Ognuno di noi è dovuto nascere, arrivare su questa terra, venire alla luce del sole, al fine d’esistere, crescere, deperire ed infine morire. Nell’ignavia piú completa abbiamo sfidato la morte e, di quando in quando, ci siamo dati da fare per trovare un senso alla nostra vita.
Ma mentre la morte, quale fine corporea, è un fattore comune ad ogni organismo vivente, la ricerca del significato della vita può essere estremamente differenziata da individuo a individuo.
Quindi, premesso che occuparsi della morte non desta particolari interessi nella categoria degli antropologi, come ebbe a dire molti secoli or sono un noto filosofo greco: «Perché dovrei preoccuparmi della morte? Quando io ci sono, lei non c’è; e quando lei arriverà, io non ci sarò piú», sembra cosa giusta e ragionevole soffermarsi sul secondo problema, il quale di tanto in tanto salta alla ribalta e si prende la scena. Che siamo venuti a fare? C’è un traguardo, un obiettivo da raggiungere?
La domanda non è affatto oziosa; potrebbe sembrarlo a tutta prima per gli oziosi, nel senso che questi in genere disdegnano le problematiche astratte e preferiscono di gran lunga frequentare il Luna Park delle emozioni psico-sensibili. Eppure a ben riguardare, quando il nostro pensiero sosta su certe riflessioni intimamente vissute, allora l’idea che nell’esistere degli esseri umani ci possa stare qualche cosa di piú che non le Sale Giochi o le Happy Hour, comincia a farsi strada, e non sempre, ma talvolta, può diventare un conduttore insistente, un compagno di viaggio col quale non è facile convivere.
La Rivoluzione Francese si appropriò del triplice motto di Liberté, Égalité, Fraternité, derivato da una citazione di Cagliostro: un gran bel motto. La prima volta che lo vidi ne rimasi affascinato. In seguito sono stato costretto a capire che se pure mi piaceva recitare quell’inciso ripetendomelo con un certo piglio, non avevo la minima idea di cosa veramente volessero dire le tre parole chiave.
Le poche semplici voci di libertà, uguaglianza e fraternità mi affascinavano, e indulgendo a tale fascino, permettevo che esso sostituisse lo sforzo di cercare un significato piú profondo. Capita. Per me avevano un senso che non occorreva verificare: un senso immediato. Immediato sí, ma non compiuto. Il problema è tutto qui. Questo è ciò che bisogna capire alla svelta quando si cresce sapendo di crescere. Arrestarsi al primo, secondo, o anche al terzo livello interpretativo, non esaurisce il tema. Ma passare dalla percezione sensibile, alla rappresentazione e da questa arrivare poi al concetto, e afferrarlo quale entità vivente, non è cosa che si possa fare in quattro e quattr’otto. Almeno non da parte mia.
Ho appositamente voluto richiamare il marchio del 1789 perché esso si presta oggi ancora (forse piú di prima) ad essere vessillo, filo conduttore, e punto di riferimento di molte disposizioni interiori dell’anima umana di questi tempi.
Non voglio qui addentrarmi in argomenti di natura politico-sociale; ognuno vede da sé come vanno le cose, e se non riesce a vederle da sé, ci pensano le fonti specializzate d’informazioni cronacensi, a comporre i quadretti quotidiani del “realismo approssimativo” col quale costruire poi le opinioni: meglio che niente. Anche gli sprovveduti e gli affamati di verità esteriori, hanno diritto di venir rifocillati con mense d’occorrenza.
Ma il punto (quello mio) è diverso: che c’entra la libertà con l’uguaglianza e con la fraternità? Queste due ultime riguardano un certo tipo di assetto sociale e un impegno etico da portare avanti, sempre che esso trovi nei singoli la giusta propensione a compierlo non soltanto a parole.
L’idea della libertà invece è qualcosa che trascende del tutto le categorie dei personalismi, delle ostentazioni solipsistiche, e delle tendenze comportamentali .
L’idea della libertà è una tensione che appartiene all’anima cosciente, in cui i concetti di uguaglianza e di fraternità sono già presenti, maturati e pronti ad affrontare il nuovo limite: che è quello della libertà fittizia, della libertà di scelta, della libertà di confrontare e trarre conclusioni adeguate ai propri interessi. Insomma una libertà da comprare a etti nel mercato rionale.
La libertà appartiene all’individuo etico cosí come voluto e affermato da Rudolf Steiner; e fintanto che ci culleremo, cautamente o incautamente, in quel tipo di moralismo furbesco sullo stile di un moderno Giano bifronte, per cui si è in grado di dire “bianco” là dove si sa per certo che c’è del “nero”, e viceversa, allora il traguardo dell’individualismo etico non è molto piú che un flatus vocis, un’utopia stilizzata, una coccarda da mettere all’occhiello per esibire in pubblico la propria ampiezza di vedute.
