Disimpeachment

Considerazioni

Disimpeachment

ImpeachmentPer impeachment i giornali e i diffusori di attualità in genere intendono la messa in stato di accusa di alte cariche governative e/o della pubblica funzione, che si siano macchiate di azioni e comportamenti contrari alle norme vigenti, ed abbiano quindi in qualche modo danneggiato gli interessi dei cittadini in fatto, diritto o condotta. Si comprende di conse­guenza che la posizione di quanti vengono a trovarsi implicati in una di queste situazioni, non solo fa rischiare loro la decadenza dai vertici del potere e la perdita dello status raggiunto, ma può provocare di seguito anche influenze negative sul piano strettamente personale. Hanno disatteso in malo modo le aspettative dei sostenitori e pertanto sono chiamati a ripagare l’impegno compromesso con il loro futuro di uomini.

Perciò, il concetto di impeachment, fatte salve le varianti che spettano ad ogni singolo caso, attiene sempre ad una sorta di tradimento, che, quanto meno sul piano etico, non si può ignorare né superare gratuitamente.

Ciò premesso, cosa si potrebbe indicare col termine di disimpeachment? In tutta franchezza, non so neppure se esiste; non vorrei rivendicare paternità di parole altrui, ma fino ad oggi non l’ho ancora incontrato da nessuna parte; mi è venuto in mente cosí, da solo, in quanto la radice di impeachment, per semplice consonanza, mi ha ricordato l’impiccio e quindi, secondo me, poteva starci bene anche l’opposto, il disimpiccio.

Nella vita capita, non di rado, di sentirsi impicciati (anche se non siamo capi-governo, ministri o leader) in un qualche cosa; voglio dire irretiti, inciampati, caduti in una situazione dalla quale è difficile venir fuori. Oltretutto ci sentiamo esposti al giudizio degli altri, che spesso non è pietoso, per non dire ostile o derisorio; quanto meno, nella circostanza, ci appare cosí.

Trappoloni e défaillance ce ne sono di ogni tipo: da quelli piú semplici, come scivolare in pubblico su una buccia di banana, o scontrarsi con uno che gira l’angolo della via in gran fretta e finire entrambi distesi per terra, oppure di natura complessa, composti da cause remote, latenti, di lungo percorso, che si verificano attraverso un progressivo accumulo di elementi non facilmente osservabili, quindi mancanti di segnali preventivi, che, convergendo, hanno concorso al nostro imbottigliamento.

Poi, una volta nella pancia del lupo, quel che ne seguirà diventa un problema cosí personale da coinvolgere non soltanto il personaggio che abbiamo creato, e con il quale ci è piaciuto farci identificare, ma pure con la dimensione interiore, la piú intima e recondita di ciascuno di noi, con la quale, forse, non abbiamo mai desiderato avere veramente a che fare.

È giusto che sia cosí. Sul frangente ci siamo sbattuti noi, consapevoli o no, l’abbiamo costruito lentamente nel tempo con le nostre mani, e solamente noi siamo in grado di decidere se, quando e in qual modo cavarcela.

È la strada del disimpeachment. Con questo articolo mi piacerebbe illustrare per sommi capi gli aspetti fondamentali del problema, senza i quali diventa improbabile trovare e attuare una soluzione concreta.

Ma è del tutto inutile argomentare sul disimpiccio se rimane sconosciuto l’impiccio; sarebbe come voler studiare la struttura dell’universo, ignorando l’ipotesi dell’esplosione iniziale che, per quanto ci raccontano, ne decretò la nascita. Per conoscere da vicino un fenomeno e capire le sue caratterestiche basilari, dobbiamo risalire alle origini, ricorrere al primo impiccio in assoluto, dal quale poi, a pioggia o a valanga, discesero tutti gli altri impicci della storia umana nelle loro infinite varianti e composizioni.

