Natale = Spirito + Amore

Considerazioni

Natale = Spirito + Amore

SpiritoQuante volte durante il corso della vita, ci siamo domandati: “Che cosa è lo Spirito? Dov’è questo Spirito?”. Probabilmente al­cune, se non molte. E quante risposte ci sono state? Un numero oscillante tra zero e l’infinito. Questo perché l’idea di Spirito è cosí vasta, cosí assoluta e possente da non poter venir contenuta in alcuna determinazione concettuale, positiva o negativa che sia. Almeno non per ora.

È l’Idea in sé, l’Idea delle idee: il Concetto dei concetti. Ma anche detto cosí rimane al di fuori della nostra portata. Ne rimane al di fuori, forse, proprio perché detto cosí, con quel pizzico di arroganza intellettualistica che basta a far evaporare ogni traccia di spiritua­lità. I concetti non sono timbri, non si usano pestandoli con la medesima noncurante sbrigatività di una routine amministrativa.

Eppure, noi adoperiamo i concetti; li inseriamo in (quasi) tutti i nostri discorsi; senza di essi sarebbe impossibile comunicare con gli altri e, pare strano, perfino con se stessi. Per farlo ab­biamo bisogno che il concetto, di volta in volta adoperato, abbia un riferimento al percettibile. Anche l’astrazione ricca, plausibile e ben articolata non può trasmettersi priva di contenuto og­gettivamente afferrabile; deve essere saldamente ancorata a qualcosa di concreto, parte di un nostro vissuto.

Tutto questo ha poco a che fare con la logica; la vis logica può anche permettersi il lusso di lavorare nell’astratto totale, senza smarrire la sua rigorosità essenziale. Un classico ricordo dei tempi del liceo: nei primi accostamenti alla filosofia greca, l’insegnante ci fece un esempio di costruzione mentale basata sul nulla, un’assurdità logica, in questo caso relativa alla scuola di pensiero che si studia sotto il nome di “elatica”: si sosteneva che «se i pirotti carulizzano elatica­menete, ed A è un pirotto, anche A carulizzerà elaticamente». Ragionamento tanto preciso quanto incomprensibile. A quel tempo la cosa ci divertí moltissimo, e per i decenni che seguirono mi restò sempre abbinata all’eco di omeriche risate.

Oggi, tuttavia, se solo presto un po’ l’orecchio in giro, o mi addentro nel mondo dell’informa­zione, o nelle attualità della cronaca, non riesco a ridere con lo stesso gusto di quella volta; eppure pirotti, carulizzazioni ed elaticità continuano a far parte delle nostre vicende quotidiane, sosti­tuendo piú o meno apertamente i dati sensibili, con le loro interpretazioni (o manipolazioni che dir si voglia) sino a trasformare l’intero universo sensibile in una dimensione in cui Reality, SitCom e Fake News hanno cementato la loro unione e, sembrano volervi convivere in pianta stabile.

Abbiamo sí una logica, anche ferrea, ma è del tutto avulsa da ogni punto fermo, dal buon senso comune e dalla capacità di cogliere la centralità del nostro Signor Mestesso come “uno fra i tanti abitatori del pianeta”, immersi fino al collo nel mare agitato delle umane vicissitudini.

Abbiamo una logica astratta che ci spiega con cura puntigliosa un mondo di atomi e di mole­cole, che fa dell’uomo un mixeraggio sorto da una danza vorticosa di geni, ciondoli di cromosomi e catenelle di DNA. Papà e mamma sono solo gli ultimi due agglomerati (in ordine di tempo) i cui nuclei si sono fusi in simbiosi biogenica per benedire la nostra procreazione; e il Signore Iddio del Creato, dovrebbe essere, nel piú ardito dei casi, una Fonte Primaria di Energia Inesauribile allo stato puro, concentratasi in una nebulosa esplosiva, indicata col termine western di Big Bang. Come è noto, spazio e tempo ebbero a sorgere nella frazione inframilionesimale di quel nano­secondo, e, dato che non ci costa nulla, possiamo aggiungervi anche la nascita della vita. Cosí ci siamo spiegati ogni cosa e non occorre ritornare piú sul problema.

