Proprio cosí: sono queste le parole che Mefistofele rivolge al dr. Faust: un uomo dell’epoca nostra, secolo piú secolo meno. Dal punto di vista filologico la frase è intellegibile, tuttavia per quanto riguarda il contenuto e i suoi possibili risvolti, presenta degli aspetti abbastanza sibillini.
Cerchiamo di mettere le cose in una sequenza ordinata secondo un determinato criterio interpretativo. Fin qui l’hanno fatto in tanti, e quindi mi posso accodare senza troppe remore; tutt’al piú, una volta ancora, non brillerà il mio genio, ma ci sono abituato (ho un genio molto schivo).
Anzitutto Mephisto pone una dichiarazione esplicita: la sua presentazione fa avanzare su un ipotetico palcoscenico due protagonisti comprimari: il primo è lui stesso (io sono una parte di quella forza che...) e la seconda? La seconda è composta dalla medesima forza che però – nella visione mephistiana – si articola sdoppiandosi in due polarità colludenti: una vuole perennemente il male, l’altra opera perennemente il bene.
Goethe lascia intuire che una siffatta creatura bipolare (absit iniuria verbis) non può essere che l’uomo; o quanto meno, la creatura umana di questo particolare periodo evolutivo, in cui, nel cercare se stesso, finisce per cercare altrove, si perde nelle reti di un mondo che gli appare esterno, materiale, al quale egli manca, anche se ne è avviluppato; invero manca laddove non può esserci nulla che lo riguardi in senso propositivo, ma anzi – ignorando del tutto il fatto ed il senso del suo ignorare – reperendovi in esso continui sostegni e puntelli psicofisici, uno piú sballato dell’altro, presi tutti per utili e indispensabili.
È quindi una rappresentazione complessa che si svolge nei mondi dello Spirito; un conflitto senza sosta che si protrae nell’eternità, si proietta, attraverso lo spazio ed il tempo, nei periodi che intessono la storia meno conosciuta dell’uomo e della Terra. Una storia che ci riguarda da vicino.
Per quale ragione Mephisto è convinto che l’essere umano si compone delle due polarità sopraccennate? Ne sa forse una piú del diavolo? Sarebbe il colmo, dato che è lui il Diavolo; piú precisamente un Superdiavolo. Alcuni esegeti lo hanno considerato alla stessa stregua di Satana; io mi accontenterei di affermare che Mephisto è un Diavolo di livello superiore; se oggi stesse in un qualche organigramma delle varie gerarchie militari sparse per l’intero pianeta (diciamo pure dei “bombaroli pluristellati in alta uniforme”) potrebbe ricoprire la carica di Primo Stratega esperto d’intelligence.
Essendo un Diavolo ben provveduto, non può non conoscere l’umano in tutta la sua intima struttura; egli è una parte di quella forza, che regge e smuove quella particolare struttura e, a buon diritto, magari con una valutazione contorta e faziosa, non ne ignora la valenza; ha contribuito a farla crescere, a svilupparla in un certo modo, secondo il suo disegno, che non è certo quello iniziatico, mosso al ritrovamento dell’Io.
La zona di competenza dell’interiorità umana che normalmente giace sotto il controllo delle potenze infere (o se si vuole edulcorare un pochino per non spaventare i piccini) delle correnti avverse all’evoluzione spirituale, risiede ovviamente nella centrale dell’ego.
Il che non rappresenta il male ineluttabile, dal momento che la nostra anima e la nostra corporeità hanno dovuto avvalersi nel tempo anche di questa medesima chance, onde conseguire importanti e ragguardevoli progressi, senza i quali l’umanità non sarebbe potuta arrivare al punto in cui è.
Immagino già che qui molti esclameranno: «Sarebbe stato molto meglio!». Sembra. Però, se non si dà ascolto alle notizie stampate, alle cronache della televisione e della radio, se non si frequentano i talk show delle corti politicensi e neppure quelli minimali dei bar dello sport, e si evita di sguazzare nelle pozzanghere dei social network, forse certe angosce indotte, striscianti e/o palesi, non attaccherebbero i nostri riposi notturni, e molti potrebbero dormirci sopra senza ingurgito di pillole o altri garbugli.
