili e affettive per i primi due settenni di vita, si rivolgono esclusivamente all’anima, che ne viene letteralmente sopraffatta; al punto da costringere il pensare e adattarlo alle esigenze del caso, divenute in pratica sue necessità.
Di modo che, da quel momento in poi, parlare di spiritualità diventa possibile soltanto nella misura in cui si riesca a districare il nostro pensare dai villuppi animici che l’hanno imbrigliato, ovvero restituire all’anima il suo originario stato di purezza, che è la sua intima vita.
Nella figura-simbolo del calderone scoperto che bolle e ribolle, è ben presente la continua dispersione di energia. Il vapore creato va in fumo e rimane solo la considerazione de facto che il contenuto pian piano va estinguendosi. La dispersione dell’energia è valutata dalla coscienza che pensa, come una sconfitta, una umiliazione.
Ciò che dovrebbe venir fatto, non è eliminare il processo del ribollimento, o trasformarlo in una semplice evaporazione, che non cambierebbe poi nulla. La soluzione è compiere l’unico gesto che il Demonio (e con lui il nostro ego) si guarda bene dal compiere: mettere cioè un coperchio sul pentolone e sigillarlo a tenuta stagna, di modo che l’energia prodotta possa essere poi adeguatamente incanalata in altri reparti e quindi metta in moto processi interiori finora inerti.
Non occorre spolverare temi esoterici per comprendere un semplice principio di causa-effetto ben consolidato nell’ esperienza d’ogni giorno: se si mette a cuocere del cibo crudo in una pentola piena d’acqua e priva di coperchio, prima evaporerà tutto il liquido e poi inevitabilmente brucerà il resto del contenuto.
Se invece si avrà l’accortezza di coprire la casseruola, e dopo un po’ di tempo lasciarla scoperta in minima parte, di modo che un po’ di vapore (ma non troppo) possa fuoriuscire, avremo ottenuto una cottura a puntino, nel senso che la parte di cibo prima bollita e lessata, ora finirà di cuocersi nel vapore che tende a stemperarsi nell’ambiente circostante. È una piccola regola di cucina che le massaie di una volta e gli addetti ai fornelli di oggi conoscono bene.
Cosa significa? Significa che cuocere nel brodo dei nostri guai, non è un male, anzi! può trasformarsi in bene; basta che la coscienza pensante sappia calarsi volontariamente nell’esperimento e compierne il processo, conscia di poter intervenire in ogni momento per rallentare, o accelerare, o addirittura arrestare il corso del medesimo. In caso contrario il cibo, semicrudo o bruciato, non sarà mangiabile.
Certo, oggi con il forno a micro-onde questa regoletta sembra non avere piú alcun senso. Ma pensare in tal modo è sbagliato. Un tempo gli scolari facevano i conti a mente e sulle dita, e nessuno credo possa dire che l’invenzione della calcolatrice abbia prodotto un miglioramento nelle facoltà degli allievi. Ha semplicemente abbreviato i tempi della funzione pensante, sottraendo però il gusto e la soddisfazione di giungere a soluzione senza aiuti esterni.
Il ragionamento or ora svolto sull’idea di poter usare l’energia del vapore formatosi in un contenitore chiuso, opportunamente riscaldato, per portarla poi a compiere ulteriori azioni, farà arricciare il naso a qualche esoterista, il quale non se la sentirà di sorvolare sulla prosaicità del mio esempio. Alle cose elevate – è un comune pensare – si addicono cose elevate.
A parte il fatto che i processi di trasformazione della materia fanno tutti capo ad un’unica matrice, sono le leggi della natura, la quale a sua volta è la controparte fisica della sopra-natura (e sull’essenza di quest’ultima, non est disputandum), desidero qui citare alcuni pensieri di Massimo Scaligero, a mio avviso, efficaci, incisivi, atti per chiarire il problema e inquadrarlo nella cornice di competenza.
«L’individualità può attuarsi entro il limite che è la sua forma, sino a conoscerlo come limite all’intima sua forza formatrice: la quale dal profondo esige un ulteriore movimento: il superamento del limite. Esige dall’individualità il superamento del limite, grazie all’autonomia acquisita entro il limite.
È la relazione voluta. È la relazione che inizialmente si dà come evento fatale, che tuttavia nella sua fatalità ha la sua contraddizione, onde si corrompe o si esaurisce.
Ma è autentica e operante allorché in essa si attiva il puro essere della individualità: virtú volitiva di un rapporto che può vivere solo come superamento dell’anima ordinaria, che è anima perché in sé chiusa, incapace di rapporto».
Già molti anni fa, ebbi a scrivere sul mito di Dedalo e Icaro; sostenevo allora, e continuo a farlo oggi pure, che Dedalo intuí felicemente la soluzione che lo fece volare fuori del Labirinto insieme al figlio. Poté intuirla grazie alle forze della disperazione, sublimate nel coraggio e alate dalla fantasia; forze che in lui nacquero grazie alla “sofferenza” patita “entro il limite”. Peccato che l’anima di Icaro, ringalluzzita dal successo, non dette retta al consiglio di non osare troppo, e provocò la propria morte e il dolore inestinguibile del padre, pregiudicando in tal modo la libertà acquisita tramite la “fantasia creatrice” di Dedalo.