A questo bel ragionamento, e non si può certo dire che sia stato un percorso breve e lineare, manca una cosa sola: manca l’Amore. Un quid d’amore, magari modesto, piccolo, anche micro­scopico; quel tipo di amore quasi timido ed evanescente che comincia a manifestarsi come rispetto per tutto ciò che è piú grande di noi: per la natura, per l’universo, per un’Intelligenza creatrice. Manca tutto ciò, ed è una mancanza concretamente percepibile. Anche qui – soprat­tutto qui – dobbiamo fare atto di contrizione, con il riconoscere almeno la nostra cronica inef­ficienza, la nostra inveterata labilità affettiva, perché ogni forma d’amore di cui pensiamo aver fatto l’esperienza, sta al vero Amore come… è meglio tacere e non dire nulla, non ci sono para­goni o accostamenti che tengano il confronto. Perduto il suo Amore, l’anima non può fare altro che rimanere ondivaga.

Nel fondo della coscienza ognuno sa che Spirito e Amore sono la stessa cosa; forse dicendo Spirito cerchiamo di individuare l’oggetto dell’argomentazione cui vorremmo riferirci, mentre nel pronunciare la parola Amore intendiamo la modalità precisa ed esclusiva con la quale si mani­festa la parte migliore di noi; una sorta di dedica, di affidamento, di trasporto affettivo verso qual­che cosa che ci appare al di fuori, che suscita la nostra attenzione, il nostro interessamento; che sembra chiamarci a sé.

Ogni tanto salta fuori qualcuno, colpito dal pensiero di poter creare un collegamento dei due termini di Spirito e Amore, e in simili casi, verrà creata un’espressione artistica che i critici poi definiranno “elevata e interessante”. Ma lo Spirito resta lassú e gli amori si continuano a perdere quaggiú.

Come collegare queste ondate di sentimento trans-epocali all’eternità dello Spirito? E poi, c’è davvero bisogno di farlo?

La fede sembrerebbe avvicinarci dignitosamente all’Amore, ci suggerisce l’elemento imperituro, la sua indeperibilità. «Sí, d’accordo – mi diceva un amico – ma io cosa stringo tra le mie braccia? Preghiere e santini?». «Umano sei, non giusto» gli risponderebbe il Parini; ma oggi questo tipo di risposta non accontenta nessuno, né riempie le solitudini dei singoli costretti ad arrabattarsi tra psicofarmaci e videogame.

Lo Spirito funziona sempre e comunque. Se non lo facesse non saremmo qui a porci il dubbio. Lo dico perché molti ritengono il sentimento d’amore come un’estrinsecazione del fatto di natura, ed infatti non sono pochi gli indizi che concorrono a formulare opinioni in questo senso. Ma una cosa è essere la causa, un’altra è partecipare alla medesima natura della causa.

Tra la signora Frola (Marina Bonfigli) e il signor Pansa (Luciano Roman) l’alter ego di Pirandello (Giulio Bosetti)

Tra la signora Frola (Marina Bonfigli) e il signor Pansa (Luciano Roman) l’alter ego di Pirandello (Giulio Bosetti)

Vero è che non mancano neppure esempi opposti, nei quali l’amore sorge e sa spingersi oltre se stesso, mostrando chiaramente di non subire quei limiti entro i quali troppo spesso lo consideriamo completato. Que­sto potrebbe indurre in confusione.

«Un amore in sé… conchiuso» raccon­ta con mesta ritrosia la signora Frola, nel dramma di Pirandello “Cosí è se vi pare”, costretta dall’insana curiosità dei paesani a svelare in pubblico il cervel­lotico rapporto d’amore tra la figlia e il genero, signor Pansa.

E perché no? Perché un amore non potrebbe essere in sé conchiuso? Per­ché dovrebbe essere aperto, percepibi­le agli occhi di tutti secondo una logica del mondo, tuttavia mancante di quella 

Vita di cui il mondo è pur l’unico testimone? Privo della forza d’innalzarsi oltre se stesso, almeno di quel poco che basti a far capire che, nato dal mondo e nel mondo, non è esclusiva farina del sacco terrestre, non può certo pretendere l’eternità.

