La posta dei lettori

Redazione

 

La posta dei lettori

 

letterina       All’inizio del suo discorso, nel VII Convegno, quello di Pasqua 2024, Fabio Burigana dà una sua definizione di che cosa sia la morte. Dice che la morte è il bloccare e il recidere la nostra connessione con il cosmo. Ne rimasi inizialmente impressionato, ma poi durante la notte mi sono svegliato con il pensiero che non fosse una definizione esatta. Prima di tutto, la morte, secondo la descrizione storica che ce ne dà Steiner, fu introdotta dalla Gerarchia piú alta di Serafini, Cherubini e Troni, come reazione al cosiddetto peccato originale, causato da Lucifero. La morte non era stata prevista dai nostri Creatori diretti, gli Elohim. Il peccato originale divenne la causa per la introduzione sia della separazione dei sessi, sia per la morte. La Prima Gerarchia in questo modo trasformò il danno creato da Lucifero in un potenziale bene superiore, che è la Libertà. Quindi, identificare la morte con lo stato del peccato, come fa Burigana, forse non è preciso. Il peccato non comporta direttamente la morte, benché la richieda. Bloccare e recidere la nostra connessione con il cosmo non causa direttamente la nostra morte, ma la provoca come risposta dal mondo spirituale. L’essere che ci porta la morte è Arimane, che fu mandato nell’ambito della Terra proprio con questa missione. Si tratta di Angri Manyu, il vecchio oppositore di Ormuzd, reggente del Vecchio Sole, oggi chiamato il Cristo – come ci insegnava Zarathustra durante la vecchia cultura persiana. La morte non è quindi qualche forma di legge naturale-spirituale collegata all’essere peccatore, ma è un essere spirituale concreto, il quale domina la nostra realtà da quando noi abbiamo aperto le porte delle nostre anime a Lucifero, e finché continuiamo a farlo. Sono d’accordo con Burigana per quanto egli nella sua definizione della morte dia peso al nostro ruolo attivo nell’intero processo. Benché non fosse stato veramente colpa “nostra” entrare nello stato di peccatori – giacché la nostra personalità, capace di prendere decisioni consapevoli, prima di tale intervento luciferico non esisteva ancora – è comunque, almeno parzialmente, colpa nostra se insistiamo a rimanervi. Arimane, almeno per ora, non ci può portare la morte della nostra anima, ma solo la morte del nostro corpo, il quale in verità, essendo il tempio degli Dei, non è nemmeno nostro. Questo cosiddetto “nostro” corpo, il quale originariamente era stato immortale, essendo esso nient’altro che Dio stesso, si è quindi sottomesso volontariamente alla condizione della morte, per controbilanciare l’influenza di Lucifero. Il nostro bloccare e recidere la connessione con il cosmo è quindi la causa continua per la morte del nostro corpo, ma non siamo mica noi come anime che moriamo, invece è Dio chi muore per noi – come ci fu mostrato in maniera esemplare da Gesú Cristo. Ciò di cui parla Burigana, sarebbe invece la morte dell’anima, la quale potrebbe essere causata soltanto dall’Io, nel caso che questo non riuscisse a conciliarsi con l’unico figlio, il Cristo. Un tale Io si auto-eliminerebbe, opponendosi alla base del proprio essere. Che esista tale possibilità, dipende dal fatto che il Cristo non è una teoria cosmica del Creatore, ma il suo unico Figlio amato. Il Cristo, e quindi il nostro mondo, non è l’unica realtà possibile, ma è la realtà concreta voluta dal Padre. La spada a doppio taglio, che può darci il nostro Io superiore, oppure anche annientarci definitivamente come anime, nasce dal fatto che, quando si faccia vivo in noi il presentimento del nostro Io, mentre siamo ancora sotto l’influenza luciferica, possa affiorare in noi un falso senso di libertà, il quale si rende conto che questo mondo non sia l’unico possibile. Accettare e amare il Cristo non è uno stato automatico che si abbina necessariamente allo sviluppo dell’Io superiore! Si tratta invece di una scelta fatta in consapevole libertà. Il fatto che, nel caso che facessimo una scelta diversa significherebbe la nostra morte, non riduce la nostra libertà. Siamo liberi anche di morire, e quindi di non-essere. La nostra forza di poter bloccare e recidere la nostra connessione con il cosmo deriva quindi direttamente dal Padre, la cui presenza notiamo nel nostro Io nascente. Si tratta di quella parte di noi stessi, la quale prima o poi deve morire in Cristo, e quindi nel Logos originario di questo cosmo, il quale è l’unica cause reale della nostra esistenza. In pratica, si tratta di uno sforzo che la creatura deve fare prima di diventare essa stessa creatrice: la creatura deve accettare se stessa come versione in qualche senso limitata delle, almeno teoricamente, illimitate possibilità di creazione. Sembra che si tratti proprio di un passaggio strettissimo che si sia posto il Padre a se stesso, per poter risorgere ogni volta, in ognuno di noi, come essere veramente nuovo. Morire in Cristo significa quindi di accettare e soprattutto amare il cosmo cosí com’è, mentre Rinascere con la forza dello Spirito Santo significa unirsi gradualmente al Padre.

 

Alessandro S.

 

Avendo il lettore portato in causa Fabio Burigana, chiediamo a lui un commento alla mail appena pubblicata ricevuta in redazione, riferita al suo intervento al Convegno di Pasqua 2024.

 

Concordo con quanto scritto dall’amico. Non mi resta che spiegare la mia prospettiva. La morte può esser vista come cessazione della vita fisica, trasformazione radicale, oscuramento della coscienza, oppure perdita della connessione con la Vita dello Spirito. Tutti questi concetti riportano all’Idea di morte, ma nel parlare o nello scrivere ci si può riferire ad uno di essi. In particolare mi riferivo alla perdita di connessione con lo Spirito che caratterizza lo stato Terra. Perdita che è avvenuta lentamente ed attualmente ha raggiunto il suo culmine, e che solo attraverso il Cristo è possibile superare.

 

Fabio Burigana

 

letterinaUn amico che segue da molti anni l’antroposofia mi ha detto che lui pratica solo la concentrazione perché basta quella, mentre gli altri esercizi sono solo a corredo e possono non essere eseguiti. Dato però che sia Rudolf Steiner che Massimo Scaligero nei loro scritti insistono sui cinque esercizi piú uno, vorrei sapere se, nonostante il parere di un “discepolo della prima ora”, come ama farsi chiamare, effettivamente gli altri esercizi possono essere importanti.

 

Fabrizio d. B.

 

In effetti ci si domanda perché sia il Dottore che Massimo abbiano insistito su regole dello sviluppo interiore che in realtà non servono proprio! Basta la concentrazione. Perché sviluppare la volontà con l’esercizio dell’azione pura? E perché l’esercizio dell’equanimità, se con la concentrazione risolviamo ogni reazione istintiva a gioie e dolori? E ci domandiamo anche perché esercitarci con la positività se tanto con la concentrazione prescindiamo comunque dagli aspetti negativi, vedendo in tutto il bello e il buono! E cosí con la spregiudicatezza, perché con la concentrazione noi non ci basiamo piú su giudizi preconcetti, e attraverso essa arriviamo a un completo equilibrio creativo che non necessita di preparazione e di esercizi ripetitivi, dato che c’è la panacea che tutto risolve. Peccato non poterlo dire direttamente al Dottore e a Massimo, avrebbero risparmiato tempo e fatica a insistere su qualcosa di praticamente inutile. Inutile esattamente come i consigli della persona che segue da anni l’antroposofia!