In questo numero di Botanima parleremo di due fiori un tempo comuni nei coltivi, il Papavero e il Fiordaliso. Oggi, e ormai da tempo, con l’avvento di sementi sempre piú “specializzate”, è raro vederli fiorire insieme alle spighe di grano, specialmente il Fiordaliso, che in pratica è quasi scomparso, mentre i Papaveri li si può incontrare ancora, se pure per lo piú relegati ai bordi dei campi o sulle ripe dei fossi.
Che poi i Papaveri fossero un tempo piú abbondanti, lo si evince da queste note del Castore Durante, che nel suo Herbario Nuovo, opera del 1585, cosí scrive di questo fiore: «Veggonsi i Papaveri salvatici fioriti di rosso colore il mese di Maggio nelle campagne tanto abondanti, che riguardandosi dalla lunga non altro paiono ingannando la vista, che panni rossi, distesi per li campi…».
Coltivi in aree isolate e in altura come quelli di Colfiorito, del Piano Grande di Castelluccio e in Valnerina, in Umbria, nei mesi di maggio e giugno, ancora offrono uno spettacolo di fioriture in cui i Papaveri e i Fiordalisi predominano, questo poiché in quei luoghi l’agricoltura viene ancora praticata con metodi tradizionali e spesso non si fa uso di diserbanti.
Andiamo ora a conoscere meglio queste due specie cominciando dal Papavero.
Il Papavero (Papaver rhoeas), chiamato anche rosolaccio, deriva il nome da lingue celtiche e stava a significare “pappa”, poiché sembra che in antico era uso mischiare il succo di questa pianta nella pappa dei bambini per farli dormire.
Caratteristico del Papavero il suo bel fiore rosso, che durante la bella stagione tinge i prati e le colture cerealicole. La pianta è interamente rivestita di peli rigidi e tutte le sue parti, se contuse, gemono un lattice bianco.
Il Papavero si rinviene dalla pianura al piano submontano, fiorisce da marzo a luglio e sembra sia giunto dall’Asia, da cui peraltro provengono anche la maggior parte dei cereali coltivati.
In fitoterapia la parte utilizzata sono i petali, che contengono glicosidi e alcaloidi come la roeadina. Sono inoltre presenti mucillagini e carotenoidi, quest’ultimi, insieme agli antociani, determinano il colore intenso del fiore.
Il Papavero è stato utilizzato come sedativo del sistema nervoso fin dall’antichità e come sedativo e analgesico viene indicato nei disturbi del sonno, nelle aritmie cardiache di origine nervosa e nelle affezioni delle vie respiratorie. Se ne fa uso anche in pediatria, come leggero sedativo, come sonnifero e come calmante ed emolliente nella tosse e nella pertosse. Lo si usa infine in infusi e sciroppi e comunque sempre sotto indicazioni e modalità d’assunzione di un medico o di un fitoterapeuta.
Interessante è leggere quel che il Pelikan scrive del Papavero nel suo libro Le Piante medicinali dove va ricordato che l’Autore ebbe a trarre molte indicazioni direttamente dal Dottor Steiner: «Questo fiore esplode in un rosso vivo, focoso e passionale, con quattro macchie scure che formano una croce al centro dei quattro petali; tutta la pianta si consuma in questa fiamma floreale. Si possono qualificare i petali di Papavero come rossi di “zolfo”, nel senso dell’antica trilogia “Sal, Mercur, Sulfur”: con questo fiore si possono preparare dei bagni che combinano l’azione stimolante dell’elemento floreale sul metabolismo, attenuando l’astralità. È bene in questo caso usare anche le giovani capsule non mature, e a questo proposito abbiamo anche prescrizioni di Rudolf Steiner».
Il Papavero è soggetto all’influsso di Saturno, pianeta che rallenta e suscita malinconia; nella mitologia era associato a Cerere e Morfeo, e una leggenda racconta che il re di Roma Tarquinio il Superbo, per mostrare al figlio il metodo sicuro per impossessarsi della città Latina di Gabi, fece abbattere con un bastone i Papaveri piú alti del suo giardino spiegandogli con questa immagine simbolica che si dovevano eliminare prima di tutto i cittadini piú autorevoli e potenti. Sicché nel linguaggio comune ancora è invalsa l’abitudine di definire persone con cariche di prestigio dei “papaveri”.
Anche nel simbolismo cristiano trova posto questo fiore dove San Girolamo, rifacendosi al Papavero, lo associa al Cristo Redentore come Fiore sbocciato nello scarlatto e nella porpora del suo sacrificio. In un passo della sua corrispondenza cosí si esprime in relazione al papavero: «Il nostro Fiore ha fatto morire la Morte; e questo Fiore è morto al fine di distruggere la Morte con la sua».