Possiamo anche parlare della nascita, della nostra nascita: è un precedente assoluto. Si viene al mondo, si aprono gli occhi alla luce del sole (anzi, a dire il vero, i neonati stringono gli occhietti perché in quei primi momenti la luce fisica crea ancora un rude fastidio), e ci si trova immediata­mente coinvolti nelle ferree leggi della terra, dell’organico, della natura sensibile. Ma per molti altri aspetti, e per coloro che come me ci credono, mi pare piú appropriato rivolgere l’attenzione al momento in cui l’anima s’incarna, ossia alla decisione del nostro Io superiore (presa in totale sintonia con il Mondo delle Forze Spirituali) ad entrare nella materialità per svolgervi un deter­minato compito.

Certo, attribuire a quel particolare momento il carattere d’impiccio può sembrare una profana­zione verbale, una violenza filologica contro l’elevatezza e la sacralità dell’atto e del suo divenire; tuttavia, nel suo significato piú generico, la parola impiccio reca in sé il senso di peso, di onere, d’impegno ad adempiere; spiega a sufficienza la volontà del venir concepito, la conseguente assunzione di corporeità e in un certo modo anche l’impostazione delle scelte future che saremo chiamati a compiere.

Dopo, nel corso delle vicende di maturazione e sviluppo psicofisico, una tale disposizione all’adempimento potrà venire rifiutata, negletta, anche tradita. Fintanto che si ha a che fare con un’anima vergine, priva della capacità di discernimento, vale solo la parte d’impiccio relativa al gravame della condizione esistenziale, non piú metafisica, ma vincolata in toto alle categorie del microcosmo spaziotemporale, con il quale dobbiamo fare i conti.

Sto riflettendo sull’impeachment e per quanto giri e rigiri i ragionamenti, sono convinto di poter dire che non esiste impeachment piú grande e meraviglioso, piú gigantesco e smisurato, piú sublime e, nello stesso tempo, spaventevole (ricordate Kierkegaard, Grandezza e terribilità di essere uomo?) di quello che si verifica in un’anima, allorché – su preciso volere dell’Io – si fa carne rivestendo la forma fisica.

Ricco e poveroImprontata di sé l’entità del nascituro, l’Io si ritira nel mondo spirituale, e, in sua reggenza, lascia nell’anima una traccia perenne, il segno dell’Io; o, se si preferisce, la coscienza riflessa, l’io inferiore, alias l’ego. A lui viene affidato il compito (ad interim) di condurre nella vita sulla terra la missione elaborata in precedenza, nel lungo interregno tra morte e nuova nascita.

In qualità di vicario pro tempore, l’ego non può disporre di pieni poteri; deve sottostare a quella che è la natura del mondo e dei suoi coloni. Sa di dover morire, conosce la caducità e questo limite lo angustia non poco. Tenta di scordare la sua provvisorietà cercando di esi­stere piú comodamente, felicemente e soddi­sfacentemente possibile. Con l’immediata con­seguenza che dovrà per ovvie ragioni, scon­trarsi, anche in termini aspri, brutali, a volte esiziali, con tutti gli altri ego concorrenti, tesi ad accaparrarsi il miglior godimento esisten­ziale, magari partendo dal presupposto del mi­nimo sforzo mirato al massimo risultato.

Cosí il messaggio spirituale, tema e compito dell’Io superiore, viene diluito nel tempo, snob­bato, annacquato, affievolito, se non stravolto, fino all’annientamento. Nelle profondità dell’anima permarrà una traccia sottile, velata, che alle volte potrà emergere come una lontana eco, una nostalgia o un rammarico di un qualche cosa che non si sa piú cosa sia, ma che tuttavia si piange come perduto; forse definitivamente.

Riconoscendo valide e convincenti tali premesse, diventerà chiaro il senso dell’impiccio rias­sumente in sé il dramma del vivente/esistente: non piú solo Spirito, non piú puro metafisico, eppure nemmeno ancora del tutto materia.

