Infiniti sono i passaggi di Amon Ra

Considerazioni

Infiniti sono i passaggi di Amon Ra

Amon Ra

 

Infiniti sono i passaggi di Amon Ra. Egli illumina il mondo, e il mondo si accende della Sua gloria. Egli avanza dentro l’eternità; prima di Lui nessuna cosa creata ebbe principio. Egli era grande fin dall’inizio. Benedetto sia il Suo Nome.

 

Potrebbe essere questo il pensiero di un antico Egizio? In esso non c’è nulla di nuovo, nulla che non si possa capire anche con una testa da XXI secolo. Una testimo­nianza semplice, quasi elementare, di fede, religiosità e fiducia. Cosí è lecito credere e nessuno potrebbe cri­ticarci per questo.

 

Ma dato per supposto che, in questo attuale periodo dell’evoluzione umana, fede, religiosità, e fiducia sono una specie di optional, recuperabili solo ad alto prezzo (nel senso di esperienza interiore, non certo economico) si può ritenere che la frase in apertura venga generalmente presa per fiacca e poco interessante. Una specie di enfasi mediante la quale un’eco sbiadita nel tempo, tenta di presentare ancora una volta le sue credenziali.

 

Tuttavia, se approfittando della nostra fantasia (tanto non costa niente) sforzandola un pochino ad imma­ginazioni atipiche, oniriche o mitiche (qua e là registi, scrittori, poeti lo fanno ancora) ci formassimo delle raffigurazioni mentali – ad esempio sui templi di Abu Simbel, o sui Moai di Rapa Nui – e potessimo, soltanto per un piccolo intervallo, contemplare (sempre sulle ali pindariche) quel loro ricevere la prima luce del sole ad ogni alba e riconsegnarla al cielo ad ogni tramonto: allora qualcosa in noi potrebbe mutare.

 

Un’idea del genere m’è venuta a galla molto lentamente nel corso degli anni. Cominciò un giorno in cui la mia inquietudine interiore cominciava a scalpitare un po’ troppo, fino a trasformarsi in una crisi esistenziale: cosa benefica, perché la crisi, come la febbre, serve proprio per questo; ti fa capire che sei giunto su un crinale e adesso devi decidere cosa fare: o ricadi giú, oppure passi dall’altra parte. Ma al momento questo non rientrava ancora tra le mie conoscenze; pertanto ero in crisi e basta.

 

Avevo provato piú volte ad risollevarmi il morale con l’ascolto di brani tratti dalla musica sinfonica; soprat­tutto la Terza Sinfonia di Ludwig Van Beethoven, che avevo oramai imparato a memoria; oppure la Cavalcata delle Walchirie di Wagner, che ridestava sempre in me un tema epico molto energetico, mi affascinava e, devo ammetterlo, a volte mi incuteva anche un po’ di paura.

 

Cosí, quando sentivo stanchezza, depressione o avvilimento, mi chiudevo nel salottino e in totale oscurità ascoltavo i miei pezzi preferiti. Era un primo passo.

 

Quello successivo si verificò in una tarda sera d’autunno, quando la TV trasmise un documentario sui “Luoghi Magici e Misteriosi del Pianeta”. Conobbi cosí, anche nei particolari, le statue di Abu Simbel e i Monoliti di Rapa Nui; nel vedere quegli antichissimi volti di pietra tutti rivolti ad oriente, in attesa del sorgere del sole, ebbi una strana sensazione, alla quale seguí una riflessione convincente: perché non ascoltare le musiche preferite, assumendo l’atteggiamento di una di quelle statue? Certo il loro aspetto granitico era per me puramente esteriore, ma io, volendo, potevo cercare d’interiorizzarlo.

 

Musica al mattino

 

Potevo restare in ascolto delle ondate sonore che mi si riversavano addosso, resistendo a quelle con la saldezza di una roccia.

 

Nulla mi garantiva di riuscirci; ma perché non provare?