Inoltre è chiaro che ogni possibilità deve essere verificata sul campo; affermare “sarebbe stato meglio cosí o cosà”, senza il senno del poi, senza un confronto paritetico tra due realtà possibili, è troppo facile, e, mi sia concesso, un tantino maniacale se non demagogico.
Mefistofele raramente agisce sui singoli; quella è roba per diavoletti principianti, apprendisti sullo stampo di Berlicche; Mefistofele, dall’Alto Comando Strategico dell’Intelligence Infernale, agisce esclusivamente su vasta scala sulle paure collettive, sulle fobie di massa, sulle distonie generalizzate, sulle epidemie paventate, sulle insofferenze pruriginose e sulle riluttanze coccolate: insomma su tutto ciò che negli esseri intaccati produce un senso di ritrosia, di smarrimento, di contrasto e, soprattutto, che sfoci in una rancorosa diffidenza nei confronti della vita, della luce e della verità.
Compito primario dei demoni è infatti quello di destabilizzare, di togliere le certezze, di mettere i bastoni fra le ruote e far inciampare quanti vorrebbero camminare spediti.
Quale scenario potrebbe esservi di piú congeniale per una trama del genere, se non quello attuale, concesso in questo momento, in offerta speciale, dal mondo in cui viviamo, ove scariche elettromagnetiche e sprazzi di bufera, livori tenebrosi e accordi nefandi, si alternano e s’intrecciano in una sarabanda vorticosa, letale, mediante ritmi capaci di stravolgere secoli di statistiche, di previsioni, di ipotesi concordatarie?
Un particolare merito dell’arte goethiana, nel caso in esame, è stato proprio quello di agire controcorrente: portare in poetica l’impatto di Mephisto sul singolo umano; ma dal momento che il Faust viene letterariamente letto e compreso come simbolo collettivo, e pertanto universalizzato ad honorem, ecco che il quadro si ricompone nel senso suaccennato; tramite l’opera di Goethe, possiamo ammirare la maestria del gioco (micidiale ed imperituro) in cui la tentazione e la seduzione diabolica cercano di soggiogare definitivamente l’anima umana, dapprima nel compromesso, poi nello smarrimento ed infine nel nichilismo.
Dal punto di vista della Scienza dello Spirito, sappiamo che una delle principali classificazioni con le quali è lecito descrivere, sia pure a grandi linee, l’essere dell’uomo, è di natura ternaria: spirito, anima e corpo. Come si vede, Mefistofele pone l’accento soltanto su due di queste tipologie di classifica: sul corpo e sull’anima. Evidentemente pure lui era presente al Concilio Ecumenico di Costantinopoli (869 d.C.). Ma trattandosi di un indirizzo dogmatico estremamente partigiano, non lo si può criticare piú di tanto. Non fa altro che il suo lavoro. In fondo un Diavolo che si rispetti deve sempre e comunque confondere, ingannare e confutare la verità.
Mefistofele si comporta adeguatamente; non parlerebbe mai del divino, dello Spirito dell’universo, dal quale hanno pure avuto origine tutte le entità, comprese quelle infere; la cosa sembra non riguardarlo; egli è intento (deve esserlo) esclusivamente al suo impegno principale: distogliere l’attenzione degli uomini dalla possibilità che nelle loro teste baleni, magari per un attimo, la scintilla del ricordo celeste: quando nei primordi venne concepita l’essenza dell’umano: che è il pensiero di essere figli di Dio; di essere venuti alla luce del sole per compiere opere e azioni che attestino un tale verità in modo da renderla incontrovertibile.
Detto ciò, risulta adesso estremamente interessante la seconda parte della frase di presentazione adoperata dal nostro diavolo (“nostro” per modo di dire): se “colui-che-vuole-perennemente-il-male” può venir annoverato nel ruolino degli addetti alla centralità egoica dell’uomo (il quale, in definitiva, privo dei ricordi originari dell’anima, si lasci andare passivamente e trascinare come un sacco di patate dalle lusinghe del mondo fisico-sensibile) ci appare fondata la domanda conseguente: chi è “colui-il-quale (nonostante l’ingombrante premessa) opera-il-bene-in-modo-continuativo”?
Notevole è rilevare che, mentre il male è sostenuto dal verbo “volere”, per il bene vien riservato il verbo “operare”, che è già un qualche cosa che vien dopo il volere; non è piú una semplice intenzionalità ma una concreta fattualità. Se una cosa vien fatta, è evidente che essa deve essere stata in qualche modo pensata, decisa e voluta.