Un altro fiore di campo, il Fiordaliso (Centaurea cyanus), una bella composita che emerge nei coltivi col suo color azzurro fino al blu intenso, è una pianta diffusasi al seguito delle coltivazioni cerealicole dall’Asia Minore. Non mancano pure per questo fiore le proprietà curative.
Le proprietà medicinali di questa pianta furono per prime menzionate da Hildegarda di Bingen nel XII secolo. Il bellissimo colore blu, dato dalle antocianine, richiamava per analogia segnaturale il colore di occhi sani e lucenti, ed è per questo che la pianta fu adottata come rimedio per tutte le affezioni oculari.
Il distillato di fiori era considerato valido rimedio per gli occhi, uno di questi era la famosa “Eau de Casselunettes”, Acqua di Fiordaliso detta “Rompiocchiali”.
Il Valnet lo ritiene indicato in colliri assieme all’eufrasia e alla piantaggine, gli infusi e decotti di tutta la pianta sono utili nelle nevralgie e reumatismi, come tisana è pettorale e diuretica e i semi, presi assieme al miele, sono purgativi.
Nella mitologia dell’antica Roma si narra che la dea Flora, dea della Primavera e delle piante, innamorata del giovane Cyanus, un giorno lo ritrovò morto, disteso in un campo di Fiordalisi, e diede allora a quei fiori il nome del suo amato.
Nella tradizione celtica, alla festa di Beltane, il primo di maggio, finivano i sei mesi oscuri e iniziavano i sei mesi luminosi: al risorgere della vita la gente raccoglieva rami e fiori con cui decorava le proprie abitazioni, e i fiori i prediletti erano i fiordalisi, in onore del Sole che avrebbe illuminato le case e le persone, donando alla Terra un impulso di nuova vita.
In quel periodo si filtrava un infuso di fiordalisi attraverso tre strati di lino di colore blu, tinto con colori naturali, poi l’infuso filtrato veniva consacrato alla Luna piena e si impiegava per bagnare gli occhi. Il rito facilitava la chiaroveggenza e permetteva di vedere gli aspetti creativi delle forze dell’Universo.
Il nome di Centaurea, dato da Linneo, riguarda invece una leggenda in cui il Centauro Chirone, maestro di Achille, e che tra le sue qualità aveva l’abilità nel tiro con l’arco e la sapienza nella musica e nella medicina, e tra l’altro maestro di Asclepio, ebbe da Zeus il dono dell’immortalità, ma una freccia, scagliatagli contro da Ercole, colpí il suo piede costringendolo all’immobilità. Dopo lunga sofferenza, Chirone ottenne la guarigione curandosi con un impacco di fiori di Fiordaliso appena sbocciati.
Va rilevato che nei miti che accomunano Achille, Sigfrido e lo stesso Chirone, Rudolf Steiner, nelle conferenze sul Vangelo di Marco tenute a Basilea, cosí si esprime il 21 settembre 1912: «…Perciò gli uomini che portavano in sé, già nei tempi precristiani, dei contenuti del mondo spirituale esorbitanti, qualcosa che già assomigliava a ciò che l’Io sarebbe dovuto diventare piú tardi, con tale forza dell’Io spezzavano il proprio corpo, perché quella forza dell’Io era eccessiva per il tempo precristiano. Questo ci viene additato dal racconto che nelle incarnazioni di certe individualità, dotate appunto di quella esorbitante forza dell’Io, l’Io poteva vivere in loro solo in quanto il corpo presentava una lesione, o era vulnerabile, e sarebbe stato di fatto vulnerato in una sua parte facilmente vulnerabile. In quel punto l’uomo era cioè maggiormente esposto alle azioni del mondo esterno di quanto lo fosse nel resto del suo corpo.
Basta ricordare la vulnerabilità del tallone di Achille, il dorso di Sigfrido, le ferite di Edipo; tutti esempi che mostrano la potenza dell’Io che lede la corporeità. La presenza della parte vulnerabile o della ferita allude al fatto che lí solo un corpo leso si adattava alla grandezza eccessiva dell’Io».
Ecco che anche la ferita al piede di Chirone da parte di Ercole può rientrare a pieno titolo in ciò che il Dottore accenna in quella conferenza, ferita che il Centauro risana con la forza eterica del regno vegetale, del Fiordaliso appunto.
Di questi miti e leggende si è per lo piú perso il senso, il significato, ma verrà un tempo in cui l’uomo riacquisterà sapienza e conoscenza che lo ricollegheranno, in veste nuova, a ciò che fu la saggezza antica, fecondata dai nuovi impulsi della Scienza dello Spirito.
Davirita