Anagni, è l’alba del 7 settembre 1303. Un gruppo di armati guidati da Sciarra Colonna, filofrancese, e Guglielmo di Nogaret, passando per alcune porte lasciate aperte da oppositori del papa, entrano in città e si dirigono verso il suo palazzo.
Subito il nipote del pontefice organizza la difesa, la battaglia è aspra e i fedeli al papa resistono.
Bonifacio VIII, avvisato del fatto che una folla di armati era giunta in città per catturarlo, chiede di trattare. Le richieste sono però inaccettabili per lui, vicario di Cristo sulla terra, e cosí, scaduta la tregua, riprendono gli scontri.
Il palazzo del nipote Pietro è il primo a cadere e il marchese viene preso; intanto Sciarra Colonna riesce ad individuare il luogo in cui si trova il papa e, passando attraverso la Cattedrale, dopo averne incendiate le porte per entrare, lo raggiunge. Ciò che realmente accadde nella stanza dove Sciarra si trovò dinanzi Bonifacio VIII non si verrà mai a sapere; sta di fatto che morale o materiale che sia, lo “Schiaffo di Anagni” rappresenta il declino ormai della Teocrazia e la nascita degli Stati Nazionali.
Lo scontro tra il papa di Anagni e il re di Francia Filippo IV il Bello, risale al 1296 e riguarda soprattutto il versamento delle tasse da parte del clero di Francia. Il re, bisognoso di denaro per portare avanti la sua politica di centralizzazione dello Stato francese, decide di tassare anche il clero residente nei propri territori. Bonifacio VIII, contrario ad una simile privazione delle proprie entrate, reagisce con la bolla “Clericos laicos” nella quale afferma che il clero non può essere tassato in alcun modo e da nessuno senza l’autorizzazione pontificia: chiunque non avesse rispettato il decreto, sia nella riscossione che nel pagamento, sarebbe stato scomunicato.
Nell’agosto dello stesso anno il re di Francia emana un editto che impedisce qualsiasi esportazione di denaro, preziosi, armi e cavalli fuori dai confini del regno. La cosa danneggia in pratica gli interessi della Chiesa, e il papa reagisce con una nuova bolla, la “Ineffabilis amoris” nella quale condanna l’editto regio, considerandolo limitante la libertà del clero.
Il prosieguo di questa storia vedrà piú volte ancora scontrarsi Bonifacio VIII e Filippo il Bello, tra altre bolle papali, accuse e controaccuse da parte dell’uno e dell’altro. Il papa tenta di riaffermare, con la bolla “Unam Sanctam”, la supremazia del potere spirituale su quello temporale, stabilendo che per volontà divina ogni uomo, compreso il re, era soggetto al giudizio del papa e sottomesso al pontefice di Roma.
Filippo reagisce con forza accusando il Caetani di ingerenza negli affari del regno, i toni si fanno sempre piú aspri e il re matura la decisione di presentare al papa dei capi d’accusa e di condurlo a processo in Francia, sostenendo che la sua elezione a pontefice sia illegittima.
Papa Bonifacio risponde usando la sua arma piú potente: la scomunica. Domenica 8 settembre 1303, festa della Natività di Maria, sulla porta della Cattedrale di Anagni, la sua città natale, il papa fa affiggere la bolla di scomunica del re francese.
Ma arriviamo all’epilogo della vicenda. Il 9 settembre, il lunedí dopo la festa dedicata a Maria, alcuni congiurati fedeli al papa, all’insaputa del nipote Piero e di Sciarra, si riuniscono perché iniziano a temere per le sorti della città e dello stesso papa. Propongono quindi di andare al palazzo e liberare sia lui che il nipote e di prenderli sotto la loro custodia in modo da salvar loro la vita. La reazione delle guardie è però violenta, si arriva allo scontro, l’esito è favorevole agli insorti, i quali, giunti al cospetto del papa, gli spiegano le loro intenzioni e lo sollecitano ad affidarsi alla loro custodia.
Udite le loro parole Bonifacio leva occhi e mani al cielo e ringrazia Dio e i salvatori che lo portano cosí sulla sommità della scala nella piazza, e da lí tiene un discorso ai suoi concittadini: «Uomini e donne di Anagni, voi sapete bene che i miei nemici vennero qui e mi derubarono di tutti i miei beni e di quelli della Chiesa, tanto da ridurmi povero come Giobbe. Per questo vi dico che non ho nulla da mangiare né da bere e sono quindi digiuno. Se c’è una buona donna che mi voglia aiutare dandomi in elemosina del pane e del vino, lo faccia; e, se non ha né pane né vino, mi dia almeno un po’ d’acqua e io le darò la benedizione di Dio e la mia; e a tutti coloro che mi porteranno qualcosa, anche poco, per il mio sostentamento, sarà concessa l’assoluzione da tutti i peccati».
Udite quelle parole tutti iniziano ad urlare: «Viva il Santo Padre!», ed ecco che tutte le donne lí presenti e altre accorrono al palazzo offrendogli vino, pane e acqua.