La tripartizione tra corpo, anima e spirito, scavalcata dal demone, fa rimanere l’uomo col corpo e con l’anima; ovvero, con uno scafandro di carne ed ossa atto ad esistere (o resistere) temporaneamente sul pianeta terra, e una centralina di risonanza ed ascolto interiore, buona per registrare e analizzare le sensazioni, in base alle quali poi ricavare l’esperienza necessaria alla sopravvivenza personale e, a voler essere ottimisti, ad uno sviluppo migliorativo della specie.
Per cui i “satanassi “ sono convinti che basterà prendere possesso dell’anima ed il gioco è fatto: l’anima umana non è per natura addomesticabile, ma gli inferi sanno di poter contare sugli ego che – anch’essi sottoposti ai doveri – rattengono, intimoriscono e mortificano; trasformando l’uomo, privandolo della capacità di avvertire il declino della coscienza, la quale tende a trasformarsi in un rottame abulico, esposto al vento delle correnti fobiche.
Ecco il motivo per cui il male deve essere sempre voluto; l’uomo non esiste per compiere il male; viene indotto a farlo per il motivo che una volta fisicamente incarnato, non riconosce piú quale sia il compito a lui affidato (e devotamente accolto); cullandosi nel presunto limbo di poter trascorrere da impunito una vacanza nel mondo delle sensazioni/percezioni, tende a comportarsi da ragazzaccio sbandato, come Pinocchio, spinto da Lucignolo nel Paese dei Balocchi.
Che, dopo, in questo modo di “volere il male” c’entrino, oltre all’azione mefistofelica, anche l’impulso dell’ego e le brame delle zone meno nobili dell’anima, poco conta. Del resto i due ultimi passaggi sono consequenziali.
“L’attenuante – direbbe qui un principe del Foro – è che il mio cliente è stato momentaneamente obnubilato: “non sapeva piú quello che faceva”. Ma i principi del Foro non conoscono i Princípi della vita di uno Spirito individuale, il quale si è voluto presente, con tutta la sua forza, in coscienze umane capaci d’intendere, di volere, ma anche di autocorreggersi in qualsiasi circostanza karmica o esistenziale, per riportarsi sulla via dello Spirito.
Se si perde l’anima, si perde pure la testa; ci si accartoccia su se stessi e – per dirla con il poeta – ci si sente esposti “come d’autunno sugli alberi le foglie”.
Da quel che mi pare d’aver capito, parlando in giro con amici e conoscenti che frequentano la Scienza dello Spirito, la suddivisione tripartita (spirito-anima-corpo) è ben nota, anche se in via teorica; mentre resta piuttosto nascosta in seconda linea, e poco osservata, quella binaria, di corpo e anima. Giusto cosí; quest’ultima è una partizione manchevole, pertanto non avrebbe senso ostinarsi a sperimentarla. Ma nel vivere la vita, non ci accorgiamo che quel che abbiamo ricavato da essa, alla fine della nostra giornata, è composto in prevalenza da quanto abbiamo immagazzinato in fatto di percezioni, rappresentazioni, immagini mentali e sensazioni, tutte prodottesi nella dimensione psicofisica; ovverosia nell’ambito dell’anima e del corpo.
Per cui, anche se manchevole e spuria, la suddivisione binaria dovrebbe almeno venir presa in considerazione, pure col ruolo di ipotesi negativa; ma la maggior parte di noi, studiosi d’antropologia compresi, si limita a prender atto che c’è, e tuttavia non serve sapere cosa sia o come funzioni. Infatti, dicono a dimostrazione, per respirare l’aria che circonda la terra non occorre aver studiato e sapere a memoria la sua composizione gassosa, i nostri polmoni l’attingono senza obblighi conoscitivi.
Di Spirito quindi ce n’è poco: lo Spirito infatti non si arresta mai di fronte ad un nuovo chiarimento, ad un tema da approfondire; ma se l’anima lo fa (è libera di farlo) avverte come risultato una stanchezza infinita; segnale che, senza lo Spirito, i problemi dell’esistenza diventano un peso insostenibile.
In effetto, limitarsi a considerare l’uomo composto di anima e di corpo non spinge nessuno a compiere un passo verso la verità, ma può giovare per comprendere invece quella logica mediante la quale Mefistofele è convinto di poter soggiogare Faust.
