La Bella ch'è prigioniera

Considerazioni

 

La bella ch'è prigioniera

 

Uomo preoccupato

 

Ci sono dei fastidi, è inutile negarlo; forse sarebbe appropriato chiamarli preoccupazioni, nervosismi, incidenti di percorso, mancate pianificazioni, tensioni o disagi. Ma il risultato resta uguale: una generica sensazione di trovarsi in difficoltà, di cui a mala pena s’intravede la causa; si subisce, ci si dibatte dentro, presi nella trappola di forze ostili, sicuramente poco benevole. È tuttavia opinione diffusa che le situazioni psicologiche siano variabili e di­scontinue; mischiate a diversi moti dell’anima, in qualche modo smorzano la virulenza delle suddette neuropatie, ne fanno da contrappeso e la nascondono per periodi anche lunghi; dando motivo di credere che i “momentacci” siano nuvolaglie passeggere, tollerabili quanto il maltempo d’estate.

 

Vorremmo tutti star bene, godere di buona salute, all’interno di un’esisten­za serena, prospera, composta in prevalenza d’allegria e spensieratezza. È l’ottimismo dei politicanti: offrire facili slogan che accaparrino facili consensi. Chi sostiene il contrario viene giudicato un intruso, un inopportuno, subdolamente infiltratosi a guastare le armonie corali di una collettività, la quale proclama ai quattro venti di volerle, anche se, a conti fatti, tale volontà finisce… coi quattro venti.

 

Fastidi e seccature, per non dir di peggio, sono quindi nell’immaginario collettivo, da evitare accuratamente. Perché allora il percorso dell’esistenza è quello che è? Duro, irto di ostacoli, arcigno e sgarbato piuttosto che comodo e agevole? Sempre tenendo conto che i tempi delle seccature e dei problemi, anche quando perdurano a lungo, sono relativamente “brevi” rispetto ai periodi di ordinaria bonaccia, non è chiaro come i primi possano gravare al punto di rendere negativo il bilancio della vita, che – ovviamente – viene redatto in base ad un conteggio prettamente soggettivo. Non appare strano che cinque minuti di “disturbo” riescano a rovinare ore di placida normalità? Qualcuno sbaglia i calcoli?

 

Personalmente credo di sí; il fatto è strano e anche sospetto. Del resto pure dalle letture dei sacri testi, svolte in un certo modo, si evince un misterioso, fatale teorema: all’interno di un gruppo, basta che uno solo funga da bastian contrario, da pecora nera, lavorando controcorrente, ed ecco: tutto ciò che pareva umanamente edifi­cabile, se non già edificato, finisce miseramente a rotoli, distrutto da un unico negativo, insorto e contrapposto a molti positivi. Il che dovrebbe far riflettere su un parametro che, messo cosí, si pone in evidenza: il male e il bene hanno pesi diversi; cento grammi del primo non corrispondono affatto a cento grammi del secondo; il male, quand’anche inferiore come cifra d’inizio, pesa piú del bene; la densità di quest’ ultimo essendo meno compressa, piú rarefatta e con una particolare tendenza alla volatilità.

 

Naturalmente una visione del genere non regge di fronte ad un esame scrupoloso e imparziale. Ma chi mai può ai giorni nostri dichiararsi scrupoloso e imparziale? Non ci vuol molto per capire che i conteggi, mal eseguiti da imperiti stizzosi, spesso agitati, producono ed incrementano un quadro desolante quanto basta a prenderli per reali, ovvero svolti con correttezza e obiettività. La matematica non dovrebbe essere un’opinione; ma, quasi senza accorgimento, tendiamo ad opinare pure quando svolgiamo operazioni di matematica; usiamo i numeri suggeriti della nostra corta esperienza in modo impari e disomogeneo. Privi dell’accorgimento di cui sopra, non vediamo dove la nostra superficialità ci sta portando.