Eppure anche cosí, lontani mille miglia dalla vivente idea della libertà, i rivoluzionari francesi avvertirono il bisogno di metterla in prima linea, accanto alle rinnovate esigenze di parità sociale e di solidarietà. Non avevano torto, il legame c’è; è esistito da sempre, e nei casi drammatici che maturano in un popolo o in una nazione, lo stendardo della libertà comincia a svettare sull’improntitudine e sull’ambiguità dei tempi. In quei momenti di scombussolamento storico, diventa difficile, quasi impossibile, comprendere che lamenti, insulti, lotte e pubblici pestaggi sono prodotti solo dalla sete di vendetta e non dal desiderio di costruire tutti assieme una pace sociale dignitosa e duratura.
La libertà che si spaccia per necessità ineludibile di ricorrere alla violenza fisica e/o psichica, non è la libertà, né potrebbe esserlo in alcun caso: è invece il suo opposto, è la maschera di Guy Fawkes, del demone che ha il compito di trascinare le anime umane il piú lontano possibile dall’idea da cui credono venir mosse.
La Libertà non conosce vendette, cosí come nella vendetta non esiste accenno di libertà.
Quando nella cruenza degli avvenimenti, gli uomini si picchiano a piú non posso, la fraternité è già andata in vacanza da un bel pezzo; altrettanto succede quando improvvisati tribunali rivoluzionari o antirivoluzionari sentenziano de facto ma sine iure, facendosi beffe di quella égalité che pur avevano sbandierato con inni patriotici e giuramenti di sangue.
Non c’è niente da fare. Non si passa all’algebra senza aver fatto l’aritmetica, e non si può parlare di geometria solida se prima non si è studiato quella piana. Per cui la libertà che tutti andiamo cercando, da Catone l’Uticense in poi, non si realizzerà mai, ove non abbia preso le mosse da anime umane in grado di accedere al vivo concetto di fraternità e di uguaglianza.
Cosa questa che – stranamente – religioni, culture, educatori e divulgatori etico-filosofici non hanno mai preso in seria considerazione. Anzi, hanno sempre cercato accuratamente di evitare. Se ci riflettessimo su, magari partendo dalla insidiosa domandina “Cui prodest ”, forse qualche anima assopita potrebbe tentare d’uscire dallo stadio letargico.
Stando a quanto succede nel mondo, tale meta rappresenta una possibilità ancora di là da venire; al posto della virtú delle idee, al posto della loro forza sovrasensibile, abbiamo acquisito in surroga i fantasmi e gli spettri di queste: una finta libertà, astuta e indecorosa, che vorrebbe far da corona ad un senso generale di uguaglianza cosí astratto e ciarliero, quanto striminzito, tortuoso e calcolato è il sentimento della fraternità, che circola nei retrobottega del Terzo Millennio.
Eppure in quel testo che molti conoscono e che s’intitola Filosofia della Libertà, scritto da Rudolf Steiner ancora in giovane età (1894), sono racchiusi tutti gli ingredienti dei quali gli uomini di questa epoca potrebbero giovarsi, se nel frattempo non fossero divenuti ciechi, sordi e muti rispetto al tema mai sufficientemente verificato della propria spiritualità interiore.
Non esserne consapevoli, significa essere irresponsabili, ed essere irresponsabili significa aver distratto la presenza umana dal corso evolutivo del divenire; quello per cui, in realtà, abbiamo deciso e accolto la vita sulla terra quale banco di prova, onde dimostrare con la nostra potenzialità di anime incarnate, quale sia l’elemento discriminante nell’ eterno scontro tra le forze del bene e quelle del male.
Si può umanamente credere che in un conflitto tra due blocchi di altissimo potere, prima o poi vi saranno vincitori e vinti; ma sarebbe una visone distorta della realtà sovrasensibile; quel conflitto (se cosí vogliamo chiamarlo) che noi crediamo debba svolgersi per tutta l’eternità, non è un conflitto, ma è bensí la dinamica dell’universo, del creato che, nella sua danza di vita, si restringe e si contrae, si oppone e si distende, che fa sorgere galassie e sopprime nebulose; il che, al moralismo miope di chi osserva col lanternino, può dare l’impressione di una lotta fra titani, ma non è assolutamente cosí.