Natale=Spirito+AmoreSe c’è una forza avversaria ostile e potente, un tenace impedimento a tirare le somme portando alla sintesi dei ragionamenti, anche slegati, ma dei quali un fiuto istintivo ce ne preannuncia la possibilità, questo consiste nella sistematica incapacità di cogliere le cose nel loro divenire, nella loro continua solvenza spazio-temporale. Per me, o meglio per la mia natura di base, un ragiona­mento comprensibile e ben articolato deve essere stabile come un edificio; al caso, lo si può elevare o ingrandire, ma sempre costruendo su pari solidità.

Il che per un architetto o per un ingegnere edile può andar bene; ma nei cammini conoscitivi, in particolare in quelli nei quali l’umano si protende al metafisico, questa regola non vale piú. Anzi, le basi sulle quali si è di volta in volta costruito un terrapieno di conoscenze, devono venir eliminate, se si vuole andare avanti. Questo eliminare suo­na male, pare sia qualcosa di poco meritevole, di irricono­scente verso gli studi e gli insegnamenti appresi, morali­sticamente non si presenta come una bella cosa da farsi. Tuttavia l’indagine metafisica, o se vogliamo dirla in piena franchezza, la ricerca dei mondi spirituali, non sa che farsene del nostro moraleggiare; anzi, esso rende tutto piú pesante e impiastricciato al punto che ogni sforzo per procedere diventa inutile.

È la stessa Antroposofia a dirci come avviene il processo di eliminazione dei contenuti rela­tivi alle passate esperienze: non è un vuotare il sacco, non è uno smaltimento di rifiuti, né lo spregio altezzoso di chi sa di accedere a un livello superiore, ma è – molto piú modestamente – la possibilità di aver lavorato sulle percezioni, di averle sgrezzate al punto che esse ci hanno con­ferito la possibilità di creare pensieri, dapprima rappresentativi e poi intuitivi, sul loro contenuto, su ciò che in esse stava di fatto racchiuso. Che ora comincia ad evidenziarsi e ad appartenere alla sfera dei concetti.

Invero vi apparteneva da sempre, ma solo l’azione umana volta in tal senso conferisce alla co­scienza la piena consapevolezza dell’atto, e conseguentemente la rimozione del limite interiore che ne impediva l’insorgenza. Diventa una presa di posizione in cui il soggetto si rende conto di una specifica ed esclusiva funzione mediatrice interposta tra se stesso e il proprio pensare.

Rivelarselo, costituisce una grossa novità. Sembrerebbe un posto sicuro sul quale edificare.

Ci si può fermare qui per il tempo che sarà necessario, ma viene prima o dopo il momento in cui tutti i concetti, cosí acquisiti, verranno a costituire un nuovo alfabeto, si prenderanno cioè il compito che prima avevano avuto le percezioni; con la differenza che queste ultime dovevano apparire fuori di noi, scolpite nell’incontrovertibile oggettività del dato sensibile, esterno alla no­stra organizzazione, mentre adesso abbiamo a che fare con i concetti di base, e possiamo lavorarli proprio allo stesso modo con il quale abbiamo lavorato le percezioni, tuttavia, stavolta, restando all’interno del nostro laboratorio interiore.

Se qualcuno vuole chiedersi: “Che differenza passa tra queste due procedure?”, è meglio la­sciarglielo fare. Da parte mia mi accontento di dirgli che una soltanto di queste due vie comporta la capacità di recare in sé, per conseguenza non immediata ma sicura, un nuovo senso della vita che include certamente la ricerca che si sta effettuando, ma la trascende e contemporaneamente la sublima, rivelando cosí la sua funzione ben precisa nell’ambito di quel mistero che l’uomo in­travede in se stesso, ora ammettendolo ora negandolo, a seconda del vento e delle circostanze.

Fin dalle prime pagine della sua Filosofia della Libertà Rudolf Steiner ha voluto porre le due questioni fondamentali della vita dell’anima:

  1. la Conoscenza (quale possa essere la disposizione dell’anima di fronte al conoscere) e
  2. la Libertà (l’agire umano è libero o no?).

