Cari amici e amiche,
vi scrivo perché lo scorso luglio abbiamo lasciato un problema in sospeso tra di noi, a pendere sulle nostre teste come una spada di Damocle, e dal momento che in occasione della Festività di Michele abbiamo ripreso i nostri consueti incontri settimanali, pare opportuno manifestare i pensieri che ciascuno ha saputo maturare durante la pausa estiva.
Non provo piacere ad ammetterlo, ma per quel che mi riguarda non sono del tutto pronto per decidere definitivamente sul da farsi; credo di aver bisogno di ancora un po’ di tempo. Prima di esprimermi in merito, vorrei aver raggiunto una certezza che per adesso né il pensiero ordinario, né tanto meno i miei sentimenti, sono in grado di darmi. Posso tuttavia anticiparvi quelli che sono fin qui stati i miei percorsi meditativi su questo preciso argomento e alcuni risultati acquisiti.
Questo è il motivo del presente scritto: verba volant, scripta manent; l’antico concetto dei Latini è sempre stato per me una consolazione efficace e ricostituente. Da esso possono nascere le decisioni risolutive che – parlando, chiacchierando e scambiando a vicenda le agitazioni interiori del momento – non verrebbero mai alla luce, ma anzi tenderebbero ad annientarla.
Il problema che avete messo sul tavolo è grosso, e devo dirvi sinceramente che nell’apprenderlo, all’inizio mi sono sentito ‘spaccare’ in due. Da una parte mi pareva di condividere quanto è stato affermato da alcuni/e di voi, e che costituisce il nocciolo duro della questione: cosa fare quando un membro di una comunità spirituale (ancorché piccola come la nostra) comincia a creare turbative nel corso degli incontri e nel lavoro comune che ivi si svolge?
È chiaro che se il problema persiste nel tempo ed arriva a porsi nella condizione di un sine qua non, significa che sono già stati esperiti i tipi di rimedio e di adattamento possibili, secondo l’attitudine al buon senso e alla generosità dei partecipanti coinvolti. Per cui, stando alle regole di una logica decisamente umana, la nostra scelta si riduce all’alternativa: o abbandoniamo qui i lavori del gruppo, oppure allontaniamo la persona divenuta indesiderabile. È stata proposta pure una terza soluzione, ma in sostanza essa è un mix tra le due opzioni descritte: andiamo, cioè, a svolgere il nostro lavoro altrove, senza darne informazione al presupposto perturbatore; che s’arrangi, se e quando verrà a sapere di essere stato ‘scartato’, forse allora capirà…
Non voglio perdermi in commenti sulle ipotesi trattate; sappiamo (credo di sapere) almeno due cose: la prima è che la dialettica non ci aiuterà in questa faccenda, e la seconda è che per risolvere degnamente il problema creatosi, c’è bisogno di tutto fuorché di pulsioni personalistiche. Per cui i nostri ragionamenti, ancorché sostanziosi in rigore e praticità, altro non possono produrre se non ulteriore difficoltà e complicazioni.
Dai pensieri di Massimo Scaligero ho fin qui appreso alcuni orientamenti di base:
1. Chiunque, nel nostro tempo, si impegni in un lavoro spirituale, deve mettere in conto fin dall’inizio che si troverà di fronte ad ostacoli che potranno anche apparirgli insormontabili; questo è ovvio, altrimenti non sarebbero ostacoli. In realtà noi sappiamo molto bene chi manovra questi ostacoli, ma spesso lo ignoriamo e siamo portati a riversare la responsabilità degli eventi su altro o altri. «Piove = Governo ladro!» ne è il tipico esempio.
2. Ogni movimento di ascesi spirituale, fatto singolarmente o in comunità, non può escludere quelli che fin da principio si son trovati a volerlo percorrere assieme. Anche se nel tempo una o piú persone assumessero comportamenti, toni e atteggiamenti tali da indurre i restanti a ritenere messa a repentaglio la qualità del lavoro comune, e quindi la giustificazione del ritrovarsi a svolgerlo periodicamente, in alcun modo lo Spirito creatosi in loco ne verrebbe compromesso. Se cosí sembra, e in effetti può sembrare, le cause vere stanno altrove e sono suddivise per ogni partecipante.