Presentare una creatura capace di intendere e di volere, indicando di essa la dicotomia esclusiva in cui si evidenziano – senza dirlo apertamente – solo i tratti negativi e discordanti e nulla piú – per lasciarla nella supposizione che non vi sia altro di peculiare da scoprire, è un perfido tentativo di circonvenzione, dal quale, una volta in funzione, non se ne esce; non per nulla esso sta alla base di ogni filosofia o corrente di pensiero ateo-materialistico.
Allora il problema si fa tanto pratico quanto spinoso: in quale modo posso esser messo in grado di sopperire alla mancata conoscenza di me stesso, se per quel che riguarda questo me stesso e la sua gestione giornaliera non dispongo di un’accortezza che mi evidenzi la lacuna?
La risposta c’è: non è di quelle che piace sentire, ma c’è: con la sofferenza.
Non intendo parlare di particolari dolori o disturbi, cui siamo esposti nel corso delle nostre vite; non chiamo in causa nulla di eccezionale o di eclatante; voglio solo dire del normale soffrire al quale ormai non si fa piú attenzione, e che consiste in migliaia di piccole cose: seccature, fastidi, contrasti, equivoci, brutte notizie, o quanto meno notizie poco rassicuranti, disguidi, incomprensioni e via dicendo; concomitanti o susseguenti ma tutti incalzanti e parimenti invasivi.
Sono discrasie alle quali ci siamo abituati al punto di non percepirle piú; semmai conviviamo inconsapevoli con esse; ma alla sera, come risultato, ci ritroviamo con la bocca amara e qualche misteriosa fitta allo stomaco. Il che sta a dire che le “migliaia di piccole cose” lavorano senza sosta a nostra insaputa, intaccando la salute, l’equilibrio, l’armonia e, per quanti pratichino qualche forma di ascesi, rendono difficili i tentativi di correzione.
È importante sapere in via preventiva l’andamento e la durata nei quali tiriamo avanti alla bell’e meglio, giostrando con gli impulsi corporei, dibattendoci nelle agitazioni animiche, e – nel frattempo, se siamo ben disposti – relegando la cura dello Spirito in uno spazio interiore di “quarantena metafisica”. Per essere il periodo in cui si è esposti alle insidie di chi ostacola la nostra evoluzione, risulta logico ed evidente, anche con una valutazione fornita dell’ordinario pensare, che durante questo lasso, la coscienza si attivi al massimo grado: deve imparare a stare all’erta.
Imparare a stare all’erta significa una sola cosa: non adattarsi alle circostanze. Non volersi adattare alle circostanze, a sua volta, significa non cedere a compromessi; tra la brama di avere e l’impersonalità dell’essere, non c’è spazio per accordi diplomatici.
L’apporto, l’adesione e il consenso atti a produrre una cooperazione tra le disparità delle nostre due nature, possono rientrare nel raggio d’azione che ogni individuo sa di poter disporre senza perdere la propria centralità; senza mettere in crisi l’equilibrio, ancorché provvisorio, fin qui raggiunto; in tale ottica, il favorito è colui che conosce i propri limiti; per contro, sfavorito sarà colui che li teme.
Arriva sempre un momento della vita in cui le problematiche connesse con l’essere e con l’esistere vengono a scadenza: una condensazione di esperienza e di travaglio interiore che fa pronunciare ad Amleto la sua fatidica domanda.
Se siamo già in partenza cittadini di due mondi, perché nell’esistere dovremmo pure subire la tensione a volte dilacerante di ulteriori forze antagoniste che sembra vogliano sbranarci non appena eseguiamo qualche passetto fuori dell’ordinario tracciato?
La domanda non è pleonastica; nessuna chiave di risposta si attua se al soggetto difetta la conoscenza di sé. Per venirne fuori bisogna mirare alto; là dove per tanti non c’è nulla da vedere.
Ma chi conosce le altitudini del mondo sa che non è cosí. Nell’Alto ci sono infinite cose, come in basso; sono le prime a dar causa alle seconde, non viceversa. Quindi l’ermetica fondamentale domanda del Principe Amleto potrebbe anche riformularsi nel seguente modo: «Chi sono io? Voglio essere una causa o mi accontento d’essere un effetto?».