 

Si guardano e si fissano con grande attenzione le ingiustizie e i torti subiti da parte di altri; difficilmente li accostiamo ai torti e alle ingiustizie che abbiamo commesso ai danni loro. I risultati che in tal modo vengono prodotti daranno sempre un quadro distorto – per non dire sconvolto – della vita, e di conseguenza, questa non si spiegherà mai apertamente in tutto il suo valore. In ultima analisi, accade che, irretiti dalle asperità, stufi, stanchi e impastoiati da un eccesso di piccole insulse comodità quotidiane (delle quali non ce ne importa assolutamente nulla ma alle quali non rinunceremmo per tutto l’oro del mondo) non siamo piú in grado di giungere ad una vera obiettiva conoscenza sullo stato delle cose; parallelamente, cadiamo in una condizione catatonica di avversione, di ingratitudine trasgressiva e di malsana indolenza, a volte anche un po’ ribalda, nei confronti di quel ci tocca, come cittadini del mondo.

 

Questo mondo di cui non ricordiamo piú di aver deciso di venire a viverne tutte le inquietudini e le cor­ruzioni per trasformarle, grazie al sacrificio di ripetute esistenze, in qualcosa di infinitamente migliore. Per cui, assordati, accecati dalle roboanti fantasmagorie di una realtà che gioca a rimpiattino dietro la sua contrad­dizione, ci chiediamo: «Cos’è la vita? Qual è il senso della vita?».

 

È una domanda cui piacerebbe a tutti poter rispondere, anche se essa non sorge spesso in modo impellente e irrimandabile. Eppure nelle profondità dell’intimo umano, lavora senza sosta. Resta di regola confinata sullo sfondo delle coscienze, quale mesta dimenticanza, e da lí svolge il ruolo passivo di recinzione, di confine (o di carcere) fra le interazioni di volontà e sentimento, puntualmente rappresentate, giorno dopo giorno, sul palco­scenico terrestre, da inconsapevoli attori, nei quali stentiamo riconoscerci.

 

Contessa, che è mai la vita

 

Regina delle sfumature melodrammatiche sul tema della vi­ta, in bilico tra sogno e realtà, fu la risposta del Carducci alle domande esistenziali sopra citate. Scrisse il poeta: «Contessa, che è mai la vita? È l’ombra di un sogno fuggente, la favola bella è finita; il vero immortale è l’amor!». Ho dovuto cercare e rileggere i versi del poeta, perché personalmente ricordavo come finale:« non resta che morte e dolor!». Evidentemente ricordavo male; ma – sessantadue anni dopo gli studi liceali – ri­vedendo oggi il mio equivoco, confermo di non aver stracapito completamente il testo, ma di aver spinto quel sospiroso lan­guore novecentesco verso la sua inevitabile conseguenza, dal momento che – con quelle le premesse – nessun “amore im­mortale” potrebbe mai sostenere la veridicità del “sogno” e della “favola”. L’invocazione drammatica tuttavia vibra e fa vibrare. Secondo me, per lo meno in astratto, l’immaginazione del Carducci si è per un momento posata su una fronda del vero. Agli artisti ogni tanto succede.

 

Da una recente conversazione tra il prof. Federico Faggin e il rev. Ermes Ronchi, che, su indicazione di un’amica, ho avuto modo di ascoltare in differita, è saltata fuori invece una definizione ben diversa sul senso della vita (quando si dice il caso!). Una definizione che sul momento mi ha affascinato; tanto piú per essere fuoriuscita da uno schermo televisivo che, per definizione, è il piú agguerrito annientatore d’ogni risveglio di vivacità. Il senso della vita dunque non esiste; la vita non ha alcun senso, se non quello d’essere lei il senso di se stessa. Non c’è altro. Capisco che sul momento sembra un giochino di parole, ma se si riflette senza rispar­mio, magari meditando, si può verificare che questa, per quanto arida, era ed è l’unica soluzione possibile alla questione di base.

 

Chiedersi quale senso abbia la vita, vale quanto chiedersi perché il melo fa le mele, il pero fa le pere, e non sia ammesso il contrario. Evidentemente qualche motivo c’è: prima di tutto, una natura con le sue leggi, di cui non abbiamo, neanche per un microsecondo, tenuto conto; in secondo luogo, perché melo e mele, come pero e pere, sono rappresentazioni che noi adoperiamo per bisogno di un riferimento collettivo; la nostra logica, non vedendo alcuna utilità in un eventuale scambio dei ruoli fruttiferi, non interviene in proposito; accetta l’ordine naturale cosí come sta; a parte i tentativi di innesti, incroci e ibridazioni che costituiscono un de­plorevole capitolo a parte. Si sfoggia pertanto uno dei piú “grandi interrogativi “ della storia umana (qual è il senso della vita?) quasi per esercizio dialettico, nella speranza di esibire un buon livello culturale e di avvin­cere l’attenzione dei vari pseudo-filosofi salottieri che, in casi simili, accorrono senza indugio, per dopo in­tegrare, criticare e denigrare.

