La proposta di Filippide

Considerazioni

La proposta di Filippide

Filippide

 

Filippide, chi era costui?

 

In effetti le cronache sono un po’ ambigue; il racconto che riguarda da vicino questo personaggio offre versioni discordanti perfino sul nome. C’è chi lo chiama Fidippide, chi Filippida, ma ciò non toglie all’emerodromo greco il merito, e anche il record storico, di aver corso dalla Piana di Maratona fino ad Atene per annunciare ai suoi la vittoria sull’esercito persiano.

 

Un leggenda parallela vorrebbe che la corsa fosse prima dirottata su Sparta, al fine di chiedere immediati rinforzi, per contrastare la seconda ondata dei Persiani, che certamente non si sarebbero fermati dopo la batosta subita. In tal caso, facendo il calcolo delle distanze, col metro lungo, il percorso svolto dl nostro Filippide non sarebbe stato di quei soli 42 chilometri, che hanno consegnato poi il titolo al mondo dello sport, bensí di 480; natu­ralmente con durata maggiore e presumibili piccole soste.

 

Altra versione ufficiosa: ricostruendo un nuovo percorso, la passeggiatina di Filippide ebbe a durare un giorno e mezzo ed in questo caso i chilometri furono invece 240. Ma non è il caso di cavillarci sopra.

 

Interessante piuttosto l’etimologia del nome: Filippide, portando in sé il filos e l’ippos, potrebbe valere quale “amico dei cavalli”; Fidippide invece si leggerebbe come “simile ad un cavallo che risparmia le forze”: entrambe le definizioni, pur nella loro sostanziale diversità, calzano a pennello per tutti i maratoneti del passato e del futuro.

 

La mia decisione di scegliere la storia di Filippide non sorge però dal fatto di voler celebrare il merito sportivo o l’intento patriottico: parto dall’esempio del nostro maratoneta, per mettere a fuoco un particolare che ritengo interessante.

 

Come fa un uomo – chiedo – anche se bene allenato, quanto di sicuro lo erano gli emerodromi di quel tempo, a percorrere a perdifiato anche soli 42 chilometri e qualche centinaio di metri in piú, spinto dalla volontà di trasmettere ad altri una comunicazione importante?

 

La domanda è ovviamente pleonastica; se l’azione corrispondente è stata eseguita, se rientra nelle pos­sibilità dell’ umano, significa che è fattibile. A questo punto ci si può chiedere: dipenderà certo dal fisico e dall’allenamento alla corsa, ma in quale misura dipende dal contenuto della comunicazione?

 

In altre parole: se la notizia da riportare viene sentita dal soggetto corridore come questione di vita o di morte, le energie psicofisiche si trovano e aumentano in proporzione; se invece si tratta di una banalità o di qualcosa che non riveste il carattere della primaria importanza, tutto ciò non accade e le gambe tendono a rimanere ferme.

 

Dal momento che la cosa appare meritevole di approfondimento, su di essa punto il riflettore; voglio capire quali dinamiche entrino in gioco per far sí che la situazione interiore di un uomo possa ribaltarsi al punto di passare dal bianco al nero; per il caso in esame, da uno stato di inertia agendi ad uno di superfacoltà, non dico extraumana, ma quasi.

 

A tal proposito ho un ricordo ben vivo che ora mi torna buono; nel lontano 1957, in connessione con gli esami d’ammissione liceale, c’era anche il brevetto atletico da eseguirsi sul campo sportivo della scuola. Il titolo di brevetto atletico era un po’ pomposo: si trattava semplicemente di svolgere alcune gare già praticate nell’ordinario corso ginnico (salto in alto, corsa, lancio del peso, pertica e funi) prendere nota dei risultati e stilare una graduatoria.

 

A quei tempi ero una schiappa; nel senso che pur essendo di corporatura robusta, per non dire grassottello, ero piuttosto pigro, amavo il “dolce far niente” e con grande cura schivavo le fatiche fisiche; rispetto ai miei compagni di allora, tutti molto appassionati per il calcio, lo sci e la vela, ero rimasto quindi piuttosto indietro quanto a prestazioni fisiche e sportive.