Credo di averlo capito meditando la nota appendice al libro Dell’Amore Immortale, che per l’appunto s’intitola “Perché un’associazione spirituale viva”: l’insorgenza di ostacoli ad un certo punto del cammino interiore, è la prova che il cammino è buono, e quindi, non è solo necessario ma anche doveroso proseguirlo.
In questo frangente ci troviamo adesso combattuti tra due divergenti impostazioni, e mi rendo conto che su qualunque di esse cadrà la nostra scelta, comunque si rischierà il tutto per tutto. Se decideremo di ‘eliminare’ l’elemento del presunto contrasto (e lo si può fare in parecchi modi, che sono poi i cosiddetti espedienti per aggirare l’ostacolo) potremmo provocare un danno irrimediabile all’intento sul quale è sorto il sodalizio; se sceglieremo la via del coraggio, della pazienza amorevole e fraterna nei confronti del dissidio e della perturbazione, rischieremmo di andare avanti in tal modo, se non peggio, per quel futuro che, in quanto gruppo spirituale, ci spetta.
Mi rendo conto che in questo scritto non vedrete nulla di nuovo, anzi, sono certo che nelle vostre anime vivono già questi pensieri, magari in misure e composizioni diverse, ma la ragione di questa lettera non sta solo nell’esposizione dei termini attraverso i quali si è fatto strada il nostro ostacolo; desidero parlarvi di un tema che per essere in assoluto un tema universale, profondamente radicato nelle vite degli esseri umani, si presta in modo esemplare a che, accostandolo nel modo dovuto, in ciascuno di noi venga a manifestarsi un principio di verità, il quale, per essere eterno e immutevole, contiene in sé le chiavi risolutive del nostro e di altri problemi.
Zero preoccupazioni: non è uno dei vari ricami congetturali con i quali temo di avervi spesso tediato; quanto voglio raccontare sta al di sopra di ogni sospetto; il suo significare mi trova estraneo come voi. Ma proprio questo fattore conferma appieno il suo valore oggettivo, anche se, naturalmente, esso deve essere prima elaborato dal pensare e quindi accolto nella nostra anima, come comunque avviene per ogni cosa che s’incontra nella vita e che si voglia veramente conoscere.
Succede quando le cose importanti appaiono all’improvviso; sembrerà che il passo evangelico che vado qui a richiamare (Giovanni, 11,49) c’entri poco o nulla con il tema introdotto. Secondo me non è cosí; c’entra, e anche molto. Tutto dipende dal grado di apertura e di disponibilità interiori che, nel momento in cui si verifica l’evento, possano sostenerne il senso.
Libera considerazione sul passo del Vangelo: si parla dell’uno di fronte a tanti; si parla del singolo di fronte alla massa, al popolo, alla comunità. Riunito il Sinedrio, i sacerdoti annaspano; non riescono a spiegarsi il fenomeno Gesú Cristo, ben consapevoli tuttavia che i segni da Lui operati in Gerusalemme sono tali da non lasciare spazio a soluzioni transitorie o accomodanti. Quell’Uomo sobilla il popolo, porta con sé il vento della sommossa; bisogna prendere provvedimenti drastici e impedire che tutto peggiori (specialmente il potere acquisito e saldamente tenuto in mano dalla casta; questo però resta nel sottinteso. Non occorre esplicitare l’evidenza).
Caifa, Gran Sacerdote dell’anno, prende la parola: esorta duramente i colleghi coscritti a guardare in faccia la realtà; il momento è politicamente delicatissimo. Ci sono gli occupatori Romani, c’è il popolo in fermento, e ci sono loro, i sacerdoti, unici depositari e dispensatori della verità religiosa.