 

Il senso della vita starebbe racchiuso dunque nella vita stessa? Ma perché? È evidente che se per vita noi intendiamo l’esistere comune, allora il conto non torna; ma se per vita, richiamassimo quella forza d’amore che “move il sole e le altre stelle”, forse ci sentiremmo su una strada maggiormente significativa.

 

Un notevole periodo di tempo intercorre fra le epoche di Dante e di Carducci; notevole, secondo i nostri metodi di calcolo, non però tanto notevole da impedirci di capire che nell’Alighieri era presente una marcia in piú (un entusiasmo?) spentasi in seguito e che poi sarebbe andata definitivamente perduta nel crepuscolo dei secoli, per molti saggisti, scrittori e poeti, compreso il Carducci.

 

Una questione di sensibilità dell’anima, intendo: già compromessa al tempo del dolce stil novo, cadde prigioniera negli anni successivi; prigioniera al punto di non riconoscere d’esserlo, di celare a se stessa le proprie catene, e di trovare nella sua detenzione un fatto normale connesso al voler/dover vivere in un mondo in cui invece predomina il concetto di morte. Non sa, né vuol sapere, che quel concetto e la sua alienazione procedono di pari passo. Il massimo che può fare, in queste condizioni, è darsi alle considerazioni elegiache, colme di rimpianto, e nel suo intimo declino lasciarsi cullare da esse.

 

Chi cade cerca di rialzarsi; ma chi cade e resta a terra convinto che ogni tentativo di rimettersi in piedi sarebbe vano o addirittura stupido (non si va contro il proprio destino!) non può permettersi altro che sognare ad occhi aperti, fingere di percepire e di comprendere tutto, mentre invece afferra solo una minima parte di ciò che gli sarebbe possibile, conferendole il titolo esclusivo di “realtà globale”; che, riportata in prima pagina dai quotidiani, si legge “ineluttabilità”. La capacità di avvertire la sottigliezza di un eventuale distinguo tra “globale” e “globalizzata”, al pari del saper cogliere un tema da marcia funebre nella parola “ineluttabilità”, sembra svaporata nel grigiore melanconico e sterile del tempo trascorso.

 

Eppure una tale capacità esiste (magari menomata, ma resiste per tutti): si chiama pensiero, facoltà pensante, intelletto, e sta di base a ciò che si racchiude nella parola “intelligenza”; viene universalmente adoperata per risolvere un’enormità di problemi pratici, materiali e tecnologici; talvolta anche per affrontare questioni rare­fatte, come le distinzioni lessicali, etimologiche o consonanze criptiche da decifrare. La Scienza dello Spirito, per chi la pratica e vi trova giovamento, propone un bel parallelismo che a questo punto non posso fare a meno di tirare in ballo: se cerchiamo il cosí detto “senso della vita” e non vediamo che il pensiero è l’originario sostegno, l’alimento primo e indispensabile di ogni vivere e della ricerca sul senso del vivere, ogni nostro tentativo sarà vanificato. In poche parole, il pensiero, qualunque pensiero, ha già in sé la potenza della vita, senza alcuna differenza se si parla di vita interiore o di esistenza puramente fisica. Per cui quando la domanda fatidica, salita dal profondo del nostro sé, viene a galla, dobbiamo ammettere che grazie al pensiero e solo grazie ad esso, è stato possibile riconoscerla, valutarne la portata, e lavorarci sopra per giungere ad un risultato in grado di soddisfarla.

 

Naturalmente per giungere dal concetto di pensiero a quello di vita sono richiesti dei passaggi, dei colle­gamenti senza i quali i due termini rimarrebbero isolati. Non solo: ma quando questo isolamento si dà, pure l’essere umano, nella sua totalità si sente isolato; di conseguenza non riesce a trovare il giusto equilibrio psico-fisico né tanto meno l’armonia interiore che puntualmente lo accompagna e lo sorregge. L’anima incarnata che non si sia data la pena di capire il motivo della sua incarnazione, è un naufrago che non ha risorse se non quella di sperare in un provvidenziale salvataggio. Ma le speranze cresciute nella paura hanno durata breve.