 

Alla gara di corsa sul chilometro ero stato scartato a priori, perché nelle preselezioni mi ero qualificato diciottesimo (su ventuno allievi della mia classe) mentre i destinati alla gara principale dovevano rientrare nei primi dieci.

 

Accadde però un fatto piuttosto insolito: l’insegnante di educazione fisica che arbitrava la prova aveva lasciato il suo cronometro e la tabella di gara (quelli previsti dal regolamento) nello spogliatoio; sicché, quando la partenza dei corridori era già scattata, trovandosi sprovvisto degli aggeggi indispensabili, si girò lanciando attorno uno sguardo preoccupato, per vedere quale soluzione adottare e per giunta in tutta rapidità.

 

Mi adocchiò seduto assieme ad altri esclusi a far da spettatore, lungo il muricciolo che delimitava la pista, e scelse, chissà perché, proprio me (non me lo spiego nemmeno oggi che son passati sessantadue anni) . Con quattro grida quasi isteriche mi ordinò di correre immediatamente allo spogliatoio e riportagli i preziosi aggeggi di segnatempo e di punteggio.

 

Per la cronaca lo spogliatoio distava circa quattrocento metri dal punto in cui ci trovavamo; tenuto conto del ritorno, avrei dovuto correre quasi quanto i gareggianti, che nel frattempo avevano già compiuto mezzo giro di pista.

 

Il corridore

 

Per farla breve, riuscii a svolgere la mission pochi secondi prima che il vincitore passasse al traguardo: ero sbalordito anch’io: avevo percorso ottocento metri fuori pista in poco piú di quattro minuti; se lo avessi fatto nelle preselezioni, sarei stato sicuramente nella finale.

 

Devo dire che l’insegnante mi guardò con un certo sospetto in quanto la cosa parve poco possibile pure a lui, ma vinto dalle circostanze e lieto del buon fine, mi rese onore e comunicò la mia piccola impresa a tutta la scolaresca, che – per la prima volta in vita mia – mi festeggiò con grande cordialità, anche se il mio apporto sportivo non aveva portato punteggio alla squadra. Quel giorno mi sentii il vincitore morale su tutti; poco importa se tale vittoria non abbia avuto imprimatur, effetti e cerimonie. Chi c’era, c’era, aveva visto con i suoi occhi. E in quel mo­mento non c’era nulla di piú bello al mondo, che l’aver scoperto in me almeno una possibilità ancora non conosciuta, tutta da approfondire.

 

Quel che però vorrei qui ricordare, e ci tengo, non sta tanto nel fatto in sé, vivace ed eclatante di una prestazione gagliarda, quanto in ciò che mi accadde durante la corsa semi-campestre, datosi che a quel tempo la strada su cui correvo era irta di pietroni ed erbacce di certo non utili ad un movimento fluido e regolare delle gambe.

 

Nei quattrocento metri dell’andata, la forza dell’impegno assunto, l’idea che l’istruttore avesse voluto ricorrere a me per una sua necessità inderogabile, il pensiero che se anche quella volta non ce l’avessi fatta, mi sarei sentito rabbiosamente avvilito, la rappresentazione dei miei compagni che avrebbero dovuto ripetere la gara, e che sicuramente non m’avrebbero ringraziato per il repete: tutto questo mi aveva letteralmente, come si suol dire, messo le ali ai piedi; e nel percorso di ritorno, dopo aver acciuffato al volo cronometro e tabellino, il fatto di tenere in mano e di stringere con saldezza il motivo della fatica che stavo compiendo, mi aveva centuplicato le forze. La respirazione era quasi regolare; le gambe mi giravano da sole, evitavano le asperità del terreno accidentato quasi avessi gli occhi sulla punta dei piedi e sapessi bene dove appoggiarli. Non ne sono del tutto certo ma ci fu un momento in cui mi parve di poter andare avanti cosí all’infinito; sperimentai una consapevolezza strana, nuova: la mia forza nasceva da quegli oggetti che tenevo in mano e che dovevo riportare a chi di dovere; se ce l’avessi messa tutta, nulla e nessuno me l’avrebbe impedito.