Porto un piccolo esempio, molto fantasioso forse un po’ sciocco, ma secondo me, giustificato: due alieni discutono tra loro sul come sia possibile uno sviluppo organico sul pianeta Terra. E una volta apprese le condizioni atmosferiche terrestri, affermano che nessuna crescita sarà mai possibile in un mondo come questo, perché il continuo conflitto tra caldo e freddo, tra pioggia e siccità, tra neve, vento e altri fenomeni perturbativi, rendono impossibile lo sviluppo di una forma di vita, la quale, per esistere e sopravvivere ha bisogno di una regolarità senza scosse, di cadenze armoniose e di apporto continuativo di sostanze in misura precisa.
I nostri amici alieni non avevano capito nulla: erano convinti che il buono, il bello e il giusto (cosí come siamo capaci oggi d’immaginarceli) siano le uniche condizioni base per la vita universale. Nel mentre vale anche l’opposto: la vita nasce nella tensione tra forze immani, sconvolgenti, la cui potenza assoluta non è giudicabile da nessun punto di vista etico. Ma la positività creatrice della loro azione è riconoscibile da quanti sappiano guardarle secondo un principio che trascenda la povertà dell’osservazione dei singoli soggetti.
Il cosí detto conflitto tra il Bene e il Male, tra la Luce e le Tenebre, che buona parte occupa le pagine della letteratura esoterica, rendendola paurosa e affascinante ad un tempo, non ha come scopo il prevalere d’uno dei contendenti; ha lo scopo invece di creare un ambito propizio e necessario allo sviluppo di una forza novella, una forza sintesi, capace di sostenere col proprio valore il meglio del bene, ricavandolo incessantemente dalla trasformazione (o dalla redenzione) del male.
La volpe affamata che uccide il pollo, compie un’azione “imperdonabile” agli occhi della mia nipotina Sabrina, di anni sei, che di conseguenza considera “brutta cattiva” la volpe e “povero martire” il pollo; questo fa sorridere noi adulti, anche se non ci diamo molto da fare per spiegare ai bambini che una siffatta visione degli accadimenti è del tutto parziale e per niente obiettiva.
D’altra parte, con quali parole raccontare a noi medesimi il fatto che secondo gli oramai inveterati opinionismi correnti, qualunque disgrazia accada nel mondo, la magnitudo della sua portata dipende sempre dal numero degli infortunati coinvolti? Perché la legge del numero, del fattore quantitativo, pesa smisuratamente sul piatto della bilancia, ben piú del fattore della qualità eventualmente consumato nel prodursi del danno?
Quindi: se nell’eternità non ci fosse in corso uno “scontro” perenne tra forze positive e quelle negative (scontro non risolvibile perché appunto collocato nell’infinito temporale) neppure l’essere umano potrebbe esistere sul pianetino a lui dedicato; non vi sono alternative, i limiti fisici della nascita e della morte non essendo altro che il preludio a quel finalismo – attuabile soltanto dalle creature umane – atto a trasformare il pianeta della morte nel pianeta della Resurrezione.
Nascite e morti ci vengono garantite nella misura in cui l’evenienza di una tale possibilità rimanga ancora in fieri.
Paragonare l’uomo d’oggi a quelli che nel XVIII secolo vollero il ribaltamento dell’ordine costituito, non avrebbe alcun senso; tutte le varianti e le modifiche nel corso del tempo subiscono ulteriori varianti e modifiche, sicché il tentativo di evidenziare le conseguenze derivanti da cause remote sarebbe molto problematico e poggerebbe su basi insicure.
Ma una cosa si salva da quell’oblio che ha inghiottito pure la Rivoluzione Francese: lo spirito di libertà, che oggi agisce con maggior determinazione e non è piú contenuto entro confini geografici, etnici, sociali o razziali; semmai tutti questi spunti formano ora un paravento piú o meno ideologico, un’occasione per scatenare i demoni racchiusi nelle anime dei singoli; perciò è uno spirito di opposizione, monouso, egocentrizzato all’ennesima potenza, solo in apparenza collettivo, che vuole esprimere rabbia dolente e profonda avversione contro quanto, nella vita ordinaria, esso – a suo insindacabile giudizio – reputa suscitatore d’indignazione e fastidio.
Sono riusciti (siamo riusciti?) ad abbassare l’indice del livello etico al punto tale che una delle Idee piú sublimi che abbia mai illuminato le anime e le menti degli uomini, quella della Libertà, è stata trascinata giú nel fango torbido e insulso dell’incoscienza egoica oggi invasa da preoccupante follia.
