Una strada per Damasco

Considerazioni

Una strada per Damasco

Una strada verso Damasco

Una strada verso Damasco

 

Il nome di Damasco suscita memorie antiche e nuove; alcune appartengono a fatti avvenuti in un passato, oramai remoto; altri invece, sono cosí vicini ai nostri giorni, da far parte dell’attualità. Ma i fatti – indistintamente tutti – sono collegabili fra loro; se il rapporto manca o risulta interrotto, la colpa non sta in ciò che è accaduto, bensí nell’insufficienza del pensiero degli uomini che, armati del senno del poi, li scruta, li valuta; chiede e trova motivi.

 

Ma per trovare, bisogna cercare. Per cercare bisogna prima volere. E si può volere qualcosa solo dopo che ce ne siamo fatta un’adeguata rappresentazione: col pensiero.

 

Perciò la rappresentazione di quel che si vuole, quand’anche sia un abbozzo o una semplice immagine mentale, costituisce fin dal principio il traguardo di un intero percorso interiore che si produce coinvolgendo intelletto, sentimento e volontà.

 

Un traguardo non raggiunto non è percezione: ma la rappre­sentazione del suo virtuale raggiungimento, alimentata e pro­lungata quanto basta, lo diventa al punto che, fungendo da mo­tore, mette in funzione l’attività di cui sopra.

 

Per cui, quanto solitamente accade nella realtà fisico-sensibile, ove la percezione è il necessario stimolo di partenza per il pen­sare, qui, nella funzione interiore, l’ordine viene ribaltato; la rappresentazione dell’effetto (traguardo, fine, meta ecc.) precede e dà causa a se stessa.

 

Da giovane ignoravo totalmente che nel principio di “causa ed effetto” i due termini, mutando il campo d’azione da materiale a immateriale, potessero scambiarsi i ruoli. Ma a volte è cosí che funziona: un desi­derio può nascere anche dalla medesima situazione che concretamente pare negarlo; anzi, piú lo nega e lo contraddice, piú quello cresce, preme e si fa sentire.

 

È la sindrome dell’imprigionato; fin che non si subisce costrizione, il problema della libertà, quando si pone, rimane a livello teorico astratto, e ciò appare sufficiente. Il desiderio di realizzazione c’è, è giustifi­cato; ma non ha ancora la determinazione necessaria per essere vivo. Una volta ai ceppi, però, la storia cambia. L’anelito verso la libertà viene adesso sentito con tutta l’interiorità e a reti unificate. Non solo è vivo ma anche ribelle e tormentoso.

 

Durante gli anni ‘70, mi soffermavo a riflettere sulla validità d’intraprendere la “via iniziatica” o ascesi: per un lungo periodo, questo pensiero mi era sembrato contenere un qualcosa di particolarmente ostico e sacrificale. Il che da un lato mi affascinava ma, detto in franchezza, dall’altro anche mi respingeva.

 

Avevo paura. Capivo confusamente che si trattava di “roba forte”, importante; una decisione senza ritorno, assunta nel profondo di sé; ma capirlo a questo modo, in mezzo a tentennamenti e crisi dubitative, non bastava. Dovevo (probabilmente volevo) trovare una ragione logica, sicura, pratica; una soluzione unica che inerisse alla vita cosí come l’avevo vissuta e gestita fino allora.

 

Ero immerso nel mare delle domande in cui una spiccava fra tutte: “Sono sicuro che l’impresa abbia a che fare col mio esistere?”. Da questa premessa seguiva l’alternativa: o nuotare cercando un approdo, oppure restare a bagno facendo “il morto”. Cosí, convinto di prender tempo, facevo il morto; in realtà lo perdevo.

 

Per il resto, quanto andavo allora imparando, un po’ alla rinfusa, appariva bello, immaginifico quanto si vuole, ma non si presentava ancora sotto forma d’impulso, spinta a fare, leva del volere; piuttosto aleggiava, come modello astratto; un velleitarismo misteriosofico, moderno e acculturato, che poteva interessare fino però ad un certo punto.

