Anima Mundi

Considerazioni

 

Anima Mundi

 

Anima

 

«L’anima dell’uomo è il segreto del mondo»

 

Massimo Scaligero

 

Dell’Amore Immortale

 

 

Mi chiedo: perché?

 

Potrei chiedermi anche: perché no?

 

Ma non lo faccio: in entrambi i casi il risultato sarebbe lo stesso.

 

Se però un’unica risposta soddisfa due interrogativi contrari, vale la pena mettersi a cercare quel che li ha provocati.

 

Io sono consapevole di non saper rispondere alle domande suesposte, ho prima bisogno di chiarire a me stesso cosa è l’“anima” e cosa voglio intendere per “mondo”. O meglio: cosa io credo sia l’anima e cosa penso sia il mondo.

 

Le parole “anima” e “mondo” sono parole semplici, termini correnti di uso comune; ma in questo momento, in cui provo la necessità di approfondire, scopro un fatto che mi sorprende: quel che avevo appreso, studiato e riflettuto fin qui sui detti termini, era veramente poco, troppo poco, per ritenermi capace di precisare e definire i medesimi.

 

Definire una parola vuol dire – secondo me – trovare quel valore, quella precisa essenza, quel significato, senza i quali qualsiasi ricerca, scritta o parlata, va avanti solo con la forza d’inerzia della dialettica, cioè mediante suoni che, pur comprensibili, restano confinati nel generico, spesso nel banale; non dicono niente, e in ultima analisi, trasferiti in scrittura, hanno lo scopo di riempire fogli, pagine e libri. E prima ancora intontiscono, con noiosa, ripetitiva insistenza, le anime e le orecchie di chi parla o scrive, e di chi ascolta o legge.

 

Per ora è cosí; la dialettica è un meccano del cervello, che scambiamo per cervello, ma è solo meccano. Per quanto incensato e supervalutato non può essere piú di quello che è: un peso morto sull’anima che agonizza.

 

Agonizza in quanto anima originariamente capace di distinguere il vero dal falso, facoltà di cui la coscienza è tutt’oggi ignara, nella maggior parte dei casi essendo coscienza dialettizzata. Coscienza alterata celante a se stessa il senso del vero: copre la lacuna fingendo non vederla.

 

Ma una coscienza cosí accecata non cura lo stato di sofferenza dell’anima, lo peggiora.

 

In quanto umani, abbiamo tutti pensieri, sentimenti, sensazioni, moti di volontà, un mondo inte­riore ricco e variopinto, attraverso il quale il cosí detto reale traspare; traspare come noi lo facciamo trasparire, senza sapere di farlo, né in qual modo questa trasparenza si compia. Siamo convinti che esso appaia in quanto rassicurati dalla sua permanenza, della sua stabilità; presenza di un reale a tutta prima piuttosto soggettivo. Di seguito, indubbiamente soggettivo lo è, e tale rimane, se conti­nuiamo a ignorare la nostra funzione di sperimentatori. O di mediatori, tra ciò che portiamo nell’in­timo del nostro essere e quel che ci appare come esterno ad esso.

 

Questo, per ora, è l’unico reale col quale abbiamo a che fare per muoverci nel mondo, incontrare gli altri, le vicende, gli accadimenti; relazionarci con loro.

 

Ci sono anche dei momenti, piú rari, in cui ci sentiamo chiamati in causa da questo nostro mondo interiore, al punto da affrontare dubbi, paure, angosce e preoccupazioni, lavorando esclusivamente dentro noi stessi, pensando e parlando col nostro sé, esaminando crisi e turbe emotive, cercando di guardarle spassionatamente, spesso dividendoci in due, assumendo cosí il ruolo complicato, ma necessario, del duplice interlocutore.

 

Ma sempre mantenendoci liberi di ritornare quanto prima alla nostra vecchia immarcescibile unicità, datosi che l’incontro/scontro col proprio deuteragonista non dura mai troppo a lungo. Salvo casi particolari.

 

Tornare alla presunta unicità vale quanto il ritorno in un porto sicuro e fidato per un veliero che ha dovuto affrontare acque pericolose e agitate. Un sospiro di sollievo: un porto sicuro è però una percezione, mentre l’unicità dell’essere uomini è ancora allo stato di rappresentazione.

 

La dicotomia interiore, come ad esempio una crisi mistica, o la sensazione punitiva d’aver subíto una pesante ingiustizia da parte del destino, vive di esistenza propria, di cui ci sfuggono le regole. Ci sfugge soprattutto che in fondo si tratta della medesima questione, vista da due punti d’osservazione diversi. Anche se raramente un’indagine interiore avrà la forza di appurarlo.

