Covando grevi spore di silenzio
si ostina un tempo che non ha futuro
e del passato inutilmente fruga
combuste rimanenze, vagheggiando
che al fondo del tritume un’ora indenne
baleni, a prova dei trascorsi ardori.
Serrati in cerchio, muti, l’infeconda
mondiglia lungamente rimestiamo,
e il corpo reca il marchio degli esíli,
delle sortite estreme, dei naufragi.
Avulsa dagli spazi, rintanata
nei sordidi covili disumani
vendemmia d’altre arsure ha la città:
larvate essenze spandono nell’aria
acredine di muschio dai sepolcri,
incensi cui si fondono devote
sonorità che vagano cercando
di definirsi in sillabe, parole,
per consegnarci un monito, un presagio,
o una reliquia, stimolo ai ricordi
di quello che fu nostro, e che perdemmo.
E che ritroveremo, se ci assiste
la face d’oro vivida nel cielo,
di là dai tetti, in un agone incerto
col fitto tenebrore suscitato
dai nembi trascorrenti in orde cupe.
Nell’alternanza di fulgore e buio
esprime quel chiarore un vaticinio,
ridesta a nuovo la certezza che
malgrado l’ombra la speranza resta.
Forse impastata di pietà, di pianto,
la cenere darà la sua fenice,
e tutto sarà luce immensa, e canto.
Fulvio Di Lieto