Guido Guidi «La cacciata dal Paradiso terrestre»

Guido Guidi «La cacciata dal Paradiso terrestre»

Iniziò dunque con la decisione dell’Io, che, in una, fu progetto, compito, impegno, meta e traguardo; nonché forza di vita necessaria alla realizzazione, questo va ricordato, perché talvolta la nostra memoria fa lo scherzetto di darcela per smarrita.

Ma un Paradiso Perduto poteva avere senso soltanto in vista di concedere agli esseri umani il potenziale della libertà. Un prezzo altissimo che tuttavia esalta la qualità della contropartita. Da dove salta fuori questa libertà? Il fatto che essa sia emersa nel corso tra nascita e morte, era inevitabile. Mol­ti anni or sono, una mia cara amica compose una breve poesia che iniziava e finiva col medesimo verso: «Era di terra l’uomo; e l’ani­ma gli veniva dai cieli. Eh, certo, non sarebbe potuto andare avanti cosí».

Il versetto dell’amica è veritiero ma anche provocatorio. Per ère e millenni, siamo stati costretti ad andare avanti cosí, portando que­sta dicotomia interiore tra determinismo contenitivo e spinta all’indipendenza, quasi straziante, stretti tra la morsa vincolatrice delle forze telluriche, da una parte e l’apertura verso un radioso, quanto mai entusiasmante (ma presunto) conseguimento elevativo dall’altra.

Il principio della libertà doveva quindi venir riposto nelle mani dell’uomo nella sua fase egoica. È forse una follia questa? Si può dare ad un bambino la facoltà di giocare con ordigni nucleari? Di fronte a un tale ragionamento, che, intendiamoci, ha un suo valore pratico abba­stanza preciso, se ne deve opporre un altro, che richieda una risposta altrettanto pulita e obiettiva : «Chi, se non uno schiavo, potrebbe amare e volere la libertà anche a costo della vita?».

Roberto Innocenti «Il Paese dei Balocchi»

Roberto Innocenti
«Il Paese dei Balocchi»

Per riconquistare una cosa, dapprima è necessario perderla. Altrimenti non c’è riconquista. Se la libertà è un chiaro riferi­mento della strada verso l’Io, all’ego dovrebbe toccare il com­pito di darsi una mossa, convincersi a compiere il primo passo. Sperando che i successivi seguiranno.

In questa prospettiva, che all’inizio si lascia vivere come un’avventura affascinante, attraente, piena di complici ammic­camenti, quale fu per il buon Pinocchio l’arrivo al Paese dei Balocchi, l’ego dovrà misurarsi con se stesso, modificare i suoi registri e consumarsi, secondo i tempi e le misure riferite al proprio karma, con l’eventualità di ritrovarsi in un rinnovato stato di coscienza, dal quale rivisitare il mondo già percorso, ma ora, avvalendosi di uno sguardo, e di una consapevolezza, completamente diversi.

L’iniziale forza di vita, che per un periodo lunghissimo l’ego aveva scambiato per un mero supporto al fattore biologico, e quindi da adoperare a proprio uso e consumo, si è trasformata,  raffinata, individualizzata in un irrefrenabile impulso verso la libertà. Passando attraverso il melodramma, anche una commediola può diventare epica. Oggi, filosofi, psicologi ed esperti di problematiche sociali si trovano, stranamente, d’accordo nel de­cretare il tema della libertà predominante su qualunque altro. Non la ritengo una garanzia, ma è un bel pensiero.

Per quanto tuttavia studino e disputino sulla natura di questa libertà, non è facile venirne a capo; d’altra parte non ne conoscono la ratio d’origine, la volontà che volle farsi vita, né tanto meno intravedono verso quale futuro possa venir indirizzata, ove l’uomo cominciasse a svelarsi il segreto della progressiva metamorfosi che comunque è in atto dentro e fuori di lui.

