Un druido:
«Noi siamo ridotti a pregare di notte,
in segreto, il Padre Universale.
Ma fa giorno appena si può
portarti un cuore puro.
Certamente tu oggi puoi,
e per molto tempo,
permettere tanto al nemico.
La fiamma pura si divide dal fumo,
cosí purifica la nostra fede.
Ma se ci si deruba dei nostri antichi riti,
te, o Luce, chi potrà derubarti?»
da Urfaust di Johann Wolfgang Goethe
Era un pomeriggio di densa foschia eppure, malgrado l’autunno fosse già prossimo all’inverno, l’aria era calda, calda ed umida. Dai rami stillavano gocce di umidità che facevano luccicare le foglie rosse del sommacco e il giallo di quelle dei carpini. Il terreno era scivoloso specie nei punti nei quali affioravano le rocce del Carso, grigie come il cielo e il mare lontano. Ascesa una breve erta rocciosa mi diressi in basso dove un folto di cespugli, sorprendentemente ancora verdi, nascondeva la mia meta: il Mitreo.
Quando scesi i gradini che portavano all’interno della grotta avvertii il silenzio come un essere addormentato nel cuore della terra mentre il traffico dell’autostrada non lontana sembrava un inavvertibile rumore di fondo che non disturbava la pace della penombra.
Altri rumori sorsero allora intorno come echi di tempi remoti, come se fuori la stagione fosse cambiata e l’autunno avesse ceduto il passo ad un’impossibile inizio di primavera, quando la natura si risveglia timidamente e gli uccelli iniziano i loro richiami, quando le foglie che diventeranno rosso sangue sono delle gemme appena accennate. Soltanto il gocciolio dell’acqua dalla volta della piccola grotta superava il tempo e le stagioni con il suo ritmico scavare il sasso sul quale da tempo immemore continuava a cadere.
Mi sedetti e mi immersi nel silenzio dell’anima, quando i pensieri scivolano nel vuoto e si acquieta il continuo suono del sentire.
Allora, come sorgesse dal suolo stesso del luogo sacro, mi fu davanti il centurione. Per la verità non era vestito come un ufficiale delle legioni romane, indossava invece una tunica bianca ed un mantello di lana grezza d’un rosso ormai stinto, ma i calzari erano ancora quelli chiodati dei legionari. Non era piú giovane ma si indovinava la vigoria di una vitalità spesa al servizio del suo mondo, di Roma.
Come descrivere quanto accadde poi? Dire che lui mi parlò non risponderebbe ad una realtà riscontrabile nel mondo fisico perché invero in questo mondo lui non si trovava. Sembrava passarci in quel momento apposta per incontrarmi mentre in realtà il suo essere eterno aveva già assunto altri aspetti ed ora viveva in questo nostro secolo, tra noi, immemore di quell’altra esistenza eppure di essa presago.
Mi parlò dunque e la sua voce viveva nei miei pensieri:
«Sei giunto nella mia casa – mi disse – qui sei il benvenuto sebbene diverse siano le nostre strade».
«Chi sei, cosa ti porta a ritrovarti qui con me oltre il tempo, in un luogo sacro agli antichi e quale mistero ti accompagna?»
«Mi accompagna l’anelito a superare me stesso come quando centurione guidavo i miei legionari incontro ai barbari, ma non erano invero quelli i veri barbari…».
«Non è certo un caso se qui mi sei presente e non altrove: innumerevoli volte sono stato ad Aquileia, la grande città romana che non dista molto da qui, e vivo a Tergestum, come la chiamavate allora, un’altra città romana che sta emergendo proprio in questi ultimi anni dalla tenebra del sottosuolo, eppure ti incontro qui e non tra le rovine del tuo mondo».
«Qui, perché fui sacerdote di Mithra e caro m’è questo luogo. Perché qui mi rifugiavo quando i barbari infrangevano i nostri dèi e con essi Roma e la civiltà di Roma».