Quale intuito, quale pensiero folgorante avrebbe potuto, in quell’epoca, accostare tra loro i temi di Conoscenza e di Libertà, collegandoli in modo tale da formulare un concetto-sintesi inedito e sbalorditivo, di fronte al quale i migliori pensatori contemporanei, atei e religiosi, non hanno saputo piú che pesci pigliare? Dapprima hanno criticato, contestato alcune parti della Filosofia, poi hanno pensato bene di risparmiarsi ulteriori fatiche e hanno deciso di ignorarla. In compenso, il nome di Rudolf Steiner sparí dalle classifiche della cultura epocale.

Non so quanti ci abbiano pensato su con attenzione e ostinazione, affascinati come fui io da quell’enunciazione di Rudolf Steiner risalente al 1894: mi pareva portasse in sé i presupposti di un’equazione algebrica (non disponevo di altri riferimenti alla rigorosità dell’assunto), di quel tipo di eguaglianza incredibile che si ottiene trasportando e ponendo a destra, dopo l’eguale ( = ), al posto dello zero, una data metà del polinomio descritto, invertendone però il segno.

Esempio puramente aritmetico: 12 – 8 – 3 – 1 = 0 ; 12 = 8 + 3 + 1.

Nel primo caso, la relazione numerale si risolve nello zero; nel secondo le stesse cifre rivelano che la relazione può venire scissa in due parti equivalenti, sempreché si rispetti la regola di cambiare il segno, a quella parte di numeri che si sposta a destra, da + a -.

Abbiamo quindi un bilanciamento delle forze, una perfetta parità tra ciò che si può scrivere in un dato modo e quello che può venir rappresentato in tutt’altra maniera.

Se si riflette sull’eguaglianza e si fanno delle considerazioni allargate, anche uscendo dallo specifico campo della matematica, non è difficile ravvisare una forte attinenza del suo signifi­cato con il senso attribuibile alla lemniscata; anche qui avremo due parti, due valori che si con­frontano, ribaltati specularmente rispetto al fuoco centrale.

Conoscenza e LibertàScrivendo sull’anello di sinistra la paro­la Conoscenza e su quello di destra la paro­la Libertà, molte cose, tra cui l’essenzialità del Punto Centrale (che potrebbe venir in­terpretato come il punto di svolta spaziale e temporale tra i due ambiti ed i temi che via via ad essi è possibile riferire) comin­ciano a delinearsi con la forza e la limpi­dezza di una sintesi.

Visto in prospettiva dinamica, il fulcro chiama a sé i due percorsi e li fa rifluire completando l’ellittica dei loro giri, ovvero dando ad entrambi la possibilità di esperire, in atto, il cambio di registro, perpetuandolo e rinnovandolo incessantemente. Non avviene forse la medesima cosa nella circolazione sanguigna arteriosa e venosa? Il cuore non è forse la centralità assoluta, il punto focale, di svolta, in cui le due circolarità esprimono la loro vitale funzione? Naturalmente non parleremo in questo caso dell’infinito ma di un tempo relativo al vivente.

La fisiologia del corpo umano ci dona un’evidenza di tutto rilievo. Una legge di natura richiede al biologico, nello spazio e nel tempo, di seguire il paradigma: cosí avviene, nel corporeo, come riflesso di quanto accade nell’eterico e nell’astrale. Avviene nell’alternanza delle stagioni, nei movi­menti degli astri, nelle mutazioni che si effettuano nel corso della vita tra scienza ed esperienza. Che poi queste correnti alternantesi prendano il nome di bioritmi o quello di forze eteriche, o processi psicoformatori, poco importa. Il gioco si svolge tutto nella perfezione del lemniscus, o dell’otto volante che dir si voglia. Un meraviglioso gioco di forze e controforze alla ricerca del loro equilibrio interno.