Vi è quindi uno stadio di sviluppo, che potremmo definire dei primordi, o della caduta, o veterotestamentario, in cui la forza di vita si manifesta, detta legge, e impone il conformismo collettivo fin nell’intimo del confessionale. Questo è un periodo necessario, inevitabile; ogni motore prima di venir messo a punto deve essere rodato. Ma successivamente il fattore della libertà, giunto a maturazione, scoppia, spalanca le porte degli animi, fa crollare tribú, sette, clan, famiglie e patrie (o quanto meno le loro vetuste rappresentanti di fazione) nonché congreghe e istituzioni affini, e in un battibaleno l’uomo si trova a voler fare tutto da sé senza guide, senza condottieri, senza predicatori.

Il Congresso di Vienna – 1815

Il Congresso di Vienna – 1815

Naturalmente, dal momento che è libero (con prudenza, diciamo che si sente tale) potrà rinunciare a tutto questo ben di Dio, e ritornando sui suoi passi, rimettersi nella gabbia di prima, nello status quo dove aveva sperimentato maggior protezione e tutela; la Provvidenza, la Grazia Divina, il rispetto dei Comandamenti, in tal caso gli valgono quanto la tessera sanitaria, la pensione e il libretto dei risparmi.

Anche i monarchi d’Europa, chiuso definitivamente il capitolo napoleonico, riunitisi nel Congresso di Vienna, si dis­sero: «Le Vostre Maestà non si preoccu­pino, non è accaduto niente. Tutto rimane come prima». Ma era un falso storico, una fake news ante litteram, per tranquil­lizzare il conservatorismo degli inetti, giacché è risaputo che nessuna vera evo­luzione, esteriore o interiore che sia, fu mai bloccata da bendaggi diplomatici o da trattati studiati a tavolino.

In relazione al disimpeachment avremo quindi diverse situazioni da gestire sul piano umano. Per l’ego sarà evidente che l’impiccio principale consiste nel nutrire una serie di brame incontenibili accompagnate dalla fastidiosa consapevolezza che non basterà l’intera vita per soddisfarle tutte. Per contro, la pratica del disimpiccio sarà rivolta esclusivamente a tentare l’intentabile, a tracannare dalla grande coppa della vita effimeri godimenti, estendendoli il piú possibile in quantità e durata, e che a loro volta richie­deranno una sempre maggiore intensità. Ogni altra istanza sarà trascurata.

Per un’anima invece che abbia saputo trovare una determinata sintonia con il proprio Io, l’im­peachment sarà dato dal trovarsi rinchiusa in una zavorra materiale, che vorrebbe farla da padrona e prendere in mano il gioco del destino. Pertanto la via del disimpeachment verrà affrontata come un continuo, lento, progressivo sottrarsi agli incantesimi del fisico-sensibile, del mondo delle percezioni, adoperando l’unico varco alla sua portata: quello che Massimo Scaligero indicò come la “Via della Volontà Solare”: la via della conoscenza, la via del pensiero che pensa amando e ama pensando.

Chi veramente pensa per conoscere, ama l’oggetto del suo conoscere, e chi ama l’oggetto di cui sta facendo conoscenza, non può farlo se non con il pensare. Vi è un rapporto molto preciso che regola le percezioni, le cose, gli oggetti con il pensiero di chi, con animo limpido e sereno, li osserva. È come uno scambio di doni che arricchisce entrambe le parti: gli oggetti suscitano l’attività pensante, e questa, una volta innescata, entra nella percezione, penetra l’oggetto e lo svela per quel che esso conserva racchiuso in sé.

Il problema, l’ostacolo potentissimo della fase principiante è che la coscienza riflessa rimane abbagliata dal percepito; non riesce ad andare oltre, neppure suppone di poterlo fare; resta quasi paralizzata e incapace di reagire. Le percezioni dominano e domineranno a lungo, fintanto che la coscienza non imparerà a elaborare il pensiero attraverso la conoscenza e le discipline relative, che le forniranno un’esperienza del sensibile valida per coglierne l’essenza oggettiva.