«Sacerdote di Mithra, il nume dei legionari, ecco perché sei centurione. Ma di quali barbari stai parlando, in quale epoca sei vissuto dunque?».
«Erano trascorsi molti secoli dalla nascita di Roma, piú di mille anche se non saprei dirti l’anno della mia nascita e nemmeno quello della mia morte, che fu per mano dei barbari».
«Ben dopo la nascita di Gesú dunque» chiesi non sapendo come definire meglio l’Evento che iniziò la nostra nuova era.
«Sí, certo – rispose – eran passati piú di tre secoli e i barbari s’erano moltiplicati. Oh, no, non i barbari germani che venivano nelle nostre terre a servire l’Impero ormai in disfacimento, non quelli, ma i barbari di cuore, i barbari di mente: i cosiddetti cristiani!»
«Essi erano nemici degli dèi antichi e delle antiche credenze, è vero, ma non c’era forse dietro a loro una Forza che sorregge l’Universo e con esso persino gli antichi dèi?».
«Ebbene, amico mio, fu per me motivo di enorme sofferenza, tu non puoi immaginare quanta sofferenza, sapere che davvero questi cristiani avevano incontrato in qualche modo il Secondo Logos e che Questi era davvero sceso sulla Terra vivificandola. Io lo sapevo meglio di loro perché io lo sentivo. Lo sentivo anche qui, nel grembo della madre, Egli vibrava nelle rocce morte degli abissi, Egli illuminava l’oscurità profonda delle radici e dei fiumi sotterranei. Egli aveva fatto della Terra la sua Sposa, perché veracemente Egli era il Sole del Sole, quel Sol Invictus che aspettavamo da sempre e che sapevamo essere ormai presente qui, accanto a noi…
Si confondevano nel mio cuore l’immagine di Mithra e la Sua e quando venivo qui a pregare e a compiere i sacri riti, sentivo che quell’Essere Solare era uno con il giovane dio guerriero e che l’immagine di Lui proteso sul toro a cercarne la gola, si trasformava in un’altra, indefinibile, e per me misteriosa ed inafferrabile. Ma odiavo i cristiani per la loro presunzione, per il loro fanatismo, loro che nulla sapevano di Platone, dei grandi maestri dei Misteri e che giudicavano con disprezzo la nostra fedeltà alle forze cosmiche che il popolo chiamava con il nome degli dèi. Quei cristiani dai quali Roma giustamente si difese e che ora perseguitavano noi, gli eredi della piú alta saggezza, della compiuta umanità, dell’essere eterno di Roma. La protervia di questi barbari, rozzi anche quando studiavano i testi nostri, era enorme. La loro barbarie era proprio questa: essi non potevano piú attingere alla verità per esperienza propria e allora facevano del loro mucchio, che chiamavano Chiesa, la loro unica forza: una legione inversa. Essi chiamavano fede questa loro credulità, perché si fondavano soltanto sulla testimonianza passata da sacerdote a sacerdote di quanto era accaduto in Palestina secoli prima. Essi non sapevano, essi credevano, noi sapevamo.
Per questi barbari valeva soltanto il fatto che qualcuno testimoniasse ad un altro che in Palestina era nato quello che chiamavano il “Figlio di Dio” imbastardendo la nostra tradizione, il mos maiorum, con le fantasie di un altro popolo, un popolo che avevamo sconfitto e sparso su tutta la Terra. Un popolo di perdenti, dunque, e destinato a perdere sempre quando invece Roma può anche ridiventare un villaggio in mezzo ai suoi colli, eppure sempre riemergerà invincibile, perché Roma è l’Uomo, è la natura vera dell’umanità. Barbari e traditori che convincevano della loro “fede” i popoli semplici venuti dal nord e si scatenavano contro chi conservava la grandezza del giovane dio vissuta nella realtà di ogni giorno, di ogni rituale. Bruciarono le nostre case e ci uccisero tutti, cercandoci tra la gente.