 

Invece di cedere alle brame, ai dubbi, alle pas­sioni e ai tormenti che i grandi compositori avevano saputo imprimere nei loro temi musicali; invece di subire le sensazioni potenti ma dispersive che attra­verso l’udito aggredivano la mia anima, ora esal­tandola, ora sconvolgendola, ma anche infiacchen­dola; non avrei forse potuto opporre all’assalto di quelle vibranti potenze sonore, una mia maestosa, regale, tetragona imperturbabilità?

 

Con l’assumere una posizione corporea degna di un re sul trono, avrei potuto offrire all’esperimento un volto (il mio) che non avrei veduto mai, ma che sapevo e volevo atteggiato in una sfumatura di sorriso particolare; un sorriso eginetico, vero, profondo che poteva provenire soltanto dall’umano, nel momento in cui diventa consapevole di venire investito da una forza benefica superiore, travolgente ma non sconvolgente; in questo caso, l’offerta veniva personificata dal sole che sorge e tramonta. E naturalmente anche di tutto ciò che, dietro tale offerta, è possibile ravvisare.

 

Perché in fondo era questo che avevo potuto vedere in quel servizio sulle statue di Abu Simbel e di Rapa Nui. Nel passaggio della luce dall’alba al tramonto, mi si svelava la forza di una dignità cosmica, imperitura, che, volente, si concede tuffarsi nel tormento e nell’estasi della temporalità delle vicis­situdini umane. Ma il tormento e l’estasi riguardavano esclusivamente l’uomo, la sua anima, la sua interiorità piú intima e profonda, che – per sua decisione – poteva riaccendersi di vita, di amore e di pace, proprio grazie a quelli.

 

Ci provai e ne trassi un grande beneficio.

 

Le cose della vita nascono una dall’altra e ogni esperienza non è mai fine a se stessa; apre la porta ad altre successive: cominciai a pensare che – forse, dopo tutto – le musiche da me scelte per ricostruire la magia di quei momenti, non fossero le migliori per sottolineare le scene dell’antico Egitto e delle Isole della Polinesia. Ovve­ro: un certo tipo di musica mi aveva guidato a quei quadri ricchi di luce e di policromia, ma ora, il loro compito sonoro era finito; avevo bisogno di una nuova musica capace di incorniciare degnamente il miracolo visivo del Sole che posa la sua prima luce sul segreto di quelle statue, le rianima dal letargo della materia, e dopo dodici/ quattordici ore la ritira, riconse­gnandole all’ombra della notte.

 

Non ero certo che una tale musica esistesse; o forse sí, forse addirittura la conoscevo già, ma non mi riusciva di ricordarne una adeguata a questa mia necessità di rapportarla alla percezione ottica potente e colorata, che si era nel frattempo consolidata in me e sembrava volermi suggerire qualche cosa per ora non decifrabile.

 

Il messaggio mi arrivò in una piovosa mattina di tarda primavera. Era molto presto, mi ero alzato prima dell’alba; salito con la mia vettura sull’altipiano carsico, avevo iniziato a correre sui sentieri sopraelevati, col mare bene in vista nella panoramica sottostante aperta a 180°. All’improvviso il sole si levò, il fitto velo di nebbiolina si disperse in pochi attimi e dal costone roccioso a picco sul mare uno stormo innumerevole di gabbiani si levò in volo, con perfetta sincronia, lanciando al vento le loro roche strida.

 

Mi fermai ansante per la corsa ma anche per un’emozione nuova che si stava impadronendo di me. Quei gabbiani illuminati dal sole roteavano ora nel cielo limpido, bianchi, splendenti, ad ali spiegate e con l’impeto gioioso di una esibizione di frecce volanti perfettamente coordinata . Ebbi, per la prima volta nella mia vita, la netta percezione di assistere ad un rituale di ringraziamento, vero, antichissimo come le statue egizie di Abu Simbel e i Colossi dell’Isola di Pasqua.