 

Qui arrivo al nocciolo della questione: dapprima, e per molto tempo, ho pensato fosse solamente un convincimento mio, soggettivo; forse, dopo tutto, ero fatto in modo per cui sentivo lo stimolo di un impegno assunto in modo esagerato e magari con un pizzico di esaltazione. Strano, però, dato che al momento in tutte le situazioni della mia vita mi comportavo invece proprio al contrario, ero di carattere flemmatico e poco propenso all’agire immediato. Quando poi mi muovevo per fare qualcosa, me la prendevo sempre con calma, avendo bandito la parola “urgenza” dal mio vocabolario.

 

Questo fino a che non ho cominciato a praticare lo sport con una certa determinazione: dal nuoto al canot­taggio, poi dal canottaggio all’atletica pesante, e infine da quest’ultima alla lotta libera. Garantisco che nel giro dei seguenti quindici anni, ho appreso ad agire in modo veloce e senza esitazione. Ma a quel tempo le cose non stavano cosí, né potevo prevedere che sarebbero cambiate: per tutti i miei amici e conoscenti restavo la schiappa di turno, a cui si può voler bene ma non scegliere come compagno di gara.

 

Sull’esclusività dell’accaduto mi sbagliavo, e quando lo scoprii, ne rimasi contento. La prerogativa della motivazione vincente che raddoppia le forze psichiche e fisiche, non era solamente un credito mio personale. Si trova latente in ogni essere umano, e tale potenzialità rimane nascosta fintanto che non si sperimenta il punto in cui la fiducia in se stessi incomincia a farsi valere.

 

Allenamento alla lotta

 

Sembra il segreto di Pulcinella, eppure nel periodo in cui alle­navo i ragazzi di 15/18 anni nell’esercizio della lotta, dovetti con­statare quanto grave fosse il male interiore di non credere in se stessi, di non potercela fare, e di conseguenza vedere il mondo degli altri dividersi tra “bravi e capaci” e “inetti e perdenti”.

 

Una simile conclusione, non mediata, non controllata, porta a sentirsi soli, alla disperazione, a vivere con la sensazione di non essere all’altezza degli altri: di conseguenza, non avendo mai tro­vato la fiducia in se stessi, ci si sente spinti a difendersi da tutto e da tutti, nascondendo le proprie paure, le fisime, le riserve mentali, senza mai svelarle a nessuno (e come si potrebbe farlo dal momento che non ci siamo neppure accorti di averle?).

 

Appunto perché inespresse, queste lavorano notte e giorno minan­do le forze pure dell’Io ed esaltando ovviamente quelle dell’egoità, che cosí s’impadronisce lentamente del potere centrale dell’essere e da lí lo trascina a livelli sempre piú bui e compromettenti.

 

Ma viene il momento nella vita di qualunque uomo in cui è possibile che il karma individuale si configuri in sintonia col volere dell’Io, e allora non c’è piú trippa per i gatti! Una situazione inattesa, completamente diversa da tutte le altre (che all’inizio può anche presentarsi sotto aspetti negativi) avanza verso di noi: allora con una decisione che sembra venire dai piú remoti recessi della nostra interiorità, decidiamo di andarle incontro a cuore aperto: non per affrontarla, non per superarla, non per aggirarla, ma per viverla fino in fondo, perché abbiamo intuito che alla fine essa ci consegnerà un messaggio essenziale per il nostro ulteriore cammino verso la verità.

 

In un primo momento, a questo manoscritto, avevo dato il titolo di “La Sindrome di Filippide”, ma in seguito, nel costruire le argomentazioni, mi è parso piú appropriato cambiare la parola “sindrome” in “proposta”. Questo per il fatto che mettere in risalto una sindrome è quello che già facciamo ogni giorno, denunciando quotidianamente ciò che va male nel mondo (ovvero quel che di esso non ci garba), senza soffermarci neppure per un istante su quanto invece funziona bene. Il male, nelle sue infinite varianti, resterebbe privo di significato se non fosse trasformabile in un bene; anzi, possiamo dire che ogni male è uno stimolo che spinge le anime umane a cercare un rimedio, e qualche volta succede che tale rimedio sia per davvero un bene.

 

Allo stato attuale io credo fermamente di non essere venuto qui, in questo mondo, per lamentarmi, criticare e protestare per le tutte le cose negative che rendono difficili e grevi l’ esistenza, anche se la disposizione alla continua lamentazione è divenuta ormai la base di ogni discorso pubblico o privato.