Nessuno racconterà mai questa storia perché la storia appartiene a quelli che sopravvivono. Noi non sopravvivemmo: chi non tradí fu ucciso da coloro che predicavano l’amore e il perdono. Tutto questo io dico essere la verità da me vissuta: ho odiato i cristiani che per me erano piú nemici di ogni altro esercito affrontato con le armi in pugno e con il valore di Roma. Essi aspettarono di essere piú numerosi per violare i templi e farne delle chiese dove, come gli antichi giudei, si radunavano, uomini e donne, a cantare le lodi al loro dio straniero, violarono le sacre celle dove gli dèi potevano incontrare soltanto chi ne fosse degno perché aveva avuto il coraggio di salire sino alla soglia del loro mondo celeste. I loro sacerdoti piú importanti imitarono persino le vesti dei sacerdoti degli antichi dèi e questo ci offese, si appropriavano del nostro mondo per distruggerlo. Io stesso, fossi stato come l’Imperatore Giuliano, avrei decretato che le legioni li spazzassero via dalla Terra di Roma, loro, cancro della civiltà, rovina di tutto ciò per cui valeva la pena di combattere, prima che divenissero cosí forti e numerosi da pretendere che la loro fosse l’unica verità.
Noi sapevamo che dietro ogni nume, anche dietro il piú lontano, anche dietro il piú sconosciuto, c’è una Forza che va rispettata e accolta. Roma accolse tutti gli dèi: questi disprezzavano tutti gli dèi perché non ne avevano esperienza! Non riuscivano affatto a sentire la divinità, a percepire la Forza che scorre attraverso i Numi e che crea l’armonia del mondo e della Natura. Ognuno di noi era Mithra, ognuno di loro era solo un “servo di dio”. Noi eravamo come dèi, loro come schiavi. Eppure, e questo ancora mi tormenta, eppure i primi tra loro, vissuti laggiú secoli fa, avevano visto con i loro occhi il Secondo Logos camminare tra la gente ed offrire il suo sangue come se Mithra avesse sacrificato prima il toro e poi se stesso in un atto d’amore senza pari, irripetibile, unico. Non unico dio, dunque, ma unico atto, unico rito eterno. Questo io lo sapevo con certezza. E come non conoscerlo quando si è seguita la scuola segreta dei Misteri? Scuola ormai esangue, lontana dalla gente, chiusa in una grotta come questa ma perciò stesso avvicinabile dai singoli uomini nell’intimo della loro anima. Noi volevamo crescere, i cristiani soltanto vivere. Questa è la mia tragedia: sapere la verità, sapere che il tuo nemico la possiede e non ne è cosciente. Ora io chiedo: verrà mai il tempo nel quale io possa tornare in questo luogo ed udire parole che alla Verità del Logos incarnato uniscano la realtà della conquista del Suo mondo da parte dei singoli uomini, mediante il superamento delle forze infere che albergano in ognuno di noi? Allora io avrò pace e si spalancheranno per me le vie che dovetti abbandonare nelle mani di questi barbari. Allora uscirei da questa grotta come dal grembo della madre. Ma tu racconta di me perché si sappia cosa accadde nel mio tempo, sii anche tu un testimone, ché testimone vero è colui che vede ed ode non colui che crede, della mia esistenza affinché chi ora mi porta con sé nel segreto della sua profondità, mi riconosca e sappia. Affinché tornando qui da solo, un giorno che sarà voluto dagli dèi, mi incontri e con me incontri il Suo Essere Eterno».
Poi fu il silenzio: né i rumori della landa carsica, né quelli del traffico sull’autostrada, soltanto il gocciolio dell’acqua sulla pietra: il sangue del toro che scorre perenne nel grembo della Terra. Allora mi riscossi e tornai nel mio mondo. Egli però è ancora lí in attesa che qualcuno venga a reclamare quell’esistenza, quel sacrificio di sé perduto per la memoria degli uomini di oggi.
Renzo Arcon