Sarebbe tuttavia vano praticare questo tipo di esercitazione ove, fin dalla partenza, non fosse intuita, almeno come possibilità, la natura sovrasensibile della forza-pensiero operante nell’uomo quale unico e specifico rapporto con l’Io superiore e, in ultima analisi, con il divino.

A seconda di come ognuno di noi è disposto lungo la propria strada, avremo diverse capacità di conseguire la conoscenza delle cose. Essa sarà sempre parziale, anche se avremo la sensazione di ampliarla ogni volta in una visione superiore; ma è una superiorità che si rapporta sempre a quella precedente, quindi relativa e provvisoria.

Per completare il disegno di un’evoluzione umana che vorrebbe progredire sulla strada della conoscenza, bisogna poi tenere ben presente che di norma viviamo in situazioni miste, dove impicci e disimpicci, pur contrastanti, coesistono, nel senso che, per un verso, posso trovarmi sul punto di uscire da una situazione in cui sono caduto e, contemporaneamente, da un altro punto di vista, sto precipitando in un’ulteriore caduta di cui non avevo avuto sentore.

Nell’esperienza dell’apprendimento, tra scolari e studenti, si presentano frequentemente esempi di questo tipo; vi sono quelli portati per le materie letterarie che hanno grosse difficoltà con le scienze e la matematica, o viceversa. Oppure i casi di chi è un piccolo mago nel disegno libero e una frana in quello geometrico come fu, guarda caso, il sottoscritto. Il che sta a significare che ogni nostra crescita non procede regolare come una linea retta; quasi sempre avanza a sinusoide, con salti e interruzioni e purtroppo, anche con momentanei regressi. Per cui, di volta in volta, abbiamo necessità di rim­boccarci le maniche e darci da fare in quei settori nei quali sappiamo di essere carenti.

Se la coscienza è ancora immatura, sarà una faticaccia e uno sforzo notevole (detestabile im­piccio!); se invece è adulta, in grado di autocritica, saprà da sé quale via intraprendere per raf­forzarsi là dove prova bisogno, anche se il rimedio (il disimpiccio) non avrà il sapore buono di un confetto al rosolio.

Per tenere a mente queste cose scelgo, tra tante, quelle i cui ricordi, rivisitati negli ultimi tempi, mi hanno portato a svolgere le considerazioni tra impeachment e disimpeachment. Forse non vi si troverà quella chiarezza che un esempio calzante dovrebbe avere, ma è soltanto una questione di posizione interiore: se si guarda da un livello di coscienza, diciamo “normale”, non si può vedere null’altro se non quell’ apparire che a tutta prima si presenta in modo obiettivo, nel senso che la sua obiettività appartiene tutta all’oggetto.

Dopo aver rigorosamente valutato l’osservatorio interiore e, al caso, datagli pure un’aggiusta­tina, si potrà vedere qualcosa che stava dentro la percezione e che in sostanza le conferiva un aspetto particolare, lo stesso che nel momento in cui ebbe a verificarsi, ci ha catturati in una sorta d’incantesimo. Tutte le cose si possono vedere, guardare, osservare e contemplare; questi verbi però, non indicano soltanto le corrispettive azioni umane proiettate verso l’esterno; presuppongono delle attività interiori legate a vari stadi di coscienza, ben differenziati tra loro; si potrebbe farne una lunga disquisizione, ma quel che importa qui, è rendersi conto che, in tutti i casi, ci deve essere comunque una luce che illumini le cose, datosi che al buio pesto neanche l’ occhio d’una lince scorge qualcosa. Per lungo tempo, questo è il punto interessante, siamo convinti che quella luce debba provenire da fuori. La lince, per esempio, ne è convintissima.

