Non chiedetemi il nome
né la stirpe,
né il luogo da cui vengo,
ero soltanto
sulla panca di voga
uno dei prodi
compagni di Giasone
convenuti
dai regni della Grecia,
in apparenza
per un’impresa
mai tentata prima:
recuperare il vello
di un ariete
dalla remota Colchide,
una pelle
dalle arcane virtú
di guarigione,
che rendeva ogni oggetto
imponderabile
e trasformava l’oro
in medicina
per i mali del fisico
e dell’anima.
Piú che un progetto
di conquista, un viaggio
che per le mille insidie
si annunciava
senza ritorno.
E forse proprio questo
inespresso era il fine
cui anelava
ciascuno degli eroi,
un’occasione
per espiare lutti
e vessazioni
che ogni contesa
in ultimo comporta.
Cosí partimmo
tra preghiere e osanna,
Giasone brindò fiero
a Posidone,
intanto che salpavano
le ancore
della nave, un portento
che da Argo
aveva preso vita,
corpo e nome:
il fasciame
dai pini di Tessaglia
calafatato in pece
dell’Assiria,
la prua scolpita
nella quercia sacra
di Dodona,
l’oracolo di Zeus.
Cinquanta ai remi,
gli altri ai vari compiti:
Glauco al timone
ed il cantore Orfeo
incaricato
di segnare il ritmo
della vogata
in sincrono e cadenza,
stornando con il canto
le Sirene
dall’attirare in mare
i naviganti
e farne preda
per mortali amplessi.
Nella nobile ciurma,
poi, veggenti,
apicoltori, principi,
indovini,
un assortito
repertorio umano
di vanità, potenza
e disinganno:
Ercole, Telamone,
Meleagro,
Atalanta e Ceneo
che, nate donne,
vollero farsi uomini
e provare
che l’anima gentile
all’occorrenza
diventa audace
come la virile.
E in tono con
l’intrepida valenza,
pronta alla pugna,
sempre all’erta, ecco
nella stiva ogni sorta
di strumento
letale: spade, lance,
dardi, frombe,
marchingegni di guerra
o deterrente
per uccidere draghi,
mostri e arpíe.
Ma i peggiori nemici
erano dentro
le profonde coscienze
dei valenti
nocchieri e rematori,
semidei
divorati dal fuoco
del rimorso.
Però si andava,
e il giorno era piacevole
distrarsi ai salti
argentei di focene
tra onde blu cobalto,
sempre avanti,
lasciando tracce
a Lemno e Samotracia,
passando senza danni
le Simplègadi,
tenaglie che
frantumano equipaggi,
noi però indenni
verso il Ponto Eusino.
Ma la notte,
dal nero degli abissi
salivano a migliaia
nottiluche
ad intrigarci
con fosforescenze
pulsanti come
i cuori delle troppe
vite spente in duelli,
assalti e stragi.
Larve d’uomini
e donne, di innocenti
massacrati,
per nemesi mutati
in Erinni ossessive,
divoranti
le nostre essenze
animiche. Per questo
piú che il trofeo
del Vello conquistato
a sanarci fu il viaggio.
Le fatiche
e gli sgomenti,
le amarezze, i duri
soliloqui del Sé
giunto allo stremo,
ci valsero il perdono
degli Dèi,
l’abbraccio umano,
la fraterna pace,
Eumenidi,
le Erinni, diventate.
Cosí leggera
ritornò la nave
in volo a Iolco.
Dopo periegesi
per terre sconosciute
e ignote genti,
noi, gli Argonauti,
presi dal mistero
che aveva sciolto
i nodi e le catene
che opprimevano
i cuori alla partenza.
Questa la ricompensa,
questo l’oro.
Come somiglia
la leggenda al fato
della nostra
presente civiltà:
Argonauti in un mare
senza sponde,
il miraggio dell’oro
inesauribile,
la Colchide
e le insidie del futuro,
col drago che
dissemina guerrieri
per eterni conflitti
distruttivi,
l’uomo nemico
di se stesso. Vale
affidarsi alla dea
dell’armonia,
Pallade Atena,
vergine sapiente,
che porta l’equilibrio
nella forma,
luce e saggezza
nel pensiero umano,
spirito dell’Eterno
Femminino.
La nave allora
viaggerà sicura,
e fiorirà l’ulivo
sulla pietra.
Fulvio Di Lieto