 

Piantina morta

 

Ognuno di noi avrà avuto modo di notare cosa succede quando ci si dimen­tica di dare l’acqua ad una piantina in vaso tenuta a casa. Quando ci si accorge della trascuratezza, si può restar male, provare un piccolo dispiacere, ma nessuno se ne stupisce, dato che anche il meno avveduto sa per esperienza che senza l’acqua (e la luce e la terra) ogni pianta deperisce e muore. Grazie ad un inizio di erudizione di Scienza dello Spirito (proprio l’abbiccí della medesima) siamo edotti che, nell’essere umano, la pianta è simile all’anima, la luce e l’aria val­gono quanto le forze eteriche presenti nel pensiero, e il terreno, o terriccio necessario, è prestato dalla struttura fisica, o corporeità.

 

Immaginiamoci ora cosa può succedere a questa nostra piantina, cosí personale, intima, delicata eppur cosí negletta e trascurata, se nel gestire il tempo quotidiano dell’esistenza, relegassimo all’ultimo posto le cure necessarie al suo sviluppo e al suo sopravvivere. Perché tutto ciò che vive, o si sviluppa oppure avvizzisce e muore; sempre che vi sia consapevolezza di questa semplice, eppur ferrea legge della natura universale. Non è un dogma, ma una realtà la cui fondatezza continua a sfuggirci inesperita.

 

Da un albero, da un animale, non si può pretendere questa conoscenza; neppure si potrebbe pretenderla da un altro essere umano, ma l’essere umano può invece pretenderla da se stesso; anzi, lo può al punto che, se non lo fa, per lui la vita non ha piú alcun senso; sarà inutile che costui si ponga la domanda, in modo debole o con tutta la virulenza derivante da molteplici crisi interiori: la domanda di per sé funge solo da serratura, mentre la chiave corrispondente dovrà appena venir recuperata mediante le virtú del pensiero. Una possibilità meramente individuale, esclusivamente umana.

 

L’anima manifesta il segreto del mondo; il pensiero è la sua svelazione. Che le due cose si ricongiungano in un’unica sintesi, è compito dell’uomo, ma contemporaneamente è il senso del suo essere vivo qui, oggi, su questa terra, in questa veste e in questa forma. La bella ch’è prigioniera… era l’inizio di un canto rivo­luzionario attribuito ai carbonari del primo ‘800; naturalmente essi ponevano al centro della ipotetica pri­gionia “la Libertà”, allo stesso modo in cui, secoli prima veniva considerata da bardi e menestrelli, la Bella Dama rinchiusa nella Torre, e – qualche volta – custodita da un Drago-carceriere, piuttosto scorbutico.

 

Tutte queste fantasie romantiche sembrano oggi superate totalmente, fuori luogo e forse risibili,: se all’epoca dei “Promessi Sposi”, le “cappe” s’inchinavano ai “farsetti”, possiamo dire che di questi tempi, le lance in resta dei cavalieri baldi e (ammesso e non concesso) arditi, si dovrebbero inchinare alla protervia dei telefonini e alla crudezza delle chat; che non sono armi meno micidiali delle antiche lance, anche se nessuna Carta dei Diritti dell’Uomo, si è presa finora la briga di affermarlo.

 

La nostra Bella, l’essenza piú intima del nostro sé, il tabernacolo immortale che, trasformato, a sua volta trasforma il vivente naturale in uomo autocosciente, a qual titolo potrebbe oggigiorno venir considerata “prigioniera”? E prigioniera di chi?

 

Come esiste lo Spirito, per bilanciamento esiste anche l’Antispirito; proprio come non c’è Bene se non c’è il Male, o non ci sarebbe Amore se mancasse l’Odio. Ma il giochino dei contrari non è significativo se i contrari non vengono riconosciuti tali da una coscienza pensante in grado di intuire il germe recondito presente in ciascuno di essi.

 

Cosí come l’inizio e la fine di un segmento fanno presupporre la mezzeria; come i due punti-base di un triangolo richiamano il vertice; come lo specchio serve per specchiare qualcuno o qualche cosa che gli si pone davanti; altrettanto, i contrari, fanno intuire che, proprio dalla dinamica degli opposti, nasce una determinata tensione; da questa tensione, portata immaginativamente a livelli molto sostenuti, può sortire l’idea di una corrente primordiale, cosmica: la nascita del Tutto, compresa la Vita.