 

Coerente a questo piano (che tutto era fuor che un piano) facevo e non facevo; accennavo, compivo qualche passo, e mi ritiravo. Un po’ come il volgo del poema che “…tra tema e desire, avanza e ristà”. Le idee mi si sarebbero schiarite solo in seguito, ma per intanto agivo in tal modo: mi sembrava tutto suffi­cientemente giusto, senza capire il perché. E allo stesso tempo, il non capire il perché, mi faceva sospettare di non essere nel giusto.

 

Per caso (buona questa!…) ero entrato in un gruppo di baldi giovani triestini, dediti all’esoterismo; ne ero rimasto affascinato quel che bastava per annidarmici dentro; non abbastanza tuttavia per partecipare con quella serietà di intenti che in qualche modo presagivo indispensabile.

 

E piú le compagne e i compagni ricamavano danze e intrecciavano carole attorno a me, con una sicu­rezza a dir poco sbalorditiva per l’impegno ostentato, piú mi sentivo emarginato e propenso alla delusione, dacché da nessuno di loro avvertivo provenire quei dubbi e quelle sofferte concatenazioni di logica incer­tezza, che invece affliggevano il sottoscritto, spegnendo ogni slancio, ma senza le quali mi risultava dif­ficile, se non impossibile, proseguire adeguatamente nell’impresa.

 

Come stai

 

Molti anni dopo, il che vuol dire all’incirca pochi mesi fa, ritornato a casa, nel rione cittadino di apparte­nenza, dal quale mancavo da quasi tre mesi, per un intervento chirurgico ai femori, andato – dicono i medici – a buon fine, ho incontrato parecchi conoscenti che infor­mandosi sulla mia assenza/degenza; ponevano cortese­mente la fatidica domanda: «Come sta?» o «Come stai?», a seconda del grado di confidenza acquisito. Ad una ri­chiesta di rito rispondo di solito con la formula classica: «Come Dio vuole». Poi, non potendo esimermi da un pizzico di esibizionismo cultural-filosofico, aggiungo: «E dal momento che Dio è sempre infinitamente buono, sag­gio e misericordioso, è chiaro che non può volere altro che il nostro bene. Quindi io sto bene».

 

Al che, tutti sorridono allegri e soddisfatti, dicono di sí, e annuiscono per confermare la condivisione; come se avessi raccontato loro qualcosa, non dico di esilarante, ma per lo meno di divertente. Qualcosa che suscita sorpresa e ilarità.

 

Forse la mia risposta era troppo “grossa” o forse trop­po didattica per non creare quel tipo di smarrimento che si preferisce tenere celato.

 

Ho voluto riflettere a lungo su questo fatto; sentivo in quella accondiscendenza, o in quella allegria, per quanto educata e contenuta, l’espressione di un qualcosa che mi lasciava un po’ interdetto.

 

Cerco di spiegarmi meglio. Tutto quello che accade nel mondo fa parte di un percorso, talvolta cruento ed efferato, che si svolge nel fisico sensibile, ma che ha una sua contropartita nell’esperienza cui sono costrette le anime di quanti, vivendo nel medesimo mondo, esistono: questa esperienza viene sopportata come destino imperscrutabile da parte degli impreparati necessitati a subirlo, e tuttavia quale lodo karmico, risanatorio e salvifico, da parte di rari intuitori che vi ritrovano intatta l’occasione di accedere alla forza e alla luce dell’origine: è l’ordito delle vicende terrene che ininterrotto s’avvolge, s’intreccia e sostanzia l’ evoluzione futura, grazie alla possibilità strettamente condizionata di una vera conoscenza spirituale.

 

In ogni punto di questa, si legittima tuttavia un dilemma: potrebbe mai verificarsi un compimento positivo dell’evoluzione, se questa richiede un’estensione temporale talmente lunga da essere in netto contrasto con la caducità delle vite umane? Nessuna tragedia, nessun dramma, e nemmeno commedia, durano piú a lungo degli attori che la interpretano. Fa parte della conoscenza esoterica di base la nozione che la vera protagonista delle ripetute vite terrene non è la corporeità, bensí l’anima: ch’è imperitura. Per cui, pur racchiusa in corporeità fisiche destinate alla disgregazione, la stessa anima, col Grande Passaggio, torna a vivere nella sua Eternità.