Ma ciò che ho voluto indicare è che il superamento del limite (di qualunque limite) diventa possibile se ci impegniamo a sostenere, con fiducia e presenza cosciente, il periodo necessario al formarsi in noi di una soluzione sotto forma di immagine/idea.
Ogni volta riflettendo su questa possibilità, sempre concessa ad ogni essere umano che la evochi in sé con volontà, con coraggio e con perseveranza, mi ritorna alla mente quella parte del libro di Massimo Scaligero, Dallo Yoga alla Rosacroce, in cui Egli, eccezionalmente, racconta il suo periodo di detenzione nel carcere di Regina Coeli, nell’immediato periodo postbellico. Periodo che da drammatico si è trasformato in salvifico.
Nessuno è mai solo; nessuno è mai abbandonato. Semmai vale il contrario, siamo noi che abbandonandoci alle miopi esigenze dell’ego, disperdiamo le forze con le quali prima o dopo avremmo saputo escogitare qualcosa.
Ma ci sono uomini che possono contemplare l’intero disegno dell’avventura umana; che sanno incontrare nel modo vincente le avversità terrene; uomini capaci di estrarre da queste ulteriori forze che doneranno poi al mondo. Perché nulla, per loro, vi sarebbe di piú insensato che tenerle per sé.
È il moto dello Spirito che si vuole nell’umano; che si vuole nel mondo, nella terra, tramite l’umano; e perciò, come vento del destino spinge, sforza, insiste, stando attento che il fragile contenitore psicofisico in cui ha voluto racchiudere un parte di sé, patisca solo quanto basta a crescere, a donare energie, a portarlo oltre il limite del sacrificio: che è sacrificio soltanto se conosciuto, voluto e incontrato senza riserva e condizione, da chi che ne viene investito.
La personalità, divenuta zavorra, resiste sempre al nascere e al crescere dell’individualità; non vuol riconoscere in questa l’intima la sua forza formatrice e al contempo redentrice; la contesta, la contrasta, la rifiuta. La odia senza ragione. Mentre è il potenziale catalizzatore dell’irrobustirsi di quella. Anche se per ora, col senno del presente, tutto ciò appare talmente chimerico e utopistico, da indurci a comportamenti opposti; ridendo quando c’è da ridere, piangendo quando c’è da piangere, e protestando con veemenza quando riteniamo calpestati i nostri diritti.
Cosí facendo – e di fatti cosí si sta facendo in tutto il mondo – abbiamo conquistato, da novelli Icari, la tecnologia del volo, e riteniamo quindi sia cosa necessaria, anche se deprecabile, utilizzare l’ acquisita facoltà aerea per poter meglio bombardare i territori di quanti si è deciso giudicare pericolosi avversari, momentaneamente irriducibili (per lo meno fino a estinzione totale).
Per cui, col fuoco Amico e col fuoco del Nemico (i fuochi – è bene tenerlo presente – provengono da molte parti) i pentoloni della nostra personalità continuano a ribollire; i propositi di pace, di fratellanza, di universalità, svaporano sempre piú, diventano un fumo sottile sottile, una sorta di virus dialettico multilingue, politecnico, che ammorba l’atmosfera del pianeta, crea sconvolgimenti atmosferico-metereologici, che gli studiosi annotano diligentemente nei loro diari.
La personalità degli esseri umani, tanto faticosamente acquisita, rinnega il finalismo teso all’individualità; dalla modesta, traballante rappresentazione del “me”, alla percezione immediata dell’“Io Sono”, il salto non è concepibile neanche con l’ausilio della I.A.: eppure esso rappresenta decisamente l’unico traguardo capace di trasformare gli attuali omíni in Uomini.
Per tutti i Demoni (e i loro alleati) sarebbe davvero un guaio! Il trucco dei pentoloni senza coperchio non funzionerebbe piú e si troverebbero nell’infernale situazione di doverne studiare una nuova.
Quando questo articolo verrà pubblicato, il Natale 2023 sarà oramai alle porte. Dopo quanto scritto mi riesce difficile immaginare un augurio piú bello e utile per tutti, di quello che ho cercato di descrivere in queste pagine: fare della situazione generale e collettiva in cui si trova l’umanità in questo particolare momento (che nulla promette di buono) un ribollitore fisico dal quale possa sprigionarsi la sua contropartita metafisica.
Che per una volta non sia rassegnazione, rabbia, frustrazione, sete di vendetta e brama di revanche; bensí forza; pura forza dello Spirito Umano, che nella cornice natalizia del Sacro Bimbo Che Nasce, ritrovi, sublimandosi, la via di ricongiunzione con lo Spirito del Cosmo.
Tale ricongiungimento, nell’Eterno, è compiuto da sempre: deve tuttavia venir realizzato sulla Terra, dallo sforzo concorde delle anime nostre attraverso le “forche caudine” delle umane vicende.
Angelo Lombroni