Rivalorizzare i ricordi è un esercizio estremamente interessante e tutto sommato anche semplice; di ricordi ognuno ne ha in quantità incredibili; ma i ricordi, presi come stanno, sono uguali alle percezioni, anzi, sono vere e proprie percezioni. Se c’è la volontà di scovare il segreto che riposa in ognuna di quelle, dobbiamo superare le fasi del vedere, del guardare, e cominciare ad osservare, fino a poterle contemplare; convincerci che ciascuna di esse è in sé un piccolo capolavoro creato da noi, ma nei momenti in cui l’abbiamo creato, l’abbiamo pure subíto, perciò perduto. Tale subire ci ha parzialmente, o totalmente, privati della possibilità di ammirarlo fuori dal coinvolgimento dei sentimenti, delle reazioni e degli impulsi che di necessità hanno accompagnato il suo farsi. Adesso, dopo anni e anni, staccati dal contesto psicofisico, e agendo con un pensare fluente senza ostacoli soggettivanti o preconcetti, emergono nuovi elementi. Siamo nella fase di un disimpiccio e, almeno per un po’, è cosa buona rimanerci.

In fondo, se non abbiamo saputo essere artisti quando producevamo i ricordi, in seguito, am­pliando la visuale interiore, potremo diventare i critici di noi stessi e spiegarci alfine cosa stava fin da allora dietro quello specchio del quale invece continuavamo a fissare solo i rilessi di super­ficie. Sarebbe una critica, anzi un’auto-expertise veramente fondata, soprattutto perché originata da un colloquio estremamente proficuo tra l’anima e la coscienza, di cui, anche se ci è giocoforza riconoscerlo, portiamo per intero la responsabilità vettoriale.

 

Il Soldato sconfitto

 

Gnocchi in manoEro un bimbo di quattro, forse cinque anni; la guerra era finita da poco, e la città stava ripren­dendo vita, anche se in famiglia la perdita di mio padre continuava a pesare duramente. In una tarda mattinata di un giorno qualunque, suonò il campanello di casa. Mia madre andò ad aprire ed io, appiccicato alle sue gonne, le tenni dietro, curioso di vedere chi fosse alla porta. Si presentò uno sconosciuto, probabilmente un forestiero, né vecchio né giovane, malvestito, dimesso. Aveva un’aria stanca, depressa e una barba non rasata da giorni. Con lo sguardo basso e una voce sommessa (cosa questa che richiamò immediatamente la mia attenzione di ragazzino, perché, al di fuori di casa mia, tutti i posti che fre­quentavo, asilo, amici, ricreatorio, catechismo, ridondavano sempre di suoni e di confusioni vivaci, che apprezzavo, ma non mi permettevano mai di riflettere quanto avrei desi­derato) mormorò qualche parola che lí per lí stentai a capire; avevo tuttavia afferrato che doveva trattarsi di una cosa importante. Udii mia madre rispondere: «Aspetti qui», e richiuse l’uscio. La seguii in cucina, vidi che tirava fuori dalla dispensa (i frigoriferi erano ancora di là da venire) e in tono pensieroso, mi spiegò: «È un soldato, ha fame. Gli darò questi gnocchi». Prese quindi un vasetto di gnocchi fatti il giorno prima, senza sugo né condimento, cosí, asciutti, solo patate, acqua e farina. Li portò all’uomo che in silenzio attendeva sul pianerottolo e lo avvertí di lasciare il vaso sul tappetino d’ingresso, dopo aver finito di mangiare.

Il soldato (senza uniforme) mormorò qualche parola tipo un ringraziamento. Poi, chiuso l’uscio di casa, mia madre rimase alcuni minuti in uno strano atteggiamento di profonda serietà che non le riconoscevo, ma che mi pareva molto importante da interpretare, se fossi stato capace d’inter­pretare un’emozione in cui dolore e tristezza si fondevano insieme. Mi fissò, soppesandomi, come a chiedersi se facesse bene o male nel compiere quel che le stava passando per la mente; alla fine decise. Mi prese sotto le ascelle e mi sollevò di peso fino allo spioncino della porta. Attraverso questo, potei vedere quell’uomo, seduto sulla rampa delle scale; teneva tra le ginocchia il recipiente di vetro, e con una lentezza che mi parve infinita si portava alla bocca uno gnocco dopo l’altro, masticando a fatica e deglutendo con sforzo. Lento, atonico, abulico, lo sguardo fisso nel vuoto, con quella giacca scura, sdrucita, rimediata chissà dove, che gli cadeva di spalle, sporca di calcinacci. Lo ricordo molto bene; come l’avessi davanti a me da sempre.