Il pensiero, i concetti sono entità spirituali. Nell’umano vengono innescati dalla sua facoltà percettiva, sorta nel mondo che lo circonda (sottolineo “nel” e non “dal”) e si attivano, in parte nel volere e nel sentire, ma raggiungono il massimo sviluppo della loro potenzialità, esprimendosi in concetti e idee.

Questa è solo la prima parte del nostro modello standard: è una parte della lemniscata, che restando da sola, senza una ulteriore rielaborazione, non serve a nulla. Ogni schema, ogni mo­dello, diciamo ogni strumento (in questo caso, grafico), diventa utile solo se lo si riempie di con­tenuto. E si verifica come di volta in volta esso contenuto si riveli pertinente.

Ma “l’ulteriore rielaborazione” di cui parlavo non è gratuita: c’è il centro della “farfalla”, c’è un passaggio da compiere; c’è lo “spostamento dei lumi”. Tutto questo non avviene per natura né per grazia divina (che in fondo sono la medesima cosa, anche se tale verità fa parte di un riconoscimento a venire). Si compie in quest’epoca per un atto di libertà; quell’atto che soltanto un essere umano che abbia osservato, capito e intuito, è in grado di poter volere.

E tanto per essere precisi, neppure questo è garantito da una provvidenziale spinta evolutiva. Ci sono stati, e ci sono, alcuni personaggi, anche famosi nei loro tracciati esistenziali, che hanno esperito, capito, intuito, ed hanno detto: «No, non fa per me. Io mi fermo qui. Non vado oltre».

Anche questo fa parte della libertà che l’uomo può concedersi. Salvo che dopo, in tempi e situazioni molto future, avrà la possibilità di accorgersi delle enormi lacune, delle falle provocate nel tessuto del proprio karma, e in qualche modo, con tutte le difficoltà connesse al ritardato ravvedimento, potrà darsi da fare e provvedere alla bonifica.

Non è infatti un esperimento proficuo obbligare il proprio sangue ad una sola delle sue due circolazioni; perché quindi farlo con la vita dell’anima, che è nata per mediare la terra con il cielo, e portare verso l’alto ciò che ha saputo estrarre dal basso?

Sembra una domandina ingenua da estinguersi in una riflessione bonaria, un tantino compia­ciuta. Ma in realtà è tutt’altro. Poterla capire e digerire fa la differenza tra vivere e lasciarsi vivere. Ovvero è l’altra parte della lemniscata, la quale chiede di venir riconosciuta e attivata.

«L’uomo nasce come Uomo se può restituire in pensieri (concetti, idee) le sensazioni che riceve dal mondo». Lo scrisse Massimo Scaligero nel suo Dell’Amore Immortale. Dubito fortemente che si possa ridirlo con pari precisione e brevità.

crocifissoForse (mi accorgo di metterci troppi forse, ma la mia indole avverte il peso del dogmatismo imperativo e cerco in qualche modo di attenuarlo) il discorso sull’otto ribaltato avrebbe una presa migliore se lo applicassimo al Vecchio e al Nuovo Testa­mento, mettendoci in mezzo la Croce del Cristo Gesú, l’Evento Centrale del Golgotha. Lo si comprenderebbe meglio collegando il mistero della Caduta dell’Uomo, della sua cacciata dall’Eden e dei periodi antecedenti la Svolta dei Tempi, immersi nel buio pesto di una necessità vincolata alla fede, come un servo al padrone, all’altro mistero, quello che dal Cristo in poi, dal dono dell’IoSono a tutta l’umanità, dallo Spirito del Sole compene­trante la Terra, dal Logos che si è fatto carne e sangue, sfolgora, si apre all’avvento dell’Autocoscienza, dell’autonomia decisionale, dell’individuo che esce alfine dal gregge, che comincia a decidere in proprio la conduzione del tratto di vita che gli spetta, nella piena responsabilità dei rischi che da questo momento in poi vorrà assumere su di sé, e che nessuna autorità, divina o terrena, gli potrà mai togliere o ridurre.