Caifa cerca la logica, quella inoppugnabile, quella dell’aut-aut. La sua forza è incontenibile: «Cos’è piú intelligente, mettere a morte uno per salvare il popolo, o lasciare che quest’uno, con le sue ribalderie, porti il popolo alla distruzione?».
Uno dei postulati fondamentali del vero cristianesimo, quello predicato dal Cristo Gesú, tanto per capirci, e ampiamente sottolineato, nei tempi moderni, dall’Antroposofia, è che il valore del singolo individuo, ovviamente inteso nel senso qualitativo, è di gran lunga maggiore che non il valore di una massa, anche se numerosa o elitaria. Per accogliere una simile verità, e per poterla digerire oggi come ieri, è necessario fare piena consapevolezza su cosa si vuole indicare come IoSono, o Spirito Umano Individuale, e di che cosa invece si tratta quando si parla di “anima di gruppo”.
Ed è qui che la Scienza dello Spirito ci offre la possibilità di capire che per far luce su quanto detto è necessario uscire dal conto numerico, dal misurabile, dal quantum, al quale ci siamo abituati, al punto di non poter fare altro che applicare il principio dei numeri anche là dove esso non corrisponde piú alla vita delle anime.
L’IoSono è il dono archetipico del Cristo-Gesú; la Sua storia è la storia di un IoSono che si è voluto immergere nella materia, entrare nel regno della morte fisica, per rendere percepibile e rivelare a chiunque il portento della Resurrezione. Dal momento in cui un essere umano accoglie nella propria anima questo Principio (ma a questo punto possiamo anche indicarlo come valore), egli esce da quello stadio chiamato “dell’anima di gruppo”, e comincia ad affermarsi come individuo.
La conduzione dal di fuori (autorità religiose, politiche ecc.) cessa la propria funzione; davanti a lui si schiude la strada della libertà, il cui percorso non è un fattore di massa. Mai piú una cerimonia rituale in onore del sovrano; mai piú un pellegrinaggio collettivo al tempio del Santo; mai piú una maratona tribale per stabilire la superiorità del clan.
I presupposti del passato e delle tradizioni cadono di colpo, perché hanno esaurito la propria funzione.
Lo stravolgimento portato dal Cristo-Gesú – in quanto possibilità di volerlo o meno – è la Svolta dei Tempi. Si usa dire sui grandi mutamenti storici ed epocali: «Da questo momento in poi, nulla sarà come prima». L’Evento del Golgotha è l’incoronazione del piú grande mutamento avvenuto sul piano terrestre, cosmico e spirituale di tutta l’evoluzione umana. Sarebbe bene ricordarlo, ogni volta che veniamo ridotti alla considerazione: «meglio sacrificare uno piuttosto che tanti». Perché, nella maggior parte dei casi, questo sta a significare solo: «mors tua, vita mea». Che poi è la mancanza di coraggio per compiere quel passo che dalla fase semicosciente di anima collettiva o di gruppo, porta alla via dell’Io: la via del Cristo, la via del Logos.
Quanto si racchiude nel concetto di mors tua, vita mea, fa molto comodo all’egoismo; esso non ha alcuna intenzione di uscire dall’ “anima di gruppo” nella quale si è trincerato e nella quale intende svolgere il piú a lungo possibile la sua prosperità; la libertà, la via dell’individualismo etico (uso la definizione di Rudolf Steiner per evitare equivoci), la strada verso l’IoSono aperta dal Cristo. Tutto questo gli fa paura, lo terrorizza letteralmente; rappresenta la perdita di ogni suo temporaneo potere. Si rende in perfetta evidenza che la questione, in fin dei conti, si riduce a questo: bisogna far fuori Chi istiga le anime togliendole dal gruppo, Chi parla di libertà individuale, di amore, di uguaglianza. Bisogna farlo fuori quanto prima, e per legittima difesa: è Lui infatti che viene per ucciderci! Cosí ragiona il Potere, cosí ragionano gli ego, cosí (spesso) ragioniamo noi.