 

Non diversamente si presenta quel particolare universo chiamato uomo: attraverso le epoche egli è maturato fino a diventar consapevole di avere una fisicità (sostanza, materia, ossia anti-spirito); di possedere una centralità pensante immateriale (il che fa presupporre uno Spirito); ma non gli è ancora del tutto chiaro il valore di quel che, tra le due sponde, gli sorge come anima; in cui pur egli incessantemente vuole, pensa e sente, secondo forze che da dette sponde convergono su di lui; e che, per ora gli fanno scordare quelle, che, partendo invece dalla stessa anima, potrebbe usare, senza sentirsi usato.

 

Guardare un quadro

 

Il “sentirsi usato” rientra tuttavia nell’esperienza fisico-sensibile. da un certo punto in poi non lo si avverte nemmeno: il peso del vincolo sembra sparito; si crede di essere liberi; si crede di essere nella norma. Ma lo si è quanto chi, perduta la vista in età giovanile, si è oramai abituato al mondo dell’oscurità. Perciò, è una bella fatica riconoscere ed ammettere lo stato di perenne prigionia dell’anima, quando capita che qualcuno accenni l’argomento. L’anima, qualunque sia la sua situazione, si espande di continuo; stimolata da percezioni, sentimenti e propositi volitivi, l’espansione può giungere al punto in cui diviene capace di prospettarsi un ideale di vita nobile, epico, realizzabile sulla terra; è come tenere fer­mo innanzi a sé un quadro potente e ispiratore; am­mirandolo, l’anima prova una gioia infinita perché vi trova il segno inequivocabile della sua individuale vicenda.

 

Ma, come ebbe a proferire un saggio, in un mo­mento di criticità la prova piú terribile per un essere umano è quella di fargli balenare nell’anima un ideale luminoso, un sogno fantastico da attuare e, allo stesso tempo, insinuare in lui il dubbio d’esserne indegno, incapace non solo di rendere concreto quel sogno, ma anche di viverlo in sé quale semplice conforto di una astrazione immaginativa. Per cui, messi di fronte ad una prova del genere, ed avendo a difesa solo lo scudo della razionalità materialistica epocale, si cede alla tentazione; si crede opportuno ritirarsi in buon ordine e coltivare qualche ideuzza piú accessibile alle attuali caratteristiche dell’umana struttura.

 

Tutto questo però dove ci porta? A far compagnia a quel saggio e alla sua crisi? No, l’esempio citato vale a creare un distinguo preciso e importante, come sono sempre importanti le vere tribolazioni interiori: di cosa soffre l’anima? Del fatto di sentirsi prigioniera di un sogno irrealizzabile, oppure di accorgersi d’essere diventata talmente debole, talmente avvilita, da non riuscire a realizzare un bel niente? Nemmeno se, per un’as­surda magia, il sogno impossibile venisse ridimensionato alle poche forze rimastele? Viene alla luce il guasto: uno stato di incarceramento c’è. Per travisamento di un sublime motivo o per incanto di forze agenti dal basso (avverse ad ogni tentativo di elevazione dell’umano) le catene restano catene, il mondo resta esterno, e la vita un fardello a volte insopportabile, ma che comunque ci piega ad una continua, acquiescente tolleranza, tanto enigmatica e illogica quanto assuefacente e inevitabile.

 

La Libertà ha cessato d’essere un mito, un sogno, un anelito: rimpicciolita, sconfessata e tradita mediante l’abuso sconsiderato di tutte le trappole e i meccanismi coi quali attualmente mortifichiamo la nostra interiorità, rendendola ogni giorno meno adatta all’avventura esistenziale (che pur abbiamo scelto di vivere) è diventata un optional da acquistare con il potere, con il denaro, con la furbizia e con la violenza. Il senso della vita sta irrimediabilmente perdendosi (quel senso che era la sua essenza, non dimentichiamolo mai) aiutata in questo da un grado di ignoranza e di diseducazione generalizzate che consente a chiunque di fare ciò che il quel momento brama di fare. La Libertà si è trasformata in fiction, se non in soap opera; senza alcuna fine, senza punti di arrivo; solo per far valere, e di conseguenza sopportare, l’abulica tristezza dello scontro senza confini: complici l’ambiguità delle filosofie, la corruzione delle diplomazie e la brama del menar le mani da parte di facinorosi, sempre piú emergenti dagli strati di un’umanità imbelle, timorosa, spaventata; aggrappata alla speranza di un precario neutralismo, come il bombardato al miraggio di un ipocrita “cessate il fuoco”.