 

Nei giorni successivi cercai di riflettere con calma; avevo scoperto la possibilità di ascoltare musica impetuosa torrificandomi, non contro di essa, ma semplicemente permettendo che mi invadesse e mi passasse oltre, lasciandomi ricreato dal profondo, senza aver subíto scosse o turbamenti, ma anzi rinvigorito e pieno di fiducia nella vita.

 

Musica al tramonto

 

Avevo visto nel volo mattutino dei gabbiani, la felicità della natura terrestre che veniva baciata dai primi raggi del sole. Perciò mi sembrò logico e con­seguente voler rivedere lo spettacolo nel momento opposto, nel tramonto.

 

Trovai il giorno adatto; mi appostai per tempo: poco dopo, mentre il sole con precisione millimetrica scendeva scomparendo lentamente nel mare, i gab­biani tornarono a frotte, garruli e veloci come ombre alate. Per effetto della loro mutata esposizione ri­spetto alla scena dell’alba, ora mi apparivano, di contro al rosso fiammeggiante dell’orizzonte, com­pletamente neri, scuri come le punte dei roccioni su cui stavano per appoggiarsi. Tornavano a casa, al giusto riposo, e mentre le ombre della sera riavvol­gevano rapidamente la visuale, compresi che quella scena altro non era se non la seconda parte d’uno stesso eterno rituale: si ripeteva quotidianamente nel tempo e nello spazio; ma il suo messaggio veniva da oltre il tempo e lo spazio.

 

Il quadro vivente era cosí completato . Ora mi restava il compito di trovare la sua cornice. Che non poteva essere puramente una cornice di note e di suoni; doveva essere lo spartiacque capace di trasformare il passaggio della motilità delle linee e delle tonalità di colore in un messaggio com­prensibile composto di vibranti armonie, gloriose e vivificatrici. Smisi di cercare; adesso capivo che sarebbe stata quella musica a cercare me. Non poteva che essere cosí. Non dovevo fare nulla; ogni presupposto era stato attivato; c’era solo da attendere il momento della percezione e ricono­scerlo per tale.

 

Non racconterò come avvenne: anche perché non ha importanza. Le cose accadono e qualche volta ci svelano i segreti dell’universo, qualche altra no, ma non è colpa loro. È che noi, gene­ricamente parlando, non sappiano stare in attesa millenaria come le statue di Abu Simbel o i capoccioni della Polinesia. Quella tenacia, quella durata, crediamo non appartengano all’umano. Almeno non ancora.

 

Può tuttavia accadere che grazie ad un rinforzino della costanza, qualcosa di buono filtri anche per gli esseri viventi di questa epoca e un messaggio remoto possa presentarsi in chiaro ad un’anima predisposta alla lettura.

 

Bach Toccata e fuga in re minore

 

Mi si presentò la “toccata e Fuga in Re Minore” di Johann Sebastian Bach come mai mi si era presentata prima; di colpo seppi che era quella la cornice cercata. Non che Beethoven e Wagner fossero compositori meno dotati di Bach, ma nelle musiche di entrambi sarebbe difficile ritrovare quella tecnica arcana e la gioia selvaggia con le quali il giovanissimo Johann Sebastian picchiava i tasti e i pedali dell’organo di Arnstadt, affidandosi ad una sicurezza melo­dica che gli poteva derivare soltanto dal fatto che la sua anima era immersa nella Potenza dell’Infinito. E la esprimeva da par suo, cantan­do la Sua gloria, attraverso rulli e canne, registri e tiranti, che, mentre producevano i suoni, di­ventavano sempre piú immensi, si dilatavano, prendevano le forme gigantesche e atarassiche di templi, statue e monoliti rivolti al cielo.