Non ho mai saputo chi fosse quel soldato né che fine abbia fatto. Non so neppure per quale schie­ramento o fazione abbia combattuto; ma se fossi divenuto uno scultore esperto, oggi lo vorrei scolpire come statua monumentale con questo titolo: “Il Soldato sconfitto; l’Uomo, forse, non ancora”.

 

La signora Letizia Svevo Fonda Savio

 

Per dare assistenza al mio orfanaggio, e anche per sostegno economico a mia madre e a me che crescevo (già grandicello cominciavo a frequentare le medie inferiori) l’Opera Nazionale Orfani di Guerra ebbe a procurarmi vari aiuti, come buoni per i libri di studio, vestiti, e a Natale pure qualche giocattolino accompagnato dal rituale panettone. Non frequentavo tuttavia la sede locale della O.N.O.G., anche perché piuttosto lontana da casa.

Tuttavia mi capitò d’incontrare la Presidente dell’Istituzione, che all’epoca fu la signora Letizia Svevo Fonda Savio. Era una donna molto nota in città, e non solo, per essere la figlia di Italo Svevo, per avere una predisposizione naturale verso la cultura, le arti e per quel tipo di carità erga omnes, che è giusto definire cristiana, nel senso piú nobile della parola; ovvero per la difesa e la protezione dei piú deboli, costi quel che costi.

Letizia Svevo Fonda Savio nei suoi ultimi anni

Letizia Svevo Fonda Savio nei suoi ultimi anni

I suoi tre figli persero la vita sui campi di battaglia dell’ultimo conflitto; poco tempo dopo, anche il quarto figlio (adottivo) scomparve in circostanze tragiche. Ma questo non significa niente, se non a intonare i Peana della Leggenda e ricamare le statistiche per il Guinness del Dolore. Quel che voglio mettere in rilievo, e lo sottolineo con forza, è il mio primo e unico incrociare lo sguardo con quello dei suoi occhi. Un aggettivo fra mille, molto dopo quell’incontro (peraltro estemporaneo e condizionato dal cerimonialismo di prassi ) seppe svelarmi il senso di quel volto e di quello sguardo eccezionali, da cui ero stato trapassato sia pure per pochi secondi: “Indomita”, ecco; quella donna, quell’anima, era indomita. La sciagura incredibile, durissima, che s’era abbattuta sulla sua famiglia, tentan­do di distruggerle la vita interiore di madre e di moglie, sembrava non l’avesse nemmeno scalfita, anzi, per quanto para­dossale, pareva l’avesse ulteriormente for­tificata. Quella rinnovata forza di vita ora lei la devolveva al mondo degli orfani di guerra. La sua storia non verrà certamente dimenticata, perché io penso che la sua esistenza terrena si sia perfettamente con­giunta allo scopo richiesto dalla sua pre­senza in questo mondo, in questa epoca, in questa particolare situazione.

Potrei aggiungere altri ricordi ancora, ma dopo i due descritti, sono convinto di avere esaurito la mia piccola esercitazione biografica; qualunque altra storia di vita raccontassi, sarebbe in so­stanza riconducibile al valore di quegli sguardi di cui ho dato notizia e testimonianza.