La grandezza e la vastità della visione non tragga tuttavia in inganno: il Mistero rappresentato nella lemniscata non è duplice, è uno solo, ma la sua entrata nella dimensione spazio-temporale, lo scompone in due settori, che per l’appunto tentano di raccontarsi, nella doppia ellittica del segno, grazie a quel formidabile Punto di Mezzo che la anima, la potenzia, la rende viva e sublime; senza quel Punto, l’intero costrutto grafico dell’otto volante non servireb­be ad altro che alla meticolosa tetraggine di un Escher, per farci camminare sopra i suoi formiconi.

Escher «Formiche rosse»

Escher «Formiche rosse»

Posso tuttavia capirlo; ci sono stati dei periodi del­la mia vita in cui il nichilismo serpeggiava nelle palu­di dell’incoscienza (momentaneamente scambiate per prati fioriti) e in tal senso non avevo bisogno di consigli o avvertimenti. Avevo 18 anni; davanti a me troneggiava la giovinezza e incombeva l’esame di Storia dell’Arte. Avvenimento terribile, professore spietato.

«Qui – credo si trattasse di un bassorilievo post-romanico – la tensione dei volumi si risolve in uno spazio endogeno che riprende il dramma in chiave umana. Lei che ne dice?». Quel “lei” ero io, e che mi venga un accidente, non sapevo cosa dire. Presi un bel “4” e me ne tornai a posto con le pive nel sacco.

Mi ci vollero trentacinque anni per capire che in quella disgraziata frase pronunciata dal mio esaminatore, accompagnata da uno dei suoi celebri sorrisini tra il divertito e il mellifluo, c’era una verità, una profonda evidente verità, elevata, vibrante, ma impossibile da cogliere senza un’ade­guata preparazione interiore. Mi venne a galla di colpo, quando, ormai maturo, ebbi l’occasione di visitare l’Accademia di Firenze e di trovarmi per la prima volta davanti ai famosi “Prigioni” di Michelangelo. Ne rimasi basito.

Michelangelo «Prigioni»

Michelangelo «Prigioni»

Ricordai tutto e, in un lampo, capii.

Uscito dalla Galleria, con l’anima ancora gonfia di commozione e di riconoscenza, mandai mental­mente un sentito “grazie” al vecchio insegnante che tanti anni prima si era fatto carico di infliggere una dura botta alla mia tenera ignoranza. In fondo egli aveva “seminato”, e il fatto che io ci avessi messo sette lustri, scomodando addirittura il Buonarroti, per germogliare, non significava proprio niente, giac­ché l’esperimento era riuscito.

Non ho la pretesa di essere diverso dalla maggior parte della gente, e devo quindi dedurre che i tempi della maturazione dei vari singoli possono essere biblici o comunque imprevedibili; per questo le nostre attese passano dalla speranza (quando ce n’è almeno una) alla rassegnazione, fino a giungere ad una ipertrofica chiusura in se stessi, convinti dell’inutilità del nostro sperare. È un po’ il sentimento generale che accomuna i cittadini nei confronti di chi li governa; del resto è comprensibile: per i riparare i buchi della pubblica via e i dissesti dei marciapiedi urbani, non si possono attendere le reincarnazioni future. Anche perché potrebbero presentare problematiche peggiori.

Tornando a “filo & segno”, un tempo enorme trascorre prima che nasca l’intuizione che solo lo Spirito, e tutto ciò che ad Esso converge. è degno di chiamarsi Amore, scritto qui con l’iniziale in maiuscolo, onde non confondere l’Essenza con la Consistenza: l’Essenza sta da sé, si fonda su di sé, regge e regna su tutto quello che ne viene illuminato e riscaldato (leggi: che è libero di lasciarsi illuminare e riscaldare); la consistenza, che fuori parabola possiamo benissimo scrivere in minuscolo, si deve accontentare invece di essere uno dei tanti riflessi che regolarmente si spen­gono e si raffreddano nel gelo siderale, o nel buio della terra, o nell’ingratitudine di anime che non sanno attendere.