 

Era un inno della caducità rivolto all’eternità; un canto d’amo­re del divino imprigionato nella materia per il divino allo stato puro. L’organo di Bach suonava e faceva risuonare di sé il mondo intero; danzavano i gabbiani, si placavano gli oceani, la natura si beava nella luce, lo splendore del Sacro emergeva: la terra l’accoglieva con la devota sapienza dosata in colori e sfumature cele­stiali. Tutto era un’offerta di grazia maestosa, e tutto trovava risposta nella gratitudine estatica di poter con­traccambiare la benevolenza dello Spirito dell’Universo con l’antichissima gioia di servirlo ancora e sempre da quaggiú quale pegno imperituro di fedeltà.

 

Chi ascolta la Fuga in Re Minore mantenendo, senza sforzo eccessivo, un controllo equilibrato di sé, nonché una vigile, cordialissima apertura dell’anima per quel che gli proviene dalla musica e possa consociarlo alla visione di resti antichissimi, onorati nell’alba dal volo degli uccelli bianchi e, nel fulgore del tramonto, dai medesimi rientranti, ora divenuti neri per la controluce, può capire quello che sto cercando di spiegare. Perché la Toccata e Fuga di Bach si apre e si chiude con queste due ma­nifestazioni di riconoscenza della Terra. Per pochi attimi il Solenne ed il Sublime si posano sull’intima concordia dei dissidi di un mondo inquieto che cerca la pista della propria evoluzione, in mezzo alle dinamiche della necessità.

 

Non pretendo che sia proprio cosí. Posso anche accettare l’eventualità che il tutto sia frutto esclusivo di una mia esaltazione fantasiosa, la quale ad un certo punto mi ha preso la mano e si è messa a ricamare da sola. Il che non sminuirebbe di un minimicron quanto sono consapevole di aver raccolto. Anche se, ricordando Giuseppe Ungaretti e il suo “M’illumino d’immenso”, devo ammettere di non avere avuto questo tipo d’esperienza in esclusiva.

 

Ma come disse il poeta cosí caro a Dante, da sceglierlo per guidarlo nelle lande della Tenebra Perenne: «Basta con questi argomenti ordinari, ragazzo mio; innalziamo i nostri versi a cose piú alte».

 

Perché in sostanza quanto ho fin qui raccontato è stato un godimento animico; puro, bellissimo, genuino quanto si vuole; per il momento in cui è avvenuto e magari anche per un altro bel po’, rassicura e beatifica l’anima; ma prima o poi l’abbandona nel chiaroscuro del suo labirinto, sí che del ricordo resta solo una malinconica sfumatura, sorretta dal rimpianto d’averla smarrita.

 

Mi chiesi: per quanto sperimentabile come corrente di gioia vivificata, la Toccata e Fuga in Re Minore, non può dare piú di quello che ha: solleva il cuore d’un esule fino a fargli percepire inte­riormente la fulgida bellezza della patria lontana. È già tanto; non si può chiedere di piú. Segna il passaggio, ma non rivela il messaggio. Eppure la Scienza dello Spirito, quella in cui mi aggiro da molti decenni, dovrebbe essere in grado di farmi andare ben oltre le sensazioni cromatico-musicali. Possibile che non me ne sia mai accorto?

 

Infiniti sono i messaggi di Amon Ra, custoditi nei recessi profondi della terra; ciò che splende nell’alto si riaccende nel cuore del mondo; è il segreto che nessuno può violare; Egli fu grande all’inizio di tutte le cose, piú grande sarà prima della loro fine. Sia glorificato il Suo nome.

 

Per accorgersi di qualcosa si deve prima pensare e per pensare bene è necessario meditare; ma le meditazioni possono diventare una routine ed anche l’esercizio della concentrazione può subire nel tempo una sottile dispersione d’intensità, quasi sempre inavvertita, che trasforma la validità dell’azione in una specie di manierismo ritual-filosofico, in cui però l’elemento spirituale non è piú presente. Può tuttavia venir recuperato, ove sia avvertita la defezione in atto, attraverso sollecitazioni, esterne o interne, tali da indurre lo sperimentatore a costruire analogie positive e trarre da esse le comparazioni utili per una ripresa della tecnica corretta.