L’anima di gruppo, che nell’uomo è traccia residuale di uno stadio di antica animalità sul punto di venir superato, va sentita per quel che è: non è un fatto improponibile, o degradante, o un elemento moralmente negativo, come alcuni, per supina deferenza alle forze del passato, vorrebbero far credere. Piú semplicemente è uno stadio preparatorio, e per questo anche necessario, nel quale si pongono le basi per l’avvento dell’ Io, a cominciare dalla coscienza individuale o Autocoscienza.
Detto cosí sembra quasi una forma di crescita naturale, spontanea, serena; invece, come tutti i cambiamenti radicali, spesso avviene in modo drammatico, con forti, violente ripercussioni nell’interiorità dei componenti dei gruppi, e nelle interazioni che le varie fazioni hanno tra loro.
Se si va a rivedere la storia fisica e geopolitica dell’umanità dalle origini al giorno d’oggi, se ne deduce con chiarezza, che quella umana è una storia di sangue e di guerre; dalle faide tra consanguinei, dalle lotte tribali, fino all’entrata in campo di nazioni intere, è tutto un susseguirsi di sconvolgimenti folli e crudeli, solo parzialmente tamponati da armistizi e messi a lustro da illusioni di pace. Al che, perfino un grezzo semplicione, tipo Cetto La Qualunque, se ci si mette di buzzo buono, arriverebbe a chiedersene il perché.
Non c’è stato settore di esistenza terrena che non abbia dato il via a qualche mobilitazione armata, ufficiale o clandestina, tanto per attaccare quanto per difendere qualche cosa che (al momento) si pensava valesse la pena; comunque producendo massacri, stragi, sofferenza e miserie. Come se non bastasse, trasformando poi vinti e superstiti in ranghi di feriti e umiliati, da cui ripartivano, moltiplicati, rancori e sete di vendetta.
E qui, dotti studiosi, eminenze grigie (alcune quasi tetre), della storiografia mondiale, ci hanno propinato motivazioni a quintali, di tutti i tipi e gusti: etniche, socio-politiche, economiche, religiose, commerciali. Ogni sete di potere, e quindi di rivalità fondata su istinti, passioni, gelosie e invidie, ha trovato un’epoca per giustificare l’oltraggio inferto ad altri, secondo una pretestuosità, strategicamente pianificata, che, propinata in dosi e tempi calcolati, si spacciava per attendibile.
Ci voleva la presenza dell’anima illuminata di Rudolf Steiner, che attraverso le sue ricerche esegetiche e le numerose conferenze sul Vangelo di Giovanni, ci ha dato la possibilità di cogliere oggi, nelle antiche parole di Caifa, circa il valore d’uno spirito singolo di contro a una massa ancora avvinghiata al gruppo, una verità che, compresa nel suo significato piú alto, avrebbe potuto risparmiare all’umanità gli orrori che sono invece puntualmente accaduti, e che non sono certamente finiti.
Può la vita di un solo uomo avere piú importanza che non la vita di molti? Messa cosí, posta sul piano prettamente quantitativo, non ci sono dubbi. Almeno io, in particolare, non ne avevo. Per la mia coscienza, allevata da tempo lunghissimo alla scuola del materialismo, il problema trovava risposta immediata, senza un minimo tentennamento.
Questo però vale fintanto che si rimane nell’ambito numerale, dove le cifre maggiori devono per forza averla vinta su quelle inferiori. In questi giorni, si fa un gran parlare della vicenda del Ponte di Genova e sulla sua ricostruzione, ma, contemporaneamente, si dà mandato agli esperti, agli analisti, di valutare se i costi di finitura delle Grandi Opere si allineino con le correnti necessità economiche del welfare. In un recente dibattito in TV sul tema, qualcuno ha detto che se Cavour avesse soppesato i costi del traforo del Frejus alla luce della contabilità generale dello Stato (di allora), non avrebbe nemmeno dato il via all’opera.
