Un attore, che passa per comico, si presenta al pubblico e inizia qualche battuta che lascia freddo l’uditorio. Allora lui sfodera un repertorio di volgarità. Parte da una parola particolarmente fastidiosa, che sta ormai sulla bocca di tutti, grandi e piccini, ed ecco che il pubblico si scalda, ride, e dopo altre pesanti amenità batte le mani. Per avere quindi il favore degli ascoltatori è necessario scendere al livello delle Atellane di antica memoria? Abbiamo avuto grandi attori in passato che infioravano con battute comiche le loro espressioni teatrali, senza dover scendere nell’oscenità per strappare una risata o un applauso. Oggi sembra difficile riuscirci.
Questo per quanto riguarda il mondo dello spettacolo, che è sempre stato ed è tuttora specchio dei tempi. Ma nella vita di tutti i giorni, nei discorsi fra persone di ogni età e livello culturale, ci si dovrebbe chiedere perché si senta continuamente la necessità di ricorrere, come rafforzativo, alla parola scurrile, persino ai gesti sconci. E se ci si rivolge a qualcuno al quale si ostenta rispetto, con un giro di parole si accenna a quanto sarebbe da sottolineare con le appropriate formule licenziose, ma che ci si astiene, pur se con difficoltà, per riguardo alla persona.
I giovani, e i giovanissimi in particolare, ne fanno una bandiera. Si vedono eteree fanciulle, almeno in apparenza, dai tratti ancora adolescenziali, dalla cui bocca escono frasi e termini indecenti che un tempo sarebbero state appannaggio del cosiddetto “scaricatore di porto”, che da sempre ha incarnato il simbolo della volgarità. Delicate giovinette che fanno tornare in mente l’antica favola dei Fratelli Grimm che narrava della malvagia sorellastra dalla cui bocca uscivano rospi e serpenti…
E non solo il turpiloquio caratterizza quest’epoca, la cosa ormai sulla bocca di molti, troppi, è la bestemmia. Detta con noncuranza, come fosse un intercalare di comune accettazione. Chi ne riceve un’impressione nefasta, persino sconvolgente, è un baciapile d’altra epoca, non è degno di stare in questa società di atei convinti.
Vorrei raccontare un episodio della mia vita che ha rappresentato per me un’esperienza emblematica. Dopo aver chiuso l’ultima attività commerciale, per la quale né io né mio marito eravamo particolarmente tagliati, volendo essere irreprensibili dal punto di vista etico – cosa alquanto difficile in quel campo se ci si vuole affermare o almeno sopravvivere – avevo trovato lavoro presso una società di servizi letterari, in cui si esaminavano e si “ripulivano” testi da dare alle stampe. I correttori di bozze e gli editor dei testi erano per lo piú universitari che si pagavano gli studi con quel lavoro temporaneo. Si trattava di giovani particolarmente dotati di cultura classica, scelti con cura dal proprietario dell’agenzia. La mia età, ormai matura rispetto alla loro, mi poneva in un angolo come una strana presenza, non sgradita ma comunque non parte integrante dell’ambiente di tipo goliardico. Tra loro i ragazzi non facevano che scambiarsi lazzi e battute pesanti, ai quali non partecipavo né mostravo di trovare divertenti.
Nel gruppo dei giovani, un po’ piú adulta degli altri, c’era Gaia, molto ferrata dal punto di vista lavorativo e altrettanto quanto a scostumatezza verbale. Ogni sua frase era infiocchettata con epiteti sboccati, che le uscivano con naturalezza, ma volevano assestare un colpo allo stomaco di chi ascoltava. Con tutti i suoi rafforzativi Gaia riusciva ad ottenere la riconsegna delle bozze corrette, dalla tipografia alla quale eravamo collegati, in notevole anticipo sugli altri, che tentavano, senza il medesimo successo, di utilizzare simili mezzi ma molto meno persuasivi.
Si lavorava sempre in coppia: uno leggeva l’altro correggeva, scambiandosi il ruolo ogni mezzora per far riposare la laringe del lettore. Un giorno in cui ero in coppia con lei, in un momento di pausa Gaia si era lasciata andare a raccontarmi il tormento che la affannava. Era sposata da circa sei anni, e pur desiderando tanto un figlio, non era ancora riuscita a concepirlo. Lei e il marito avevano fatto tutti i controlli e gli accertamenti necessari, ma nulla di anormale in loro era risultato. Mi resi conto che questo le dava molto dolore e ne era particolarmente esacerbata. Forse quel suo esprimersi in modo tanto rabbioso e impudico derivava proprio dal suo patimento interiore.