 

Rapa Nui

 

Nel caso in esame, l’idea che il passag­gio di Amon Ra (o del Sole ) possa equi­valere ad un messaggio rivolto ai simulacri dei Custodi del Mondo (chiamo cosí i Co­lossi di Pietra citati); che questi non solo lo comprendano accogliendone i contenuti, ma addirittura siano stati costruiti per que­sta specifica funzione, non mi sarebbe pas­sata per la testa, se le percezioni precedenti non m’avessero fornito gli ingredienti ne­cessari. Prima di allora, quand’anche l’aves­si letta da qualche parte, l’avrei presa per una delle tante “curiosità” con le quali scrit­tori e narratori riempiono libri, romanzi e articoli parascientifici.

 

Invece le analogie ci sono; sono presenti; offrono la possibilità di trovare parole per affermare l’intrinseca entità. Ma questa operazione di sintesi, per essere efficace, deve prima aver avuto come base una convinzione, frutto d’esperienza personale. Mi riferisco agli esercizi spirituali indicati da Rudolf Steiner.

 

Al di là di tutto ciò che possiamo dire sul valore degli esercizi (concentrazione e meditazione in primis), emergono dei fattori fondamentali che devono venir ribaditi di tanto in tanto, onde chiamare sempre in ballo la “coscienza-di-quel-che-si-fa” in quanto si è deciso di fare.

 

Forse non agli inizi, e forse neppure negli stadi intermedi, è possibile cogliere dei riscontri nel senso che, ripensati a posteriori (dopo aver finito l’esercizio), si trasformino in elementi comparativi; ma a lungo andare, sorgono nell’anima, si evidenziano sempre piú nitidi:

 

un raggiunto stato di calma ed armonia interiori;

l’assetto del corpo durante lo svolgersi dell’operazione;

l’adattabilità a sperimentare nella propria intima dimensione psichica un rapporto completamente sconosciuto all’esperienza dei sensi;

l’intuizione che quest’ ultimo rappresenta il culmine dell’affidabilità conseguibile all’essere umano di questa epoca;

l’imperturbabilità di “galleggiare” nella corrente del divenire, in cui centro umano e centro cosmico vengono – per un tratto – a coincidere, oltre i limiti dello spazio e del tempo.

 

 

 

Sono elementi sufficienti per poter sostenere che i “passaggi” astronomici del Sole (in questo articolo ho voluto indicarli sotto il nome di Amon Ra per dare un immediato riferimento all’antica spiritualità dominante la Terra) sono autentici “messaggi”; per nulla dissimili a ciò che nello svol­gimento degli esercizi della Scienza dello Spirito eseguiti correttamente, può venir accolto e appreso dall’anima umana.

 

 

Naturalmente è difficile condividere una tesi cosí azzardata: infatti manca la prova e la nostra attuale struttura psichica non ci consente di aver fiducia nei soli indizi. La prova consisterebbe quindi di avere la risposta bella e decifrata di tutti questi infiniti messaggi.

 

Tuttavia per avere una risposta “in chiaro”, i casi sono due: o il messaggio lo leggi in quanto è scritto in una lingua che conosci, oppure, se non lo è, devi imparare il nuovo linguaggio adatto al­l’occorrenza.

 

L’attuale modo di ragionare procede sempre da un concetto di causa a cui succedono effetti conseguenti; ma sono riflessioni eseguite nello spazio e nel tempo, avvero sottoposte alle leggi terrene della cadenza e della sequenza.

 

I limiti dell'Interpretazione Eco

 

Nulla di errato, tuttavia costringente a indirizzare il pensiero su una modulazione monocorde. Per cui mi è stato molto d’aiuto libro di Um­berto Eco I Limiti dell’Interpretazione, nel quale l’Autore sosteneva che non sempre la consecutio di causa/effetto porta alla verità; in compenso può portarci da altre parti, che vengono prese per verità indiscutibili e diventano princípi e assiomi del sapere e della cultura.