 

Credo invece che tutti gli uomini siano qui per glorificare le esistenze terrene; per renderle tali da diven­tare supporto armonioso per la vita avvenire, sia nella sua modalità fisica sia in quella metafisica.

 

Quando una tale convinzione non si era ancora formata dentro di me, e pertanto non aveva ancora messo radici nella sfera del pensiero né in quella dei sentimenti, ogni mio riferimento alla vita quotidiana era costituito da una critica o da un commento, o da una rampogna, che gareggiavano tra loro per amarezza, delusione e intolleranza. Era la situazione ideale per peggiorare le cose, perché se uno se ne va per il mondo pieno zeppo di pensieri nefasti contro tutto e contro tutti, costui è veramente un “untore” di malanni e non lo sa; questa è la fregatura! Crede, s’illude di essere un giusto, una personcina per bene, è convinto di avere molti diritti (e pochi doveri); si concede che la sua protesta, il suo apporto fattivo allo scontro, siano moralmente plausibili; mentre quel che vi è di morale e di plausibile in tutto ciò, è solo il fatto d’esser stato messo fuori pista da oscuri, ingannevoli instradamenti.

 

L’ingenuità è meravigliosa nei bambini che crescono, ma non può durare oltre un certo periodo; l’inge­nuità nel tempo e nell’esperienza del sensibile si trasforma; tuttavia non ha bisogno di sparire; può diventare “genuinitas”, che è schiettezza e si addice all’adulto in quanto tempra del suo carattere (per inciso le parole latine di ingenuitas e genuinitas sono composte dalle medesime lettere).

 

Ma chi non si cura di questa trasformazione, non s’accorge che il vento della protesta, sterile e inutile quanto un pallone sgonfiato, lo domina e gli s’impone solo per impedirgli di formulare pensieri chiari, determinazioni risolutive, decisioni oggettivamente valide.

 

La sindrome delle proteste (questa sí che è una sindrome per davvero) gli fa vedere un film girato ad arte, e al contempo lo priva della visione della vita reale, quella che avrebbe dovuto (e forse voluto) incontrare, se non si fosse lasciato sedurre dalla brama di intervenire operativamente mediante un agire impulsivo e caotico, istigato dal puro egoismo, oramai schiumante di frustrazione rabbiosa, che, in questa epoca, appare come condizione ricorrente.

 

Quindi non la sindrome di Filippide, di cui talvolta c’è fatto obbligo di sopportare la condivisione del karma, bensí “la proposta”, dato che – ripeto – il male si presenta per venire guarito da quelle stesse forze che esso suscita.

 

Vi è una dimensione delle probabilità e vi è una dimensione delle possibilità. Tra le due corre una diffe­renza sottile ma decisiva: la possibilità riguarda l’aut aut di un evento: o succede o non succede. La probabilità invece stabilisce la percentuale dell’esito positivo su quello negativo. Nei comuni discorsi si tende a confondere le due cose, e quindi la distinzione deve venir eseguita con una certa attenzione.

 

Paradosso di Schrödinger

 

In fondo il senso della prima maratona fatta dal Filippide si specchia, duemila quattrocentottanta anni dopo, nel Paradosso di Schrödinger (Copenaghen, 1935): prima dell’esperimento esistono due soluzioni teoriche: quella positiva e quella negativa. Non si scappa. La leggenda di Filippide lo fece correre nella possibilità.

 

Ma che io fossi in grado con le mie gambe di ri­portare il cronometro regolare all’allenatore distratto, non presenta soltanto il lato della possibilità, sul quale c’è sempre poco da dire, perché bisogna attendere il risultato; presenta altresí l’aspetto della probabilità, sul quale, prima del compimento del fatto, si sarebbe potuto fare un sacco di illazioni.

 

Sono stato colpito da un pensiero non del tutto ortodosso secondo la logica corrente, ma dal momento che mi è piaciuto e mi ha pure divertito, lo espongo affidandolo alla benevolenza di chi lo leggerà.

 

La parolina “pro-pos-ta” ha un suo etimo ben noto e verificabile. Tuttavia se considero il duplice prefisso (“PRO” e “POS” ) non posso fare ameno di vedere nel vocabolo la presenza contestuale sia dell’inizio della parola pro (-babilità) che quello della parola pos (-sibilità).