Vidi in quel momento il collegamento delle due cose: il tormento e lo sfogo licenzioso. Le parlai allora con molta calma ma anche con la sicurezza che il ragionamento richiedeva. Le dissi che il bambino era già pronto a scendere dal mondo spirituale, ma aveva paura di nascere da una mamma con tanta aggressività verbale. Affermai che se lei avesse smesso quel turpiloquio, almeno per un mese, il bambino sarebbe sicuramente venuto.
Dovevo essermi espressa in maniera molto convincente, perché Gaia accettò di tentare. Le dissi che la cosa non doveva riguardare solo l’ambiente lavorativo, ma tutta la giornata, a casa o con amici, insomma ovunque. I primi giorni i colleghi la guardavano stupiti, il suo modo di esprimersi era affettato e innaturale. Telefonava alla tipografia per affrettare la consegna e diceva: «Vorrei chiederti per cortesia di terminare presto il tuo lavoro. Vorrei poterti dire quanto ti sarei grata se tu lo facessi, mi raccomando a te!». Un linguaggio che non le apparteneva, ma Gaia era ormai intenzionata a fare il tentativo.
Da parte mia, la sicurezza ostentata all’inizio subiva qualche perplessità e dubbio. E se non avesse funzionato? Come mi era venuto in mente di azzardare tanto? Rivolsi tante preghiere al mondo spirituale perché lo sforzo che lei stava facendo fosse coronato dal successo. Ricordo che ogni mattina, recandomi al lavoro, percorrevo la strada a piedi che mi separava dalla sede dell’ufficio pregando con molto fervore.
Intanto Gaia aveva raccontato a tutti i colleghi il tentativo che stava facendo, di moderarsi nel parlare perché cosí forse sarebbe nato il tanto desiderato bambino. Alcuni la schernivano, altri la commiseravano, ma tutti la guardavano con interesse per vedere se ci fosse un cedimento alla sua determinazione. E guardavano me, pronti a considerarmi un “fenomeno da baraccone”, una Madame Fifí con il turbante in testa, che nelle fiere di paese incanta con le sue chiacchiere e promette successi in affari e in amore.
Però Gaia resisteva e il mese passava. Una volta giunti al termine mi chiese cosa ancora dovesse fare. Le riposi che certamente ormai il bambino si era rassicurato e avrebbe preso la strada per arrivare, ma che lei avrebbe dovuto continuare a comportarsi in maniera irreprensibile. E cosí fece.
Non passò molto tempo che fece l’annuncio ufficiale: era incinta! Un misto di stupore ed emozione attraversò l’ufficio. Tutti si congratularono e iniziarono a considerarmi dei loro, parte integrante della famiglia! L’esempio di Gaia funzionò anche per loro. Quando ero arrivata, il linguaggio che tutti si scambiavano poteva essere definito “da caserma”. Lentamente andò ripulendosi, e il mutamento fu sancito del tutto quando, dopo un parto andato a meraviglia, Gaia arrivò in ufficio con il bimbo, Giovanni, da mostrare con orgoglio agli amici. Fu una grande commozione per tutti. L’atmosfera dell’ufficio, da allora, divenne serena, collaborativa e si respirava un’aria moralmente purificata.
Ho raccontato questo episodio per dire che se ci si impegna tutti è possibile cambiare, ripulire il nostro frasario, non sentire piú l’esigenza di condire il nostro modo di esprimerci con sottolineature lascive, che fanno male a chi ascolta e ancor piú a chi le pronuncia.
Vorrei che ognuno di noi decidesse di impegnarsi, nel suo ambiente, a dare un esempio di un tale tipo. Lo so che è difficile, ma forse da ora, a partire da questo nuovo anno, ci possiamo provare tutti. E chissà che dal nostro tentativo, fatto con decisione e senso di responsabilità, non ci sia un senso di emulazione anche da parte di chi ci è intorno. La cosa potrebbe espandersi a macchia d’olio, rendendo questa società piú vivibile, luminosa e rigenerata. Sarebbe un grande smacco per gli Ostacolatori, che dal turpiloquio traggono quella energia e quella sostanza che verrebbero loro a mancare. Per questo chiedo a tutti, sperando di essere ascoltata: «Proviamoci!».
Marina Sagramora