Noi cerchiamo in molti modi, pieni di estrosità terrena, cerebralmente propensa ad espedienti e marchingegni, di far assurgere la consistenza della materia allo splendore originario dell’Es­senza. Ci piacerebbe molto, ma per ora possiamo ricavarne soltanto dei surrogati, a volte pure onesti, come l’Assistenza, la Sussistenza e, se si è monotoni, anche la Persistenza e la Pazienza, che male non fanno; elementi purtroppo pienamente soggetti alla consunzione e all’esauri­mento. Non vorrei star qui a ricordare la storiella di Totò sul caffè-ciofèca, ma la dice lunga circa i tentativi artigianali di copiare l’incopiabile.

Cogliere nell’essere dell’Amore, nella luce del Logos l’intera potenzialità di quel Dio che noi cristiani celebriamo a Natale, a Pasqua e invochiamo nelle occasioni in cui ci sentiamo sopraf­fatti dallo stato necessità e non sappiamo piú dove sbattere la testa, non è cosa comune o quoti­diana. In tempi non turbolenti, di relativa tranquillità, nei quali sperimentiamo la sicurezza di potercela cavare da soli, tendiamo a lasciarLo in pace (in Santa Pace, ovviamente!) nel Suo bel Paradiso; semmai ce ne fosse bisogno, qualche piccolo aiuto potremmo sempre richiederlo ai Suoi terreni delegati, che in vari modi tentano di rappresentarLo.

Una moltitudine di esseri umani è convinta dell’esistenza di un Dio, ma quanti di questi credenti si comportano come se il (loro) Dio fosse presente a tutto quello che fanno, dicono e pensano? Eppure sostengono a spada tratta che Egli c’è, che esiste; dicono pure di amarlo con trasporto e fede rinnovata. Poche volte ammettono però di sentirsene amati.

Se ne trae una conclusione sorprendente: il Divino risulterebbe essere piú ricevitore di flussi d’amore che non dispensatore dei medesimi. Il che è una contradictio in terminis. Qualcuno bara.

L’Amore dello Spirito non è un problema di fede o di religione, e neppure un gioco di prestigio: è un problema di pensiero. Se fin dall’inizio non se ne ha una pronta e immediata percezione, il concetto stenta a nascere in noi, non ce la fa proprio. Perché non siamo stati abituati a meditare, non ci è mai stata insegnata (fin dall’età dello sviluppo) l’importanza della concentrazione e delle discipline mentali in grado di ampliare la facoltà pensante al di là dei suoi normali contatti con il mondo dell’esteriorità; di saperla controllare e gestire svincolata dagli stimoli del sensibile. Non sappiamo rendere tangibile la forza pensante.

Dopo, è inutile piangere sul latte versato, che troppo spesso si tinge di rosso; certe cose si devo­no fare solo al tempo giusto e nel momento giusto. Anche il bene diventa un male se non viene fatto nel momento in cui può effettivamente prodursi come un bene.

Che il sole ci riscaldi e ci illumini è un dato di fatto; non occorrono grandi ragionamenti per realizzarlo; basta mettersi lí e ricevere, ricevere, ricevere senza far nulla; sta lí da sempre, è per tutti ed è gratis. Ma sfido qualcuno ad affermare che il sole si dia gratis …et Amore!

Non sarà questa nostra lacunevole, protratta ignoranza circa il pensare (e il mondo dei concetti e delle idee che in esso vivono) a formare l’ostacolo, l’invalicabile barriera che ci fa perdere la percezione immediata e diretta dell’infinito Amore che, pur comunque, scende su di noi?

Il presente articolo viene pubblicato sull’Archetipo di Dicembre. L’imminenza della festività natalizia offre, secondo me, la possibilità (ecco un esempio di “momento giusto”) di compiere un esercizio di pensiero a completamento di quel che abbiamo argomentato fin qui; ogni argomento comincia a diventare interessante quando lo si fa entrare nel proprio vissuto, quando penetra nella profondità dell’anima e permette di attivare la coscienza pensante in un modo del tutto diverso da quello solitamente svolto. Altrimenti il discorso resta fine a se stesso, confinato sul monitor o tutt’al piú impresso nel cartaceo.

Abbiamo la nostra percezione del Natale; sappiamo per tradizione che le cose si svolgono cosí e cosí, che ci vogliono tanti ingredienti, dalle lucine colorate alle stelline filanti, dalle musichine popolari alle filastrocche di voci bianche, dalla Santa Messa al panettone, e via dicendo.