Ogni dicotomia contiene in sintesi il senso della sua verità. Nel caso dell’uomo, e dei suoi intimi travagli, essa ha un nome preciso: LIBERTÀ.
Intendiamoci bene: non la percezione, non la rappresentazione, non il sarcofago della libertà, ma l’IDEA della LIBERTÀ, quella a cui l’uomo può congiungersi solo grazie al pensiero vivente.
È un traguardo evolutivo avvenire, di cui per ora non esiste contatto diretto (ogni ideologia, per quanto nobile appaia, è un’incompiuta, pericolante misconoscenza). Ma quel che vi lavora sotto traccia, si fa sentire, in tutta la sua pressante incombenza: anelito inappagato e inappagabile dell’anima umana.
In realtà la questione vede intrecciarsi due problemi che diventano poi uno solo per confusione o superficialità applicativa; nello stesso modo con cui la parola Spirito venne eliminata dal Concilio Ecumenico di Costantinopoli del 869 d.C., altrettanto accade circa un millennio dopo, col distogliere l’uomo dalla via della conoscenza spirituale (unica a reggere ogni indagine sull’universo, sulla vita, su lui medesimo) per sprofondarlo nei meandri di scienze settoriali definalizzate e disperderlo nell’inconsistenza di un nulla tritatutto. Ritenersi completo in anima e corpo, vale quanto credere di poter scrivere senza aver imparato a leggere.
Non si è ancora intuito con sufficiente chiarezza che continuando a mentire, col recitare nel teatrino della propria coscienza l’ambiguità dell’ attuale condizione umana, diventa impossibile cogliere quel senso di libertà che pur l’anima costantemente reclama per la sua stessa sopravvivenza nel terrestre. Si cerca invece l’equivoco voluto, il filosofare capzioso, il contorcimento riflessivo; ora scambiandolo col libero arbitrio, ora con un permessivismo perverso e spudorato, ora col trucco dell’ottone similoro lucidato a specchio, ora col gioco infame della verità del quantum, in base alla quale chi ha ucciso dieci uomini si arroga il diritto di inveire e accusare colui che ne ha ucciso undici, definendolo “ vile assassino”.
Tutto ciò dà pretesto a molte conseguenze, acuisce le frecce all’arco di Mefistofele; tutto ciò fornisce prove inappuntabili per il Grande Inquisitore di Dostoijevski (I Fratelli Karamazov). Non ci sono dubbi, l’uomo è un essere debole, incapace, reietto, traditore; la sua anima è avida, striminzita, morbosa; i suoi calcoli si basano sull’opportunismo del momento, sull’egoismo miope di sempre; sul convincimento che solo sopraffacendo salverà se stesso ed i propri averi; il suo è un esistere che non ammette alternative.
Il quadro generale è piú che evidente quando si guardi attraverso il periscopio esclusivo dei sensi che fornisce un precipitato di vita quotidiana in cui una coscienza addomesticata si specchia nella delusione del riflesso generato.
Si può giungere al punto in cui ci si sente persino costretti ad accettare il giudizio blasfemo del Grande Inquisitore circa l’operato del Cristo Gesú; nel donare all’uomo la Libertà, il Nostro Signore, il Figlio di Dio, ha commesso un tragico, folle errore di valutazione; sia pure dovuto ad un eccesso di amore, di generosità senza limiti nel confronti degli uomini, la libertà è pur sempre un dono assurdo che non ha comportato nulla di nulla sul piano pratico, ma anzi, ha costretto per secoli i Paladini Designati del Culto Primario a difendere e a correggere, in tutti i modi possibili e immaginabili, deviazioni pretestuose e speculazioni nefande, che da tale offerta sono scaturite con la tenace virulenza di erbacce venefiche.
Lentamente la visione d’insieme sullo stato corrente dell’evoluzione umana si sta completando: ci sentiamo liberi. Da liberi, scegliamo se sottostare alle esigenze del corpo, filtrate e ingigantite dal gioco sottile delle brame, oppure se innalzare al vento di Pindaro le acuzie nostalgiche di vette immacolate, scintillanti promesse di ambizioni “spirituali” segretamente cullate.