 

Il che, secondo il mio modo di osservare le cose, significa che nel concetto di proposta vivono entrambe (potenzialmente, in una specie di simbiosi sovrasensibile) sia la probabilità, sia la possibilità.

 

Lo so, la mia è una spiegazione ascientifica inaccettabile da esperti lessicologi o analisti logici, ma almeno in senso artistico funziona, mi rivela un legame. Questo come si spiega?

 

Se pensiamo al mondo spirituale, alla vita delle idee e dei concetti, non dovremmo meravigliarci: ciò che nell’eternità è compresente, nella dimensione umana viene riflesso, ma sottoposto alle leggi dello spazio e del tempo; per cui l’uomo è indotto dalla sua stessa esperienza del mondo, coltivata a spanne, a cogliere il lato piú materialistico della “proposta”; quello che si può misurare, soppesare e quantificare in numeri: che è la probabilità.

 

Santo

 

Prendiamo ad esempio una nota frase di Alessandro Man­zoni, tratta dai Promessi Sposi: «Poi che si è saputo che i Santi operano per il bene, si è tentati a credere che basti operare per il bene per essere santi».

 

In realtà l’inghippo nasce dal fatto che si scambia, senza av­vedersene, la causa con l’effetto: che i Santi operino per il bene è, senza dubbio, una possibilità indirizzata ad un esito ovvia­mente affermativo. Ma che basti fare il bene per essere Santi, si presenta come una probabilità tutta ancora da scoprire.

 

La possibilità non può mai venir contraddetta, in quanto ab­braccia sempre l’intera alternativa di cui si compone; la proba­bilità invece, basata sulla sola quantità, può venir annullata dal suo contrario.

 

Tutto questo per il motivo che la possibilità viaggia in una dimensione che sulla terra non si è ancora concretamente realizzata, mentre le probabilità nascono dall’ipotesi astratta di una previsione circa la medesima. La prima è quindi legata all’origine degli avvenimenti, le seconde al modo umano di studiarli.

 

È per questo che il mondo delle scommesse nasce dal gioco delle probabilità: non potrebbe provenire da quello delle possibilità, in cui l’evento (positivo o negativo che sia) è pur sempre contemplato ab origine.

 

Lasciando i giochi della dialettica a quanti amano aggirarsi per i suoi labirinti, adesso trasportiamo di peso l’intero problema al livello di spirito umano e Spirito Universale: a questo punto possiamo domandarci: potrà il futuro degli uomini del pianeta Terra coronare degnamente l’evoluzione verso il mondo dello Spirito, oppure, nel caso che questo non succeda, il progetto dovrà avvalersi di soluzioni alternative nelle quali l’at­tuale protagonista non sarà piú ricompreso?

 

Quesito impossibile: astruso e pure un tantino arrogante, dal momento che nel perdurare della vicenda è difficile intravedere la conclusione ideata dall’Autore. Ci si può sempre chiedere tuttavia se tale problema sia inquadrabile valutandolo nella sua possibilità oppure come una probabilità.

 

Credo di aver trovato una risposta ragionevolmente valida nell’osservare la virtú della creatività, specie quella dei bambini. La possibilità che ne venga fuori un individuo capace di percorrere la via dello Spirito esiste sempre. Del resto l’anima si è incarnata per questo fine.

 

Ma la probabilità del successo dipende ogni giorno, ora e minuto, dall’ esperienza che essa anima acquisirà ed elaborerà durante la sua carnale esistenza. Ogni progetto, ogni mandato, ogni indirizzo potrà essere rispettato, ovvero contraddetto, schivato, raggirato, e anche tradito, proprio perché l’uomo non è ancora l’Uomo, ma è qui su questa terra, in questa vita, in queste situazioni, per diventarlo.

 

In tutti i bimbi del mondo, almeno durante il loro primo settennio, le forze dello Spirito sono ancora talmente possenti e radiose che il loro immaginare non subisce il contraccolpo dei limiti, che invece ci comprimono poi nelle età piú avanzate. Questo immaginare è la forza pura della vita dell’anima ancora non carpita dagli incantesimi della terrestrità, del mondo dei sensi e delle sensazioni.