 

L’esercizio dialettico sorge quasi sempre da tensioni facenti capo a problemi che ci sembra di non riuscire a risolvere, ma che vorremmo saper risolvere. Di pari passo cresce in noi pure la convinzione che, se non fossimo in grado di farlo, perderemmo il nostro equilibrio e resteremmo in preda a varie forme di nervosismo, quelle che nascono dal sentirci incapaci di starcene lí, con le mani in mano, a contemplare le difficoltà della vita, ma prima ancora incapaci di capire cosa esse veramente rappresentino e cosa vogliano da noi: che è (o sarebbe) l’unico modo per porvi rimedio.

 

Altrimenti, trascurando le attenzioni, che abitualmente omettiamo, le cose capitano; si subiscono: ma tra il capitare e il subirle ci siamo di mezzo noi con la nostra struttura, la nostra organizzazione e la nostra anima: una potenzialità ricchissima, tutta da scoprire e da adoperare, ove gli eventi, che di continuo suscitiamo senza averne la minima contezza, non ci sommergano definitivamente.

 

L’ignoranza di fatto, l’ignoranza dell’innocente, in certi casi è un fattore ammissibile; durante i primi tempi della maturazione è giustificata; può ergersi come diga, contenere le trascuranze, ma passato quel tempo, la massa dell’incompiuto trabocca e travolge.

 

Il cinque maggio

 

A tutta prima, dunque, un legame, anche sot­tile, tra la realtà vissuta all’interno e quella su­bita dall’esterno non si evidenzia affatto; a vol­te succede che il contrario (una possibile unio­ne delle due realtà) venga intuito per un attimo, per un istante, e poi tutto sparisca, riassorbito dal­l’ordinaria visione delle cose: «come sul capo al naufrago / l’onda s’avvolve e pesa / l’onda su cui del misero / alta pur dianzi e tesa / scor­rea la vista a scernere prode remote invan…» ci dice Manzoni nel “Cinque maggio”.

 

Non intendo confrontare l’uomo d’oggi con l’ultimo Napoleone, ma osservarlo nella sventura, in cui a volte confluisce il corso degli eventi cavalcati da una smania di conquista “napoleonica”, offre sempre un buon motivo di riflessione.

 

Le sensazioni fanno da anticamera al pensare; ma non del pensare che ne ascolti il canto e da questo si lasci incantare. L’ avventura dell’ odierno entronauta è molto simile a quella del marinaio del tempo andato. Del “marinaio che muore in mare” e di cui rimane soltanto una lapide senza nome.

 

Che le due realtà (mondo esterno e mondo interno) intraviste in circostanze e tempi diversi, siano e rimangano divise nettamente, dipende dal fatto che tali si continui a supporle.

 

La supposizione è un’astrazione della dialettica, ma in assenza di un pensiero forte è l’unico collante che abbiamo a disposizione per ipotizzare un legame tra due rappresentazioni che viaggiano per conto proprio nella nostra fantasia, in alcuni casi un po’ troppo irriverente e disinvolta per essere spregiudicata. Quel che attraverso tale ulteriore incompletezza salta fuori, non ha la validità della cartina di tornasole o della prova del nove, che nei loro specifici settori garantiscono la bontà del risultato. Quel che si suppone, o addirittura si pre-suppone, è un vizio di forma del pensiero dialettico, che in linguaggio piú semplice, si chiama “sospetto”.

 

Quando aleggia la presenza di un sospetto, significa che, oltre al sospettato, da qualche parte, ci deve essere anche un sospettatore. Alla supposizione piacerebbe tanto mostrarsi oggettiva, ma se nasce, se contiene un sospetto, deve fermarsi e darsi una controllata.

 

Sempre che nel frattempo, non abbia già invaso la coscienza; nel qual caso ogni ulteriore con­seguimento produrrà gli effetti di cui veniamo ogni giorno lautamente informati da diffusori esperti in materia.

 

Non dando ascolto alla supposizione, non cedendo al sospetto, e non seguendo i “diffusori esperti” che in ultima analisi fanno sempre parte di una seduzione bramosa, può aprirsi l’accesso ad una visione superiore della realtà. Superiore soltanto nel senso di priva dei vizi di forma di cui sopra. Piú che superiore è una visione che si è completata. Perché una cosa è sperimentare il mondo attraverso i pertugi della mente e gli spiragli del cuore, un’altra è spalancare ogni porta del proprio essere interiore per accogliere e riconoscere con amore quel che da ogni parte come amore ci giunge.

 

Ci giunge, e ci congiunge, indissolubilmente. In tal caso la realtà del mondo s’identifica con la realtà interiore; la assorbe, la integra, la completa. La distinzione che si frapponeva tra le due rappresen­tazioni, era creata e alimentata esclusivamente dall’umano timore di poterlo/doverlo ricevere nel­l’anima impreparata e concedergli la gratitudine che gli spetta: che è la salute dell’anima.

 

Nella vita terrena s’incontrano molte cose, si fanno molte esperienze; s’incontra pure quel che si teme; ma si teme perché non si conosce, e ciò che non si conosce fa paura.

 

Eppure in questo “ignoto che avanza “ – insegna Scaligero – c’è l’Amore che ancora non si conosce. Che si può tuttavia conoscere se non si teme di andargli incontro.