Quel che si guasta deve essere riparato, è inoppugnabile; e lo è in senso assoluto. Vale come principio. Tuttavia se si allarga la visuale e si vuole tener conto non solo della realtà contingente ma dello sviluppo di questa nell’immediato futuro, e dentro la complessa macchina politica, sociale e finanziaria della comunità, può darsi che l’impellenza del principio richiamato poc’anzi si subordini al principio opposto, dove una soluzione, per essere vera ed efficace, deve trovare l’accordo preventivo con le leggi di equilibrio e di solidità nel quadro generale di una sana crescita del paese. Proprio quanto venne a mancare nel caso del Ponte e determinò nel tempo la sua rovina.
Proprio quanto venne a mancare ai sacerdoti del Sinedrio, a Ponzio Pilato e a coloro che sul Calvario, ai piedi della Croce, piansero solo una fine umana senza neanche intravedere l’inizio di un Principio divino.
Ovvero, est modus in rebus; non sempre ciò che si presenta in apparenza evidente, lo è davvero. Il mondo anglosassone, pur tenendo in molta considerazione gli economisti, e avendo in questo settore anche dato i natali ad alcuni tra i piú illustri, non esita, nel suo proverbiale humor, a definire il conteggiatore limitato, il ragioniere miope, con il termine di “bean counter” (contatore di fagioli). Non è difficile comprendere che i calcoli sono una cosa seria, devono venir opportunamente soppesati, ma si comportano come certe leggi della fisica: applicate ai livelli dell’ordinario funzionano egregiamente, quando però vengono trasportate di peso nel macrocosmo, diventano inutili e portano a risultati incredibilmente sballati.
Pertanto, ripetendo meditativamente la domanda sull’“uno e i molti”, sollevandola dall’impellenza del fattore contingente e materiale, fino alla sfera dell’IoSono individuale, in quanto correlato alla numerosità di anime serrate a massa (capaci soltanto di difendere quel che per loro, a tutti gli effetti, conta come vita, ordine e società) la visione cambia, si capovolge; mostra e insegna che o il gruppo è servito a far crescere l’individuo, oppure gli individui ancora non ci sono.
Restano i gruppi, i branchi; resta il gregge, il cui impegno va verso un’unica direzione: trovare di volta in volta il Capo, piú audace, piú ardito, promettente e gradevole, che faccia da portavoce-paravento alle loro paure.
Tra i vari programmi editi dai nostri governanti spicca in particolare uno che porta il titolo di “Sicurezza – Immigrazione”, ovvero, nell’immaginario collettivo le due cose sono state parificate, e vengono addirittura legate tra loro in un rapporto di causa-effetto. Tutto ciò accade nel mentre i dati oggettivi narrano una situazione diversificata che vede i due fenomeni sociali ben slegati tra loro. Si fa quindi ricorso ad un presupposto binomio “Sicurezza-Immigrazione” non per risolvere il problema, ma per renderlo ancora piú incombente e minaccioso. A vantaggio di chi?
L’anima di un gruppo, quando si sente minacciata, funziona cosí: si chiude a riccio, si riavvolge in se stessa, emana editti e proclami appositamente redatti per incutere nei titubanti o negli incerti ulteriori preoccupazioni e timori che li spingano verso la fobia collettivizzata, dove risiede il suo potere.
La Scienza dello Spirito (che è la Scienza della Libertà, è bene ricordarlo di tanto in tanto!) ci insegna che questa è l’epoca dell’anima cosciente, dell’anima autonoma, già indirizzata verso il proprio Io. Da ciò può derivare un contrasto in fatto di comprensione: se c’è l’anima cosciente, come fa a persistere ancora l’anima di gruppo?