 

Basterebbe questa semplice cognizione, portata a coscienza, per intuire le eccezionali conseguenze che essa implica: nulla è mai perduto; tutto si può riaffrontare piú volte; i tempi e i modi concessi per giungere ad una maturazione spirituale sono commisurati alle possibilità umane, e a ciascuno di noi sono affidati l’impegno, gli strumenti e le condizioni spazio-temporali per arrivare ad un risultato positivo.

 

Se cosí non fosse – è un’affermazione mia e me ne assumo la responsabilità – in cosa consisterebbero la bontà, la saggezza, la misericordia del Creatore?

 

Perfino a livello di una società permissiva tanto quanto confusa e frenetica come quella odierna, un Ministro della Pubblica Istruzione che negasse per decreto la riammissione agli studi di uno studente bocciato, perderebbe autorevolezza e credibilità; verrebbe addirittura destituito a furor di popolo.

 

Esser quindi convinti che tutto quello che ci accade nell’esistenza terrena è voluto per il nostro bene e per la nostra crescita interiore, mi sembra una conseguenza del tutto semplice, comprensibile e perfetta­mente logica, derivante dal concetto stesso di Dio.

 

La riabilitazione del peccatore mediante il perdono e la concessione di piú prove suppletive per chi si è smarrito, sono il greto e gli argini del fiume karmico, dove volere divino e destino umano si cercano per trovare il loro accordo.

 

Il non pensarlo, il non volerlo credere, porta l’anima dell’uomo di fronte al suo disastro: la sfiducia nello Spirito è l’agonia dell’anima, il suo cruccio segreto, il suo tormento nascosto; che puntualmente salta fuori durante le avversità privandoci delle forze risolutrici, annientando gli slanci nei momenti di gioia; appiat­tendo la vita riducendola ad un ménage noioso se non doloroso; fino al punto in cui l’insensatezza della valutazione non venga scoperta.

 

Il tutto perché? Perché dentro ciascun uomo alberga un ego che lavora e lotta incessantemente contro ogni tentativo ascetico. Anche il dubbio, l’incertezza filosofica piú sofisticata, in questo caso, valgono quanto accettare la seduzione di un ego che ci ripete il suo incessante ritornello: «Se io fossi stato Dio, avrei fatto meglio!».

 

Accusatore

 

Bestemmia penosa che si commenta da sé: ovviamente nessuno è disposto di primo acchito ad ammettere di essere prigioniero di un simile convincimento. Ma il processo dege­nerativo avanza per gradi: s’incomincia col contestare il vici­no di casa, l’amministratore del condominio, il sindaco, poi il prefetto, o il capo politico, e via via tutte le cariche del potere terreno, per arrivare poi a prendersela, nei casi piú tristi e di­sperati, con le Gerarchie ultraterrene, accusandole di ignorare le esigenze umane, e anzi, di trarre un sottile piacere nell’illu­derle e ingannarle.

 

Non vorrei passare per esagerato, ma a quanti si rifiutino di accettare una visione del genere, ricordo soltanto che, in tempi non sospetti (in tempi, cioè, in cui lo Spirito umano aveva un voce in capitolo maggiore di quanta ne abbia oggi) Colui che è passato alla storia come il Salvatore dell’Uma­nità venne messo a morte mediante crocifissione.

 

Quindi, quando parlo del fatto che in ogni essere umano risiede un potere luciferico, chiamato ego, terribil­mente evoluto e astutamente nascosto tra le pieghe di un moralismo artefatto, capace di farci stravedere e sragio­nare, destabilizzando ogni nostro timido passo sulla via dell’Iniziazione, non credo di aver detto uno sproposito.

 

Il piccolo imbarazzo che ho descritto dipinto sui volti di coloro ai quali mi sono permesso di rammentare, cosí su due piedi, il valore della Divina Provvidenza, è, a mio giudizio, il sintomo di una disarmonia animica e pertanto anche di un’alterazione dell’equilibrio psicofisico.

