Se lo Stato fosse, per il contributo dei suoi esperti, il migliore vivificatore della vita culturale e il piú efficiente degli imprenditori (sappiamo tutti che le cose non stanno affatto cosí!), ostacolerebbe in tal modo la sua primaria funzione giuridico-legislativa. La pletora di compiti che si è assunto disperde le sue forze, non solo a danno delle attività spirituali ed economiche, ma anche a pregiudizio della maestà della legge. I suoi interessi, in settori a lui estranei, limitano necessariamente la sua imparzialità e impediscono la creazione di istituzioni dinamiche e funzionali, in grado di amministrare rapidamente e saggiamente la giustizia.
Si può affermare che lo Stato moderno non esiste ancora. Ciò che conosciamo come Stato unitario – uguale qualitativamente sia a Oriente sia a Occidente, variando solo l’intensità del suo intervento – è una istituzione che non ha identificato completamente il suo compito nella società. Nella sua forma più moderata confluiscono disordinatamente i fantasmi della teocrazia, le innegabili conquiste giuridiche degli ultimi secoli, i primi traguardi di una democrazia che dovrebbe avere invece come fine la partecipazione responsabile dell’uomo alla enunciazione dei suoi diritti e dei suoi doveri. Malgrado tutte le brillanti formulazioni tendenti a legittimare l’intervento pubblico, abbiamo l’impressione che lo spirito che anima molte decisioni assomigli in modo impressionante alla scelta dei fittavoli compiuta personalmente da Federico il Grande.
Smarrito il sostegno dell’antica trascendenza, il confuso Stato moderno ha voluto fare lo stesso affidamento su una presunta onniscienza. Ha preteso di estendere ancora di piú i suoi interventi (vedi le monarchie assolute e le dottrine dello Stato etico), facilitato in questa sua presunzione dalla sempre maggiore debolezza della individualità umana. Infatti di fronte agli enormi problemi del mondo attuale, quanti hanno preferito sfuggire alle loro responsabilità invocando l’aiuto dello Stato! I primi interventi sull’economia non sono stati forse richiesti dagli stessi imprenditori? Questi, non riuscendo a identificare e superare le cause della decadenza delle loro aziende, hanno trovato un primo sostegno nei diversi provvedimenti di politica economica tendenti a muovere le esportazioni. Alla debolezza dell’uomo moderno fa riscontro il mostruoso apparato dello Stato unitario. Il potere pubblico, per nascondere la sua inadempienza giuridica, non può che darsi nuovi compiti, inventare nuovi interventi, creare un numero infinito di false leggi, pretendere sempre maggiori tasse. Di conseguenza una qualsiasi giustificazione ideologica, o lo stesso gioco politico partitocratico (anche se vissuti in nome di giuste aspirazioni sperimentate però astrattamente come sviluppo, benessere, socialità) non possono che trasformarsi, mediante lo Stato, in strumenti di condizionamento sull’uomo e di degenerazione della libertà.
Infinite teorie dissertano oggi sui diversi travestimenti del potere, sulla brama di potenza e sulle astuzie per conseguirla, sulla equivalenza capitale = possesso, creando cosí una falsa immagine in quanto riferita solo a una classe, quando in ogni egoità individuale è presente potenzialmente l’avversione e la volontà di sopraffazione. Se si passa però alle soluzioni pratiche, si ripropone la superiorità indiscutibile delle esigenze della collettività su quelle del singolo, le quali, per essere attuate, hanno bisogno degli strumenti forniti dall’apparato statale. Ma la vera tirannide ha inizio quando il potere pubblico asserve la vita spirituale e culturale all’ideologia che lo giustifica o alla concezione del principe; oppure quando tutti i cittadini vengono ricattati mediante il possesso assoluto di tutti i mezzi di produzione.
Una nazione che rinuncia, anche se dapprima, solo in parte, alla libera vita spirituale e alla libera iniziativa economica non può che scivolare lentamente verso forme piú o meno palesi di dittatura. Tirannia che può assumere dapprima una forma del regime partitocratico; poi consentendo solo un parziale pluralismo che esclude gli avversari piú scomodi, per approdare infine verso forme di assolutismo ben peggiori di quelle che ci avevano fatto inorridire nei banchi di scuola. Tutto ciò può avvenire perché lo Stato moderno ha dimenticato che già nell’antica Roma repubblicana era stata tracciata la sua funzione nella Storia: la tutela della giustizia.
Si vuol far credere oggi che autoritarismo e autorità siano la stessa cosa, Abbiamo visto come l’idea di gerarchia possa trovare, nella vita spirituale, la sua essenziale legittimazione. Gli uomini non sono interiormente uguali, e lo spontaneo riconoscimento delle qualità altrui è il segno piú significativo della vitalità di una determinata civiltà Se si riconosce spontaneamente una gerarchia spirituale, è giusto anche accettare la necessaria autorità sul piano esteriore intesa quale espressione di una saggezza ordinata, indispensabile per far funzionare una qualsiasi organizzazione: la scuola, la fabbrica, la società. Se autoritarismo ci sembra l’intervento disordinato dello Stato, dovrebbe essere naturale accettare l’autorità necessaria a garantire l’esercizio della libertà e a regolare, secondo giustizia, i rapporti fra uomo e uomo.
L’autorità dello Stato, nel senso della Tripartizione, non può essere conseguente al pugno di ferro di una supposta aristocrazia politica o di una oligarchia che si nasconde dietro una falsa democrazia. Deve essere piuttosto l’autorità, implicita al significato stesso di legge, a estrinsecarsi mediante apposite istituzioni onde garantire la reciproca dignità e l’esercizio della libertà, regolate secondo giustizia, sia ai singoli sia alle comunità, alle attività spirituali e a qualsiasi manifestazione economica.
Argo Villella
Selezione da: A. Villella Una via sociale Società Editrice Il Falco, Milano 1978.