Il papa, ormai sicuro della sua liberazione, benedice e ringrazia Dio e il popolo di Anagni che lo ha salvato. Bonifacio e il nipote Pietro rimangono sotto la custodia della città per cinque giorni. Il venerdí, scortati da una moltitudine di armati, partono alla volta di Roma dove vi arrivano il mercoledí seguente.
Qui termina l’episodio dello “Schiaffo di Anagni” e veniamo a descrivere quello che invece ha reso famosa nell’arte la città: la cripta della Cattedrale, con i suoi pregevoli cicli d’affreschi tanto da essere ribattezzata “La piccola Sistina sotterranea”.
Tutta la zona intorno ad Anagni racchiude tesori di Sacro e di Storia, come le città di Alatri e di Ferentino, o le Abbazie cistercensi di Casamari e di Fossanova, ma la cattedrale di Anagni è particolare proprio per la cripta di San Magno, che doveva fungere da scrigno per la conservazione delle reliquie dei santi. Fu costruita dal vescovo Pietro da Salerno, contemporaneamente alla Cattedrale, tra il 1072 e il 1104. Si trova sotto la navata trasversale della chiesa superiore e vi si accede per due lunghe scalinate. Subito si è avvolti dai colori e dalle forme dei cicli pittorici e ci si accorge che lí c’è qualcosa di piú, che chi ha lasciato le storie che affrescano ogni angolo della cripta ha voluto esprimere ciò che la sapienza del suo tempo aveva ereditato dalle piú profonde conoscenze dello Spirito e dell’Uomo.
Sembra accertato che sul posto in passato sorgesse un mitreo, cosa questa che si riscontra in altri edifici sacri della zona.
È una profonda emozione scendere in quella specie di piccola Sistina sotterranea, con le sue tre navate absidate, con le sue ventuno volte su colonne e il tappeto cosmatesco del pavimento. Colpisce il manto colorato che ricopre le sue pareti, una specie di immenso e affascinante codice miniato cristallizzato su volte e superfici, fissato in un’eternità che non conosce appannamento nonostante le ferite del tempo. Gli studiosi tentano di decifrare la vicenda di questo “manifesto” della pittura occidentale, e l’acribia della critica non sempre è d’accordo sui fatti e le persone che presero parte ai lavori.
Qui furono convocati tre artisti differenti con i loro diversi pennelli in un vasto arco temporale che oscilla tra il 1231 e il 1255, anno della consacrazione dell’opera da parte di papa Alessandro IV.
Viene incontro per primo il “Maestro delle Traslazioni”, la cui presenza è incombente, straordinario colorista, abilissimo a livello tecnico, tradizionale nel suo impianto generale con venature gotiche.
Accanto a lui si fa strada il “Maestro Ornatista”, identificato col pittore di San Nicola a Filettino, immerso nell’alveo laziale di ispirazione bizantina.
Dal profilo piú fluido è il “Terzo Maestro”, il pittore che affrescò nel 1228 la Cappella del Sacro Speco di Subiaco, noto come Frater Romanus, un benedettino.
Non è qui la sede per dettagliare la descrizione dei cicli degli affreschi, non sempre poi di facile lettura ed interpretazione, chi ha dipinto ha voluto lasciare un testo di Storia Sacra che fosse comprensibile per l’uomo del tempo, una sorta di “Libro Illustrato” che raccogliesse il sapere dell’epoca, non solo quello che proveniva dalla Chiesa ma pure quello lasciato dai grandi Filosofi e i Maestri del passato: Platone, Socrate, Ippocrate e Galeno, ad esempio.
Poi la Cosmogonia, l’Astrologia, lo Zodiaco, le scene e i personaggi del Vecchio e del Nuovo Testamento, l’Apocalisse, il Cristo e la Vergine, in un turbinío di immagini, scritte e simboli che richiedono tempo e impegno per decifrarli e specialmente umiltà. L’umiltà di chi come noi, se pur “moderni” e con mezzi di conoscenza a disposizione, dobbiamo innalzare lo sguardo con ammirazione e gratitudine verso chi, come questi artisti che affrescarono la cripta, ha lasciato un’Opera che sfidando i secoli avrà ancora da dire molto all’uomo, ormai lontano da una vera Arte pittorica, che dovrà essere riconquistata.
E infine, dopo aver ammirato quest’Opera grandiosa dove la Creazione, nelle prime “pagine” colorate degli affreschi, si riflette ormai nella ricreazione perfetta dell’Apocalisse, che ha cancellato le scorie pesanti del male e fatto brillare l’oro della giustizia, possiamo uscire dal grembo della cripta ove il pennello di grandi artisti ha commentato le Scritture in un’omelia forse superiore a quelle che nei secoli sono risuonate sotto queste volte.
Gli occhi conservano ancora i bagliori di quelle immagini, mentre le orecchie sembrano sentire l’eco delle ultime parole di speranza dell’Apocalisse: quel Maràn athà che scandisce la solenne parte finale del Libro, che allude alla Parusía: «Lo Spirito e la Sposa dicono: Vieni Signore! Chi ascolta, ripeta: Vieni! E colui che attesta queste cose, dice ancora: «Vieni, Signore Gesú!». (Ap. 22, 17-20).
Davide Testa