Non c’è alcun mistero: i passaggi da uno stadio a quello successivo non avvengono di colpo e non per tutti in tempi uguali. Non si tratta dell’ora legale, che si attua spostando le lancette dell’orologio, ed eccoci entrati nella nuova cronometrica. Un passaggio come quello che prevede l’affievolirsi dell’importanza del gruppo a beneficio dell’individualità, sia pure di primo abbozzo, richiede una gradualità misurabile in generazioni e secoli: si capisce che è tutt’oggi in atto, in modo forte e virulento. Cessano le forme tribali, cadono i clan, ogni uomo vuole fare da sé, con la testa sua; i figli si scontrano con i genitori, gli studenti si scrollano di dosso il peso degli insegnanti, i cittadini contestano le istituzioni; ciascuno vuole agire a modo suo, contro le tradizioni, le regole, e non di rado contro le leggi, se non giuridiche, di certo contro quelle morali. Vi è una sete di cambiamento che diventa febbrile, con aspetti sprezzanti e parossistici, crea un quadro sociale da far paura, a prima vista sbilanciato e involuto.
Tuttavia è una paura che riguarda coloro che non hanno compiuto, iniziato o almeno intuito la grandezza e la necessità del passaggio. Occupati a controllare ogni stormir di foglia nel loro ambito piú immediato, non riescono a vedere né comprendere il cambio della stagione, che al momento chiede agli alberi di spogliarsi e apparire nudi e rinsecchiti agli sguardi stupefatti del timore e della mancata conoscenza.
Trovarsi a metà di un possibile passaggio evolutivo senza aver ricevuto una minima istruzione su quel che esso sia, ma anzi nemmeno accorgendosi di cosa si tratti, di che cosa stia per attuarsi in questa nostra epoca, rappresenta la parte piú difficile e delicata del periodo e del suo realizzarsi.
Condotti da Mosè, gli Ebrei in fuga dall’Egitto videro davanti a loro spalancarsi le acque del Mar Rosso. Videro la strada che li avrebbe portati alla Terra Promessa, non ebbero bisogno di altre spiegazioni per cogliere la grandiosità del momento; noi invece, uomini del terzo millennio, ci troviamo all’inizio di un guado, molto poco spettacolare, che attraversiamo ciechi e incoscienti, privi di ogni consapevolezza sul fatto e sullapossibile meta futura che esso comporta.
Come nei vecchi film western, le carovane dei pionieri, durante l’attraversamento dei fiumi, erano destinate a diventare facili prede di tribú indigene ostili, di razziatori, o di altri malintenzionati, cosí noi, in questo passaggio ancora non compiuto, tra anime intruppate e quelle in cui s’intravede un inizio di autonomia decisiva, stiamo giocandoci il futuro spirituale del mondo.
Gli antichi Ostacolatori e le nuove forze di avversione non si limiteranno a guardare il nostro maldestro transitare standosene con le mani in mano, questo è certo.
Durante lo svolgimento delle vite terrene, sia pure con una buona dose di superficialità abbiamo accolto il motto di “ Uno per tutti e tutti per uno”. È stato acquisito come reperto nel Museo del Moralismo Civico e ci è sembrato a lungo un prezzo ragionevole del biglietto d’ingresso.
Ma le cose cambiano, cambia anche il tipo prettamente quantitativistico di calcolo, di misurazione, di mentalità con il quale le abbiamo volute, cercate e sostenute fin qui. Quel che ne conseguirà resta tuttora avvolto nelle nebbie dell’orizzonte, anche se un barlume intuitivo potrebbe esser già stato provato da chi abbia sperimentato in un certo modo le parole di Giovanni il Battista (Giov. 3, 30). Una luce nitida e precisa illumina quel particolare del Battesimo nel Giordano, in cui si compie la discesa del Logos nell’uomo Gesú di Nazareth. Indirettamente viene annunciato, come conseguenza non gratuita ma accessibile, il momento in cui le “anime di gruppo”, giunte alla fine del capitolo evolutivo, si ritireranno dallo scenario del mondo antico, per dar posto all’IoSono, alla Luce dei Nuovi Tempi che si sta per diffondere sull’umanità intera.
«Io devo diminuire affinché Egli possa crescere».
Angelo Lombroni