Questa è la percezione che non interessa; vogliamo rimuoverla, sostituirla. Attenzione: non si tratta di eliminare, si tratta di trasformare quel che già c’è. In che cosa? Ognuno deve darsi la risposta che potrà trarre dalla propria esperienza; io ho raccontato del mio esame di Storia dell’Arte e di come, anni dopo, i Prigioni di Michelangelo abbiano saputo portare a maturazione il beneficio che si stava sviluppando in me attraverso un intimo, silenzioso percorso segreto.

È la seconda parte della valvola a farfalla, che deve compiersi affinché si completi lo scorri­mento delle forze in gioco; dalla materia allo Spirito, dallo stato di necessità alla Libertà, dalla caduta alla Redenzione, dalla percezione all’Idea: dallo Spirito dell’Amore all’Amore per lo Spirito.

PresepioOra si tratta di avere il coraggio di adoperare la formula applicandola a ciò che a prima vista ci appariva come insensato, se non addirittura blasfemo: osiamo collegare (o ricollegare) l’astratto concetto del Cristo-Logos, del Figlio Salvato­re e Redentore, di tutto ciò che di bello e di eclatante abbiamo appreso dall’insegnamen­to antroposofico, alla nostra povera, mode­stissima percezione del Natale consumistico, tipico del Terzo Millennio: quella percezione striminzita che abbiamo da tempo relegato tra il manierismo bigotto e la tavola imban­dita, tra un Presepe di belle statuine e la tombola in famiglia.

Il salto è enorme: richiede di passare dal Dio fin qui sognato al Cristo-in-me. Ma è un passaggio che si deve fare, perché i tempi sono compiuti; i Pastori hanno adorato, i Magi hanno recato i doni, e quanto si è maturato in ciascuno di noi, tramite i pensieri di Rudolf Steiner e di Massimo Scaligero, dovrà pur portarci a qualche cosa che non brilli solo di luce artificiale.

Un tale collegamento si può fare. In un primo tempo è possibile che non ne venga fuori nulla; non importa. Ma in seguito… in seguito anima e coscienza, rafforzate dal bagno esistenziale sapranno esprimere la capacità di comprendere le nostre lacune (anche le peggiori, soprattutto quelle); verificare in contro-Luce la nostra reale condizione di uomini e proiettare nel futuro che già si presenta quella forza misteriosa e sacra che da duemila anni sta prendendo vita in noi, cui ora possiamo dare il Nome.

È una percezione? Una rappresentazione? Oppure un concetto?

Non occorre farsi venire il mal di testa; non è indispensabile definire la verità; indispensabile è l’attitudine umana a volerlo fare; si chiama “pensare”, ed è il dono d’Amore piú grande che lo Spirito poteva farci, non fosse altro a garanzia della Sua sempiterna Presenza.

L’anima s’è fatta humus per far sorgere la coscienza; la coscienza si erge in autocoscienza; quest’ultima vuol ora fiorire come vita dell’Io; il passo conclusivo che l’aspetta è il Cristo Logos, e comincia con il Natale.

Qualcuno potrebbe a questo punto temere di non saper ancora come fare, di non essere pronto a cogliere, quale percezione interiore, un’Entità spirituale di tale elevatura. Potrà farlo nel pensare. Probabilmente lo sta già facendo, senza esserne del tutto consapevole. Ma dovrà essere un pen­sare un po’ particolare, un pensare esercitato nel volere: «Il pensiero che possa darsi come oggetto, non va pensato, va percepito; si sperimenta come…».

Rivivendo nell’anima (magari completando il mantra di Massimo Scaligero), i Prigioni usciranno dallo stato della mineralità in cui il nostro faticoso materialismo li aveva incarcerati, e la Stella Cometa guiderà noi e loro alla Fonte del nostro Principio.

Siano questi il pensiero e la disposizione interiore con cui andare incontro a questo Natale 2018.

Auguri a voi tutti, amici cari.

 

Angelo Lombroni