 

Sapevo già dal liceo che il nome di Penelope non significa “Colei che tesse la tela”, bensí colei che tesse la tela portava il nome di Penelope; Telemaco non significa “Colui che attende ad una guerra lontana”, ma colui che attende ad una guerra lontana aveva il nome di Telemaco; del pari Ercole, derivava dall’ “Orgoglio di Era”; Proserpina nasceva come nome per “Colei che avanza strisciando”; Persefone era la “Principessa Fior Di Pesco”; Polifemo era “Colui che aveva molto da dire”, e via dicendo.

 

La causa stava nel nome; l’individuo che lo portava ne era l’effetto.

 

Tutto riassunto poi nella frase latina “Nomen Omen”. Non mi importa qui la scientificità deducibile dagli esempi; m’importa che nei tempi antichi, era ben presente il fatto che nei nostri nomi stava già racchiuso il tracciato biografico che si sarebbe riversato in seguito nel corso dell’umana esistenza dentro un percorso karmico ancestralmente predisposto in quanto pura e semplice potenzialità.

 

Ecco il senso di accostare al concetto di “passaggio” (astronomico, fisico, sensibile) il concetto di “messaggio” (metafisico, psichico, impercepibile). Non sono un esperto di scienza neurologica, ma mi pare che se andiamo a considerare alcuni elementi relativi al funzionamento del cervello, scopriremo l’uso di termini come “sinapsi” e “telodendri”, per indicare un fenomeno in apparenza molto semplice: l’accostamento di due polarità di differente natura che non si congiungono, ma rimangono ad una distanza sufficiente per scatenare tra loro una reazione “telodendrica”, ovvero il passaggio di un’onda psichica dal polo donatore al polo ricevente capace di promuovere un determinato effetto.

 

Mano di Adamo

 

Come può non balzare alla mente, in un lampo di chiarore estremamente significativo, il particolare del Giudizio Universale di Michelangelo, in cui la mano del Signore e quella del Primo Uomo sono ritratte sul punto di toccarsi?

 

Cosa sta avvenendo in quel minimo spazio? È un passaggio e al contempo è una comunicazione.

 

Il vocabolo “Pasqua”, tradotto dall’antico ebrai­co, significa “Il Passaggio”, parimenti il concetto di Pasqua assume per l’intera cristianità il valore di “Messaggio di Pasqua” (cui il Dottore, mi pare, ha dedicato moltissime parti nella Sua vasta opera).

 

Abbiamo una nuova conferma: nel mondo della fisicità, è necessario che la congiunzione avvenga sul piano sensibile per produrre i suoi effetti, mentre al livello soprasensibile, la vera congiunzione si realizza in un passaggio di forze (probabilmente di natura eterica) recanti il loro messaggio non fatto di parole, concetti o frasi, ma di continui impulsi di vita e di resurrezione.

 

Resurrezione

 

Massimo Scaligero coniò un mantra nel quale, a mio parere, viene puntualizzato, con la poetica lucidità del Maestro, l’avvenimento che ho cercato di illustrare in questo articolo attraverso una escalation di prese di posizione interiori, che mi sono sembrate importanti per quanti cercano un soffio di spiritualità liberatrice all’interno del marasma esistenziale.

 

Questa è la parte che riguarda il Passaggio:

 

Il discepolo contempla in sé un mistico sole, sim­bolo di tutta la forza e della sua invincibilità. Egli può rendersi conto della intensità conseguita, quando sente sparire, come riassorbito dalla virtú di questo Sole, ogni moto della psiche.

 

Questo sia il Messaggio: In effetto non esistono difficoltà esteriori, bensí tensioni della psiche rivestenti i drammi umani.

 

Da Amon Ra al Sole e dal Sole al Logos.

 

 

Angelo Lombroni