Quest’ultima credo sia ormai piú che evidente: deturpa e affossa ogni desiderio, ogni tentativo, ogni sforzo, ogni manifestazione, inneggianti alla libertà: la quale non potrà mai essere libertà, ma solo il suo deforme riflesso nello specchio del destino umano: non libertà, semmai licenza, concessione, permesso, password temporanea della parte ribalda (anche se non piace, è la zavorra dell’essere vivente, ma se non piace, possiamo chiamarla contrappeso) per indurlo a compiere il peggio, convinto di conquistare il meglio.
Eppure il detto tanto sbandierato nel 1789 lascia trasparire un indizio non da poco; che dopo esso sia stato snaturato e catturato da un pensare occidentale succube del materialismo fin da prima imperversante, non cambia la validità dell’intuizione iniziale, che va fatta risalire ai Maestri Rosacroce ancor prima che a Cagliostro, e alla coraggiosa anche se non del tutto consapevole appropriazione fatta in seguito dai sanculotti, che in qualche modo dovevano dimostrare a se stessi e al mondo come non tutto sia sempre sopportabile, non sempre digeribile.
Ma il materialismo sgambettò in un certo senso l’ideale d’avvio dei rivoluzionari, trasformandolo in un bagno di sangue, di dolore e di sofferenze; per cui quanto poteva esservi stato di buono nel triplice anelito di liberté égalité fraternité venne compromesso e distrutto subito dopo il suo insorgere; come sempre accade nei casi in cui la parte spirituale dell’idea scompare, in sua vece s’instaurò il Terrore; odio, brama, ferocia e sete di vendetta andarono a riempire il vuoto formatosi nelle anime degli agitatori, che a questo punto, senza averne il minimo sospetto, da rinnovatori della storia quali avrebbero potuto diventare, furono invece tutori dello scombussolamento politico, sociale e morale provocato, il cui simbolo era la ghigliottina!
La giusta aspirazione di vivere in un mondo dove tutti siano uguali fra uguali, dove il primo pensiero d’ogni membro del gruppo sia quello di preoccuparsi del bene altrui, in quanto bene comune, non è frutto di una particolare illuminazione interiore.
A loro modo anche i minerali, i vegetali e gli animali, sia pure in un abbozzo estremamente rudimentale, possiedono una specie di direzionalità che sorregge l’esistere immoto dei primi, informa lo svilupparsi dei secondi, e fornisce ai terzi quel senso d’orientamento prezioso per la loro stessa sopravvivenza.
Fin qui arriva la natura; ma per indagare su cosa sia veramente la libertà, la natura non basta. Negli esseri umani, grazie ad una coscienza che sempre piú sta diventando autocoscienza, comincia a filtrare e ad esprimersi la forza di un Io individuale, che non trova riscontro nelle altre forme create.
La capacità di mantenere la rotta, di seguire l’invisibile via tracciata dal destino, onde percorrerla con amore e gratitudine, qualunque essa sia e in qualsiasi forma si presenti, in quanto assunta come intimo compito individuale che diventa senso prorompente della vita (di quella vita di cui si è scelto, voluto e deciso di venir a vivere): con quale altro nome potremmo chiamarla se non moralità, senso etico, disegno prenatale segreto atavico, costruito tratto dopo tratto nel dominio spaziotemporale degli eventi, delle circostanze, dei momenti lieti e di quelli che con la loro ruvidezza rendono ancora migliore il ricordo dei primi?
Amare il prossimo, esigere una parità di diritti umani che si estenda senza eccezioni ad ogni uomo, sono sufficienti a colmare l’anima e la coscienza di senso etico, del quale è impossibile privarsi se non mediante autolesionismo: ma per la libertà no, non bastano. I buoni e i giusti possono solo mantenersi buoni e giusti nella loro sacca evolutiva, ma senza autocoscienza, senza autocritica, il riconoscersi semplici esecutori di princípi morali può in effetti offuscare l’anelito della libertà. Per emergere dal profondo, esso necessita di una caotizzazione, a volte tempestosa, dello status quo e dei valori ivi scolpiti.
Per dirla con Nietzsche, vergognarsi della propria immoralità non è altro che un piolo di quella scala alla cui sommità ci si vergognerà della propria moralità.
Perché tutto ciò che è in sé conchiuso, privo del divenire, diventa asfittico, stagnante; si avvizzisce nell’agonia dell’autocompiacimento, ed è quindi tutt’altro che libero.
La spinta della libertà non patisce soste, intervalli, relax; certamente necessita di requisiti come amorevolezza e senso etico quali sue indispensabili premesse, onde poter irrompere nella vita psicofisica. Ma qui poi deve intervenire la luce della conoscenza, che elevi la parola libertà dal livello ridotto cui l’abbiamo relegata, e renda i sentimenti di altruismo e solidarietà elementi essenziali al perfezionamento del germe individuale, del suo crescere giorno dopo giorno, privo una buna volta di maschere e camuffamenti vari.