 

La Paura

 

Ma anche impauriti, siamo comunque at­tratti dal mistero che ci giunge e non smette mai di arrivare. A volte cerchiamo di evitar­lo, a volte di aggirarlo, magari di raggirarlo, con la furbizia di un topolino braccato, an­che se sappiamo (l’anima ne riceve una spe­cie di premonizione) che presto o tardi ci ri­capiterà davanti in uno dei suoi innumerevoli aspetti; e che allora dovremo esporci e pren­dere posizione.

 

Non per contrastare o contenere, o per l’en­nesima volta rimandare, ma solo per cono­scere, conoscere a fondo: forse ricordare quel che nel frattempo avevamo dimenticato.

 

«Senza la mia paura mi fido poco» cantava Fabrizio D’André in una sua celebre ballata. È giusto, la paura faceva parte dell’istinto di conservazione; ha avuto per secoli una funzione benigna; per lungo, lunghissimo tempo è stata determinante: la sopravvivenza umana sulla terra dovrebbe ringraziarla. Ma adesso ha cessato la sua utilità di base: la sopravvivenza dell’anima che si dibatte nel vortice della mate­rialità, dell’empietà, della trasgressione, nella presunzione di poter vivere senza lo Spirito, ora richiede l’intervento di un pensiero fortificato, un pensiero coordinatore, un pensiero che può sorgere nell’uomo dalla sublimazione degli istinti.

 

L’anima deve ritrovare la virtú del suo originario coraggio, ma per ritrovarlo era prima necessario perderlo: sentirsi inerme, debole, smarrita. Incapace di reazione, e quindi costretta a subire. Solo toccando il fondo della caduta lo slancio per la risalita diventa fattibile.

 

L’esistenza terrestre è una palestra speciale: una palestra in cui s’impara a percepire la forza della vita, ci si addestra ad averla come prima d’ogni altra percezione. Ci si impegna viverla sulle vette e negli abissi, o quanto meno, si apprende che esiste per tutti, che non ci sono raccomandati o favoriti, secondo sorteggi o poteri del mondo. Qui si rende possibile cogliere, in tutte le situazioni, anche le piú gravose e accidentate, la saggezza di quell’amore che, proprio nel pulsare della vita, irraggia, rincuora e si diffonde per ogni dove.

 

Per questo, chi riesce a identificare la propria anima col mondo e il proprio mondo con l’anima, viene a trovarsi sulla via della libertà. Questa non si rispecchia in nessuna delle forme di libertà per le quali si è fin qui combattuto, agognato e sofferto; essendo tutte l’oscura preparazione d’ una conoscenza avvenire: in questa nostra epoca, si presenta la possibilità di compierla, dapprima come possibilità individuale, per espandersi poi come valore conoscitivo, patrimonio dell’umanità intera.

 

È inevitabile che l’esperienza del vivente conduca alla conoscenza e alla libertà: sono solo i modi a essere diversi, talvolta assurdi, insani o indecifrabili; ma tutti, senza distinzione, rivolti a un’unica meta: realizzare, grazie al contrappeso delle forze telluriche, il Mondo dello Spirito sulla terra.

 

Il primo passo è giungere a concepire se stessi quali artefici di un divenire evolutivo; scoprirsi centri assoluti di forze radianti, fluenti senza fine; dove il dentro e il fuori perdono ogni senso d’essere; dove interno ed esterno scompaiono assorbiti nella continuità del perenne, dove interiorità umana e immensità cosmica si fondono nell’armonia divina.

 

Dove il segreto del mondo sempre si svela all’anima che nuovamente fiorisce; perché l’anima che nuovamente fiorisce è già in sé il mondo intero: l’indiviso segreto identico a quello.

 

Pasqua Gesù

 

Finisco riportando l’ultima parte di un mantra del Dottore: lo ritengo uno stimolo meditativo particolarmente efficace: quello che ho qui tentato di raccontare può venirvi contemplato come un affresco invero speciale.

 

«Cosí ritrovo il mondo in me e mi riconosco nel divenire del mondo» (Rudolf Steiner).

 

Il prossimo 20 aprile sarà la Pasqua di Resurrezione. Festa della liturgia cristiana nella quale si è soliti scambiarsi gli auguri. Questo mio articolo è ispirato al pensiero di Pasqua; diversamente non mi sarebbe stato possibile scriverlo. Lo offro volentieri agli Amici dell’Archetipo, affinché porti loro il conforto che ha portato a me.

 

Quel che avvenne sul Golgotha, i fatti che vi si connettono e il Messaggio che ne deriva, sono la possente conferma di ciò che pur essendo stato separato può ricongiungersi nello Spirito.

 

Nel passaggio della Vita che supera la Morte, si ravviva la Luce che splende eterna, uguale nell’originario pensiero celeste, come nell’anima umana che lo riconosce e lo accoglie.

 

 

Angelo Lombroni