Una simile prospettiva non suggerisce soluzioni. Il fatto stesso che si presenti, va al di là della capacità umana di portare amore e armonia nel caos avanzato; non s’ era fatto quando si poteva, è inutile e perfino autolesivo resistere e ostinarsi nella direzione in cui, coinvolti al cento per cento, veniamo oggi sospinti.
Dalle prospettive non vengono soluzioni, ma da queste il pensiero reagisce, crea condizioni nuove, intesse ricami privilegiati, immaginazione e fantasia concertate nell’amore per quel che ancora non c’è, colma le lacune provvisorie, propone alle coscienze deste la segreta conoscenza dei fatti, che ora, messa in evidenza, diventa la base per un’altra esperienza, per una realtà diversamente concepibile.
Le condizioni esistenziali, per quanto complicate e funeste siano, possono venir cosí interpretate alla luce di un conoscere sorto dal pensiero dell’Io, dallo Spirito Umano, che ha scelto la nostra epoca per trasformare il mondo delle necessità contingenti in un processo creativo di liberazione senza fine.
Non occorre trovare temi nuovi o inventare arzigogoli percettivi; anche figure antiche, pensieri del passato, rappresentazioni che si credono superate, si rigenerano qui, adesso, in una nuova vitalità, in un precipitato d’esperienza che, partito dal mondo, ritorna al mondo sotto forma di idea redentrice.
È un salto necessario per poter vedere le cose in un modo diverso da ogni precedente: «Piuttosto che vedere un mondo nuovo con occhi vecchi, è meglio vedere il mondo vecchio con occhi nuovi» scrisse Meyrink ne La Faccia Verde; infatti soltanto cosí possiamo saltare la legge delle necessità e avere soluzioni reali, perché – nel nuovo livello – le soluzioni non creano necessità, ma si offrono spontaneamente come frutti maturi dagli alberi in fiore.
Molti anni or sono (ma non proprio tanti) qualcuno dotato di voce stentorea ebbe a parlare di un Fantasma che s’aggirava per l’Europa; si aggiunse poi anche uno Spettro; terrorizzavano le popolazioni che non riuscivano a comprendere da dove saltassero fuori questi due preoccupanti e tristi signori.
Oggi noi non ci pensiamo piú, forse sono spariti, forse li abbiamo spaventati con le novità della tecnologia piú avanzata: di fronte all’A.I. anche i mostri perdono terreno. Ma ciò non toglie che la stampa horror, oramai vecchia di un centinaio d’anni, torni ancora utile per far capire qualcosa in piú; magari qualcosa di interessante, che camminando distratti abbiamo perduto o buttato via.
Torniamo con la mente alla frase di Mefistofele: vediamo se in essa c’è una connessione tra le due polarità semiambigue descritte dal demone, oppure se un tale legame è del tutto fuori questione e quindi completamente astruso.
Chi è il Fantasma? Chi è lo Spettro? E cosa c’entrano con la libertà degli uomini? Le affermazioni di Edgar Allan Poe e di Luis Buñuel non bastano, troppo celate dietro una pretesa élite artistico-ispirativa; e quelle successive, di Marx ed Engels, servono poi ancor meno, perché spappolate nel calderone di una malcondicio astiosa e rivendicativa.
Rimane sempre aperta una ulteriore ipotesi, cui poter attingere con una certa sicurezza: un’ipotesi che non solo non s’intorbida al lumicino della parca attenzione, ma la vivifica e la indirizza ad un rapporto capace di mantenersi umano senza patire la verità.
Il Fantasma è il tormento Numero Uno: sorge dal rimpianto, dal rimorso di quel che si sarebbe potuto fare e che invece non si è fatto; strugge, avvilisce, strazia; si cercano le ragioni e i motivi – tutti validissimi – per dire “non potevo fare di piú”. Sappiamo che non è cosí; sappiamo di aggiungere altre menzogne alla lista, diventata nel frattempo un macigno.
Il Fantasma è l’aguzzino, ma noi siamo complici, non vittime.
Lo Spettro è il tormento Numero Due: la paura, la fobia, la paralisi; il terrore di cadere nel terrore; lo Spettro accelera o ritarda i ritmi della vita dell’anima; fa temere ciò che è già accaduto, come se fosse sul punto di accadere, e maschera con un’indifferenza politically correct quel che abbiamo già lasciato accadere e in cui non riscontriamo neppure l’ombra della nostra intromissione.