 

Chiudo la parentesi perché non è mia intenzione indagare sui livelli della fede altrui; mi è capitato tuttavia di constatare come la stessa affermazione di cui sopra sia stata piú di una volta compresa e accolta con immediata spontaneità da seguaci di altre religioni: di fronte all’ammissione del potere salvifico della bontà divina, hanno annuito seri e compunti, ho veduto nei loro sguardi l’umano calore per un momento di fraternità condiviso. Non hanno replicato, non perché il mio dire fosse sentito cosí perentorio da bloccare ulteriori discorsi, ma piuttosto perché col loro silenzio manifestavano l’assenso. Quando è stato detto tutto, non c’è altro da dire. Allora il moto liberatorio che nasce, ammette anche un sorriso dolce e profondo per una luce di verità fraternamente accolta: quella che per rivelarsi non ha mai avuto né mai avrà bisogno di like o di enjoy.

 

L’eventualità che noi cristiani cattolici – per quanto presi alla sprovvista in un incontro occasionale – rimaniamo sorpresi e divertiti davanti a chi, con giocosa letizia, li provoca rammentando loro una verità basilare della religione, è anch’esso un segno dei tempi, e, detto con sincerità, non mi riesce di trovarvi un lato positivo.

 

Al tempo corrente, la cosa piú semplice e immediata di questo mondo, secondo la logica che gli ap­partiene, è dar sfogo in qualche modo, o meglio, in tutti i modi, compresi quelli degradanti, alla malignità, alla grettezza, alla delusione, all’amarezza che l’anima umana prova in quanto convinta di aver perduto ogni sua ricchezza, ogni sua forza e ogni suo anelito; di aver fallito la missione per cui aveva accettato con ferma decisione d’incarnarsi e scendere su questa terra per portare ad essa la linfa vitale dello Spirito creatore.

 

Il poter pensare questo avvilimento come un ennesimo trucco, un incantesimo potentissimo, orchestrato da occulti avversari, impegnati a bloccare ogni iniziativa dell’uomo che lo porti sulla via dello Spirito, deve essere reso riconoscibile e quindi debellato alla luce di un pensiero rivitalizzato.

 

Saulo sulla strada per Damasco

Saulo sulla strada per Damasco

 

Quanto accadde in remoto passato sulla via di Damasco, potrebbe accadere ancora, in questi tempi tormentosi e senza pace, se il nostro vivere quotidiano fosse intessuto di calme riflessioni, di meditazioni profonde e concentrazioni corro­boranti; se anziché cercare e alimentare inconsciamente il frastuono esteriore, già echeggiante e incombente, cercas­simo per prima cosa, la pace, l’equilibrio, l’armonia dentro di noi, come senso e meta del giorno che ci vorrebbe desti.

 

S’incontra nel mondo ciò che si teme; ma s’incontra per non temerlo piú. La retta conoscenza frantuma l’antico in­ganno: si comprende allora che non esiste una sorte cieca, cui ci si debba sottomettere supinamente per impossibilità di contrasto: esiste piuttosto un percorso da compiere, un percorso che siamo venuti a svolgere, giustamente faticoso e quanto mai ingrato per l’ego, perché implicante la sua trasformazione, da esso aborrita come fine senza ritorno.

 

Ma per l’anima, per la sua parte cosciente, rafforzata dall’esperienza esistenziale e dalla preparazione ascetica, il percorso suddetto è invece un completamento irrinunciabile.

 

Morire nel fisico per risorgere nello Spirito è quello che le venne insegnato, ma fintanto che il vincolo con la corporeità perdura e la soggioga, anche gli insegnamenti piú eclatanti tendono a scolorire.

 

È perciò un buon punto d’arrivo per la coscienza pensante d’ogni essere umano ricordare un tale inse­gnamento; l’avevamo già incontrato come Messaggio del Golgotha ed essenza del Cristianesimo; ci era apparso talmente bello e possente che allora sorse in noi la decisione di viverlo in una lunga serie di espe­rienze sensibili, al fine di poter rendere. una testimonianza – silenziosa e adialettica – mediante la virtú di azioni compiute solo per amore.

 

Ricordarsi di Damasco non è cosa di tutti i giorni; ecco perché tutti i giorni ci ricordano Damasco.

 

 

Angelo Lombroni