La scelta è certo anomala, irriverente persino. Fa piú effetto parlare dell’Altare di Pergamo, del grande tempio di Konarak, della Piramide del Sole di Teotihuacan, delle Cascate del Niagara, o del Machu Pichu, luoghi cioè dell’aristocrazia archeologica e paesaggistica, che basta nominarli e nella fantasia si accendono le luci dell’eccellenza costruttiva e naturalistica.
A quei siti, tuttavia, per quanto illustri, si può devolvere soltanto la nostra ammirazione, ma al dunque non si possono chiedere miracoli. E noi, in questo Paese, nostro nel crudo e nudo senso letterale, di un miracolo, uno di quelli grossi, abbiamo impellente bisogno.
Potremmo rivolgerci a un santo paludato, aristocratico, magari del Nord, ammanicato cioè con i poteri forti, uno del giro mediatico imprenditoriale, bocconiano, che so Carlo Borromeo, Luigi Gonzaga, Don Bosco, Don Guanella, ma il miracolo di cui in oggetto riguarda per lo piú il Meridione, quella un tempo chiamata Terra di Lavoro e oggi Terra di Disoccupazione, dovuta questa non alla mancanza di possibilità occupazionali, quanto piuttosto al disamore che ha colpito il nostro popolo e che ha impedito che si realizzasse in pieno quell’unione non solo materiale ma vieppiú sentimentale, derivante cioè non dagli effetti a scadenza quanto dagli affetti che poggiano sul vero, autentico substrato della fratellanza senza se e senza ma.
Quella per intenderci che univa il terronciello Francesco Forgione a Francesco d’Assisi, questi povero per scelta, quello per karma, essendo nato in uno dei posti piú diseredati del meridione. Eccolo, Francesco, fragile, malaticcio, nell’openspace di casa Forgione, mentre papà Grazio mette nel camino il ‘ceppone’ e mamma Maria Giuseppa prepara la cena, consistente nel quotidiano in un piatto unico. La pietanza entrava nel menu della famiglia solo nelle piú importanti ricorrenze festive. L’acqua si andava a prendere con la ‘quartara’ al vallone sotto casa, dove si lavavano anche i panni.
Un giorno, Francesco, febbricitante, si mise a giacere presso il focolare, usando una pietra come guanciale. La madre capí che quella mortificazione era il segno di una natura molto speciale. Ne fu turbata e insieme felice. In quella umile stanza, mal pavimentata, buia, Francesco significava la luce.
Chiediamo perciò a Padre Pio da Pietrelcina, ora San Pio, di compiere il miracolo piú difficile della sua parabola di santità: che quella luce illumini la mente, e soprattutto il cuore, ispiri i pensieri e le azioni degli Italiani, del Nord, del Centro, del Sud e isolani, affinché siano meno bocconiani e piú francescani.