Altrimenti facciamo come spesso si fa con i fiori ricevuti in omaggio: li mettiamo in un bel vaso, li curiamo per qualche giorno, e li vediamo lentamente appassire fino al momento in cui ce ne liberiamo perché divenuti spazzatura. Ci si accontenta, affermando che hanno fatto il loro effetto, hanno fatto la loro figura (che erano poi effetto e figura del donatore, mediante cui esternare la delicatezza e la raffinatezza del suo intendimento).
Una simile sceneggiatura è di per sé, nel tempo dell’anima cosciente, sintomo grave: l’incuria, la superficialità, l’approssimazione con la quale incontriamo il mondo, credendo di muoverci in esso disinvolti ed eleganti, denuncia la finzione delle riservatezze diplomatiche; le quali, pur scusabili sul piano umano, indicano comunque la distanza ancora da percorrere per condurre se stessi nella sfera dello Spirito: nell’Io Sono. Là dove non “è silenzio e tenebre la gloria che passò”, bensí è la gloria palpitante di chi, forse per avventura, forse per tenacia, ha rimesso al mondo le cose del mondo, e ha deciso di compiere un passo (a questo punto ne basta uno solo) per ricongiungersi con la sua Luce.
Qualcuno ha sostenuto che il terrorista è un rivoluzionario che ha perso; vorrei aggiungere di mio, che il vero rivoluzionario è a sua volta un uomo la cui moralità gli ha impedito di compiere sulla terra alcun gesto che possa in qualche modo ricordare rivoluzioni o ribellioni.
Veramente rivoluzionario è colui che ama la croce che porta sulle spalle; nei momenti di sconforto e di debolezza, subito se ne riscuote; chiede alla croce la forza per continuare a sostenerla. Sa che è il suo compito e che non lo può alleggerire spartendolo con terzi.
E qui, come si usa dire in questi casi, possiamo andare a rileggerci quanto scritto da Rudolf Steiner Steiner nella sua Filosofia Della Libertà: «Per il seguace del monismo, la moralità è una proprietà specificatamente umana, e la libertà è il modo umano di essere morali».
Ora la rilettura sarà sicuramente diversa da quanto possa esserlo stato in passato, tutte le volte che abbiamo incontrato o affrontato questa frase.
Ci sono stati dei film e dei romanzi che hanno avuto per titolo: “Il Coraggio della Verità”. In genere questo titolo ci è piaciuto; abbiamo pensato che in fondo si tratta di un’affermazione precisa, condivisibile, che può posare comodamente nella nostra anima, in quanto ne avvertiamo la veridicità e il potere di convinzione.
Quando però si risale quella scala di cui ci ha parlato Nietzsche e si arriva fino alla cima, dove – dice lui – avviene un’inversione dei valori, allora può accadere che pure questo titolo, cosí gradevole e accomodante, si presenti in una versione totalmente nuova.
Per giungere alla Verità non è che sia necessario avere prima il Coraggio; solo volendo la Verità fino in fondo, costi quel che costi, il Coraggio che ci porta da Lei, compare.
Ancora una volta abbiamo scambiato la causa col suo effetto.
Ecco quindi un bel proposito per l’Anno Nuovo: cerchiamo di non fare piú questo errore. Se amiamo la Verità, quanto essa ama l’essere umano, allora il Coraggio non sarà piú una cosa da dover cercare, o costruire col cuore e col cervello; sarà soltanto il modo umano di essere morali.
Diciamo di amare la luce e neghiamo di vivere nel buio delle tenebre; diciamo di cercare il Grande Amore, e neghiamo di sentire nei limiti angusti delle piccole empatie; pretendiamo una giustizia uguale per tutti, ma se dobbiamo sbrigare qualche pratica amministrativa urgente, ci rivolgiamo all’amico fidato che possa farci saltare la fila in attesa; affermiamo solennemente che la conoscenza sta alla base d’ogni progresso, e neghiamo le lacune dell’ignoranza (per scrivere il titolo di questo articolo ho dovuto verificare se la parola “uguaglianza” va scritta col “gl” o meno…).
Non siamo liberi perché non siamo nel vero. Pensiamo che al vero ci si debba accostare solo col Coraggio; quando accadrà (prima o dopo dovrà accadere) non avremo piú bisogno di chiamarlo Coraggio; visto dall’alto sarà semplice “ assenza di paura”.
Qualcuno, centotrentanove anni or sono, ha osato indicare l’“assenza di paura” col nome di Libertà.
Angelo Lombroni