Lo Spettro è il riflesso di una deformità non conciliabile; una radiografia della coscienza in cui si evidenziano soltanto i nodi (supposti) dei mali altrui.
Lo Spettro non è anonimo; tuttavia nessuno ambisce pronunciarne il nome.
Una determinata rivisitazione del gruppo ligneo scultura di Rudolf Steiner, nota come “Il Rappresentante dell’Umanità”, richiama i temi che si possono connettere al Fantasma e allo Spettro; ci fornisce gli ambiti e gli indirizzi dei Referenti Occulti che hanno aperto la partita anche se la responsabilità, in entrambi i casi, è molto piú umana di quanto non si sia tentati di credere.
Eppure analizzando le parole di Mefistofele, in modo spassionato, senza turbamenti emotivi, è possibile intravedere quella che per il genere umano è la stella della vittoria, la via della salvezza, l’oggettiva meta di una battaglia che, vista di primo acchito, sembrava impari, dall’esito scontato.
Chi opera perennemente il Bene? D’accordo, l’abbiamo intuito; è sempre l’uomo. Ma adesso può risultare difficile capire perché quest’uomo operi perennemente il Bene; non ci si deve però fermare sul dubbio: quel che bisogna invece tenere in considerazione è il fatto che per Mefistofele le cose stanno cosí. Forse il Demone, in questo caso, è piú lusinghiero nei confronti delle capacità di resistenza umane che non l’uomo stesso? Sembrerebbe pure questo uno sproposito. E allora?
E allora vale la pena di chiudere il discorso sul Mefistofele di Goethe, con una soluzione interpretativa che, se si vuole, può diventare uno spunto meditativo: l’anima umana torna ad incarnarsi; sempre e comunque. Nonostante le esperienze fatte nel mondo fisico-sensibile, anche quelle piú terribili e strazianti, l’anima si reincarna. Perché? Il motivo, magari in teoria, lo sappiamo, ma è il fatto in sé che dobbiamo osservare con enorme rispetto, perché supera ogni nostra esperienza di virtú eroica e di valore sacrificale.
Torna ad incarnarsi per finire il compito che in un’unica esistenza raramente riuscirebbe a compiere; l’anima individuale non è il Cristo Gesú; non le si può chiedere di svolgere l’intera missione in un’unica vita. Resta però il paradigma del Cristo Gesú, ed ogni volta che nelle lotte sulla Terra il corpo muore, lei, l’anima, risorge per ritornare piú forte e decisa. È l’anima redenta, l’anima veterana delle mille battaglie, l’anima che non muore mai e può risorgere sempre.
In particolare: “opera perennemente il Bene” . Perché il voler ritornare alla vita, alla luce del sole, alla caducità, all’invecchiamento, agli acciacchi e a tutti gli incidenti di percorso che costellano l’esistere corporeo, al dolore della carne, alle sofferenze del cuore, è un atto di puro eroismo spirituale: è il Bene essenziale; è la forza del Cristo; è il Messaggio della Croce; non sarebbe potuto filtrare dall’eterna lotta tra Bene e Male fin nel piú profondo anfratto della Terra senza l’evento del Golgotha.
Nessun demone mai, né Satana, né Mefistofele, né Berlicche, neppure Grandi o Piccoli Inquisitori possono comprendere la verità di una simile portata. Non possono comprenderla; vorrebbero farlo, ma non possono: ne verrebbero abbagliati. La Luce del Cristo che da essa s’irraggia, si espande per ogni dove, non illumina solo voleri, intenzioni o argomenti; illumina i fatti che sono accaduti e che continueranno ad accadere.
Il coraggio di ritornare nel mondo della “Morte per la Resurrezione”, qualunque sia il costo pagato e quello da pagare, qualunque sia l’esperienza acquisita e quella da acquisire, non trova spiegazioni a livello infernale. Per gli Spiriti del Male resta un mistero inaccessibile.
Ma non lo è; tutte le spiegazioni trovano il loro limite negli accadimenti vissuti. Sono questi infatti l’unica vera sostanza dell’operare umano. Se li si vuole contraddire bisogna per forza ricorrere ai demoni e alle loro menzogne.
Su questa terra, l’Opera è nei fatti, non nelle parole. Per ora le parole possono solo raccontare la storia, non crearne una diversa. Anche se il tentativo è “perennemente” in atto.
Angelo Lombroni