Argonauti

Poesia

Argonauti

Argonauti

Non chiedetemi il nome

né la stirpe,

né il luogo da cui vengo,

ero soltanto

sulla panca di voga

uno dei prodi

compagni di Giasone

convenuti

dai regni della Grecia,

in apparenza

per un’impresa

mai tentata prima:

recuperare il vello

di un ariete

dalla remota Colchide,

una pelle

dalle arcane virtú

di guarigione,

che rendeva ogni oggetto

imponderabile

e trasformava l’oro

in medicina

per i mali del fisico

e dell’anima.

Piú che un progetto

di conquista, un viaggio

che per le mille insidie

si annunciava

senza ritorno.

E forse proprio questo

inespresso era il fine

cui anelava

ciascuno degli eroi,

un’occasione

per espiare lutti

e vessazioni

che ogni contesa

in ultimo comporta.

Cosí partimmo

tra preghiere e osanna,

Giasone brindò fiero

a Posidone,

intanto che salpavano

le ancore

della nave, un portento

che da Argo

aveva preso vita,

corpo e nome:

il fasciame

dai pini di Tessaglia

calafatato in pece

dell’Assiria,

la prua scolpita

nella quercia sacra

di Dodona,

l’oracolo di Zeus.

Cinquanta ai remi,

gli altri ai vari compiti:

Glauco al timone

ed il cantore Orfeo

incaricato

di segnare il ritmo

della vogata

in sincrono e cadenza,

stornando con il canto

le Sirene

dall’attirare in mare

i naviganti

e farne preda

per mortali amplessi.

Nella nobile ciurma,

poi, veggenti,

apicoltori, principi,

indovini,

un assortito

repertorio umano

di vanità, potenza

e disinganno:

Ercole, Telamone,

Meleagro,

Atalanta e Ceneo

che, nate donne,

vollero farsi uomini

e provare

che l’anima gentile

all’occorrenza

diventa audace

come la virile.

E in tono con

l’intrepida valenza,

pronta alla pugna,

sempre all’erta, ecco

nella stiva ogni sorta

di strumento

letale: spade, lance,

dardi, frombe,

marchingegni di guerra

o deterrente

per uccidere draghi,

mostri e arpíe.

Ma i peggiori nemici

erano dentro

le profonde coscienze

dei valenti

nocchieri e rematori,

semidei

divorati dal fuoco

del rimorso.

Però si andava,

e il giorno era piacevole

distrarsi ai salti

argentei di focene

tra onde blu cobalto,

sempre avanti,

lasciando tracce

a Lemno e Samotracia,

passando senza danni

le Simplègadi,

tenaglie che

frantumano equipaggi,

noi però indenni

verso il Ponto Eusino.

Ma la notte,

dal nero degli abissi

salivano a migliaia

nottiluche

ad intrigarci

con fosforescenze

pulsanti come

i cuori delle troppe

vite spente in duelli,

assalti e stragi.

Larve d’uomini

e donne, di innocenti

massacrati,

per nemesi mutati

in Erinni ossessive,

divoranti

le nostre essenze

animiche. Per questo

piú che il trofeo

del Vello conquistato

a sanarci fu il viaggio.

Le fatiche

e gli sgomenti,

le amarezze, i duri

soliloqui del Sé

giunto allo stremo,

ci valsero il perdono

degli Dèi,

l’abbraccio umano,

la fraterna pace,

Eumenidi,

le Erinni, diventate.

Cosí leggera

ritornò la nave

in volo a Iolco.

Dopo periegesi

per terre sconosciute

e ignote genti,

noi, gli Argonauti,

presi dal mistero

che aveva sciolto

i nodi e le catene

che opprimevano

i cuori alla partenza.

Questa la ricompensa,

questo l’oro.

Come somiglia

la leggenda al fato

della nostra

presente civiltà:

Argonauti in un mare

senza sponde,

il miraggio dell’oro

inesauribile,

la Colchide

e le insidie del futuro,

col drago che

dissemina guerrieri

per eterni conflitti

distruttivi,

l’uomo nemico

di se stesso. Vale

affidarsi alla dea

dell’armonia,

Pallade Atena,

vergine sapiente,

che porta l’equilibrio

nella forma,

luce e saggezza

nel pensiero umano,

spirito dell’Eterno

Femminino.

La nave allora

viaggerà sicura,

e fiorirà l’ulivo

sulla pietra.

 

 

Fulvio Di Lieto