Entrambi i ritratti offrono la dimostrazione che le fasi discendenti della vita si accompagnano a quelle ascendenti, e che non c’è sconfitta senza almeno un preludio di vittoria. È naturale che tutto ciò sia colto solo in un tempo diverso, posteriore a quello in cui la prova si svolge. Nel soldato, il sentimento di perdita, di abbandono, di smarrimento, non riesce a far scomparire una dignità umana non rassegnata, ancora vitale, caparbia; qualcosa dentro di sé non gli permette di arrendersi completamente agli eventi; quel suo essere costretto a chiedere del cibo per soprav­vivere era molto lontano dall’elemosinare del solito questuante. Quanto poi ho veduto risplendere negli occhi della signora Letizia era altrettanto lontano da ogni tentazione afflittiva, da quella inguaribile luttuosa amarezza che, in base ad una logica del tutto mondana, sarebbe stata, nel suo caso, ben giustificabile.

Ma è andata cosí. Se le cose si fossero svolte in modo diverso, il soldato non sarebbe stato il mio Soldato e la signora Letizia sarebbe stata un’altra persona che probabilmente non avrei conosciuto mai. Invece li ho incontrati entrambi, cosí come ho scritto, e forse per questo essi sono rimasti vivi nei miei pensieri.

Ora impeachment e disimpeachment, quanto a impicci/disimpicci, non servono piú. Non pos­sono andare oltre la loro disinvoltura giornalistica, oltre la trovata originale per dar tono ad uno scritto che altrimenti sarebbe apparso piú noioso e superficiale.

Ali degli angeliAdesso voglio adoperare i termini di “caduta” e di “redenzione”, la cui aulicità potrebbe coro­nare una degna conclusione, anche se queste due parole, d’ispirazione evangelica, non rendono con efficacia le implicazioni animiche corrispondenti a ciò che i “chiamati” hanno dovuto o voluto profondere per affinare le rispettive catarsi. Un cadere senza saper di cadere, visto da fuori, potrebbe venir interpretato come una comoda discesa, mentre il ri­sorgere dal fondo del proprio baratro, un osservatore fidei­stico sarebbe capace di assimilarlo ad un sollevamento verso l’alto sulle ali degli angeli, o quelle di una divinità favorevole.

Dipenderà dagli occhi che leggono; quando una co­scienza è pronta a capire, capisce. Prima di quel mo­mento, le illustrazioni degli impeachment e disimpeach­ment, caricaturali o caravaggesche che siano, non danno frutto; i giorni dopo, restano uguali a quelli di prima, l’epoca dei miracoli è finita da un pezzo.

Quanto tende oggi a far vibrare l’emotività degli uomini, come fosse una grancassa, è l’insana, a volte giuliva, superficialità, con la quale, spesso, si buttano a capofitto nell’avventura del fisico-sensibile, convinti d’acquisire un merito speciale nel praticare sport estremi, tipo free jumping o cose del genere; oppure, piú raramente, decidono di sottoporsi agli infiniti, enormi sacrifici tesi ad affrontare un’improba ascesa, senza alcuna garanzia di sicurezza da poter sgranocchiare sul piano logico-razionale.

Il materialista superficiale e il temerario arrampicatore si correlano nel rapporto d’impiccio/disim­piccio.

Tra i sogni covati dall’anima umana e la luce impersonale del pensare (che può illuminarla tutta, in qualunque momento e circostanza) vi è un percorso che si snoda per innumerevoli pas­saggi; tra cadute e risalite, tra capitomboli e raddrizzamenti, e, perché no?, tra impeachment e disimpeachment. In altre parole, un viaggio lungo e insidioso tra i tradimenti dell’ego contro l’Io e le riconquiste di fiducia nell’Io da parte di un ego affranto, che ogni volta paga il prezzo del riscatto per sentirsi un pochino piú libero.

Libero però secondo l’Io, non secondo l’ego.

 

Per finire, un consiglio per i nostri acquisti

 

La coscienza si desta quando all’alba i sogni della notte finiscono. Considerare tuttavia questo ridestarsi come il raggiungimento dell’ultimo dei traguardi, potrebbe soltanto significare d’esser stati fagocitati da un sogno ancora piú realistico di quelli svaniti.

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Angelo Lombroni