 

L’essere umano adulto vive corrompendosi in queste attrattive; eppure nel farlo sente risuonare in lui una misteriosa eco che potrebbe evidenziarsi sotto forma di antichissima “proposta”, quella che contribuí a far correre Filippide, quella che fece correre il sottoscritto, in circostanze che, per la cronaca, sarebbero solo da ascriversi alla motivazione contingente, cosí almeno ritiene l’attuale psicologia.

 

Ma invece dipendono dall’agitarsi esclusivo di una reminiscenza ancestrale, anzi prenatale, che non smette mai d’inviare messaggi, che di regola noi non sappiamo leggere, in quanto li riempiamo subito di micro-compresse personali spesso futili e insensate: dimentichiamo (o fingiamo di dimenticare) di aver preso in carico il compito di esistere temporalmente nel regno del fisico-sensibile per trasformarlo il piú possibile in un regno umano-spirituale.

 

Su tale dimenticanza ci giochiamo in una tutte le possibilità e le probabilità: perché se non si arriva ad intuire una meta, piú forte di qualunque seduzione esistenzialistica, questo nostro vivere, questa nostra ossessione di realismo materiale, questa adorazione incensante tutto ciò che è empio ed antispirituale, non fruttificherà mai nel senso voluto dall’anima allorché assunse l’onore e l’onere dell’impegno essenziale di reincarnarsi.

 

Per contro, anche un unico remoto barlume di pensiero voluto può dissipare in un attimo la nuvolaglia che ottenebra il cuore e la mente; la redenzione dell’anima, lo sappiamo, non ha bisogno di permessi speciali; quando arriva, ogni proposta è una sintesi superiore in cui possibilità e probabilità sono già armonicamente fuse in partenza.

 

Visto che ho cominciato questo articolo ricordando l’evento di Maratona, voglio concluderlo con un altro fatto dell’antica Grecia: la battaglia delle Termopili. Fra le molte versioni, e non certo la piú verace, ce n’è una che ho sempre sentito tenacemente persuasiva; vi attingo molto di frequente quando mi trovo in diffi­coltà. Ultimamente succede spesso. L’ambasciatore dei Persiani rivolto a Leonida, comandante i trecento asserragliati nella gola del Monte Eta, minacciò: «Il nostro esercito è cosí numeroso che all’alba, quando vi attaccheremo, le nostre frecce oscureranno il sole!».

 

Al che Re Leonida, rivoltosi ai suoi, replicò: «Allegri ragazzi! Domani si combatte all’ombra!»

 

Potrebbe essere una buffonata? Probabile.

 

Potrebbe essere un atto eroico di valore militare ? Possibile.

 

A me importa esclusivamente il pensiero capace di pensare una siffatta risposta: quando viene evocato per un impegno sacrificale, tale pensiero sa rendere l’anima umana intrepida per quel che basta a cambiare la storia. E non solo quella di un singolo.

 

Staffetta

 

Tra le varie competizioni sportive dell’atletica, la staffetta prevede che i concorrenti abbiano in mano durante la gara un oggetto tubolare chiamato “il testimone”. Si evidenzia cosí quanto affermato in preced­enza: l’ essere consapevoli di avere un qualcosa da consegnare all’ar­rivo, anche alternandosi nello sforzo con i compagni di squadra, richia­ma forze suppletive, in chi vuol vivere in un certo modo l’impegno.

 

Il “testimone” non è quindi solo un oggetto prezioso da portare e da non perdere lungo il cammino: è il simbolo di una decisione volitiva che può farci percorrere 100, 400, 42.120 metri e anche piú, con una velocità che altrimenti non avremmo mai saputo correre.

 

Nei momenti di esecuzione del cimento, ogni altra cura mondana cessa di esistere: deve cessare, deve ritirarsi, non può piú imporsi, perché cede il passo ad un particolare stato di silenzio: un silenzio interiore che sovrasta tutti i rumori esterni, un silenzio in cui il rito si consuma grazie all’ardore, al sudore di un corpo umano ansante e ad un cuore indomito che galoppa verso il suo traguardo.

 

Come un tempo ebbe a scrivere Massimo Scaligero : «…e nel silenzio, il “Testimone Occulto” affiora».

 

 

Angelo Lombroni