 

La Libertà sta tutta da un’altra parte; la sua Idea vive molto prima che lo scenario sopra descritto si sia compiuto; verificatosi, diventa tardivo ripristinare lo status quo ante; che sarebbe poi un livello superiore di pen­siero e null’altro, un pensiero che proceda verso la sua meta. La Libertà è qui nell’Idea che non conosce dimenticanza e morte perché non patisce contaminazione. Non perché la disdegni ma perché, in quanto pura idea, non le è necessaria alcuna dinamica che la faccia trionfare sopra un opposto.

 

Libertà Giorgio Gaber

 

La Libertà – cantava il buon Giorgio Gaber – non è star sopra un albero; non è neppure il volo di un moscone; la Libertà non è uno spazio libero; Libertà è partecipazione! Troppo poco per indicare una via; le negazioni guastano le indicazioni. Star sopra un albero è il sentirsi pri­vilegiato per una posizione elevata scambiata per elitaria; il volo del moscone, goffo e rumoroso, non è l’eleganza di una farfalla; e lo spazio libero, si rivela una apertura occasionale; prima o dopo, dovrà fare i conti con le recinzioni che lo separano da altre libertà provvisorie… Con la Libertà, intesa quale partecipazione, il cantautore fa un passo in avanti; è un avvio; per quanto sincero, esso è tuttavia destinato a smarrirsi nel confuso intrigo di “quando”, “quanto” e “come” partecipare… Lo slancio ideale resta appeso al taccuino del dare e dell’avere…

 

La Libertà non è ciò che siamo, e nemmeno ciò che vorremmo essere; la Libertà è ciò che viene dallo Spirito; ciò che l’Io ci chiede di diventare per trasformarci veramente in costruttori di un nuovo mondo: Essa non ri­guarderà piú una costruzione di cose nuove bensí la trasformazione progressiva di quelle vecchie, dal momento che questa Libertà non si è mai proposta di vincere, di superare, di sopraffare, di demolire, di rimuovere ostacoli o impedimenti, ma piuttosto di accoglierli, capirli e integrarli; una ristrutturazione concedente la stessa dignità che opera in tal senso: o è la forza proveniente dallo Spirito, oppure non è forza né dignità.

 

Appare insolito, magari depistante, paragonare la dignità alla libertà; ma hanno entrambe un legame indis­solubile: che possono appartenere al dominio dell’ego, come possono innalzarsi e far parte dello Spirito umano. Nel primo caso si è costretti a difenderle con tutte le forze psico-fisiche, perché in qualunque momento ci possono venir sottratte da avversari particolarmente potenti; nel secondo, tale eventualità non è neppure concepibile; valori comuni e virtú vivono su piani diversamente elevati, e nessun malintenzionato, neanche provetto acrobata, ama agire a livelli troppo alti. In ciò che siamo, per ora, c’è la pretesa della libertà; vi fre­mono l’ansia, la brama e la paura di perdere qualcosa; quindi situazione opposta alla Libertà: cioè la sua eterna finzione. Che dopo venga codificata e incensata dalla storia dell’uomo in libri e monumenti dedicati alla gloria, è il rapporto di una chimera perseguita, forse anche ingenuamente, su diversa scala.

 

Ma, alla fioca luce dell’epoca odierna, gli intelletti maggiormente bramosi (i Brainstormers) che hanno voluto e attuato la proliferazione di mercati, quali – per dirne alcuni – quelli degli smartphone, dei bitcoins e del­l’Intelligenza Artificiale (se non artificiosa), non potranno invocare a discolpa il fatto d’essere stati ingenui; semmai al momento opportuno potranno chiedere le “ attenuanti”. Sempre che i superstiti, chiamati a giudicare, conservino fino allora, accanto al senso della vita, anche quello dell’umana pietà. Non dovrebbero esserci problemi: ove il primo ci sia, l’altro non mancherà.

 

Angelo Lombroni