Definiamo “indimenticabile” il momento importante, quello che davvero incide sulla nostra vita, rinnovandola dal profondo, a volte con gioia, altre con dolore. Lo chiamiamo “cambiamento epocale” in quanto, noi almeno, sappiamo che lo è. Nell’esperienza, tuttavia, lo è al singolare; forse non ce ne rendiamo conto, ma la nostra vita continua piú o meno come prima. L’altrui esistere, le relazioni usate, le atmosfere quotidiane proseguono indifferenti, anche quando rasentano mutamenti che in realtà non cambiano poi nulla. La variante è accaduta; ma, nata da noi, è tutta nostra.
Eppure ci è sortita da dentro, precisa e di origine non ben definita; simile a un’intuizione che di colpo ci fa capire come tutto sia mutato e che d’ora in avanti nulla sarà come prima. La frase ha una risonanza storica, ma nel vissuto lo è ad ogni effetto. Si merita un’attenzione particolare, specialmente se ci chiedessimo da dove tale intuizione è giunta fino a noi.
Se il contenuto dell’intuizione apparsa riguarda unicamente il nostro soggetto, allora l’accaduto si può contenere nell’ambito interiore e gestirlo come un fatto personale con le conseguenze del caso. Ma se la verità che affiora da quel tipo d’intuizione riguarda l’uomo, la terra, e la conoscenza in genere, ed è tale da coinvolgere anime e cose ad ogni livello, allora la novità diventa un motivo etico: ci si deve far carico di questa testimonianza, e cominciare a reperire le parole, i toni e i modi per poterla divulgare ad una umanità che, non aperta e tanto meno pronta all’innovazione, è, al momento, cieca, sorda e muta. È un tentativo che può costar caro, perché difficilmente ai ridestatori va la gratitudine dei ridestati.
Agli inizi del secolo scorso, ci fu un uomo che, presi in considerazione i risultati piú avanzati della scienza sulla struttura dell’universo e della realtà fisica in cui viviamo, disse: «No, non può essere cosí come ce la siamo raccontata finora. C’è dell’altro; ci deve essere».
Ci mise quasi quindici anni, ma alla fine elaborò, condensando in un’unica formula, la sua teoria chiamata poi Teoria della Relatività Generale. Con ciò nulla fu davvero come prima e le ripercussioni, a catena, a ondate, a valanga si riproducono oggi ancora nello stupore e nella meraviglia da parte degli addetti ai lavori, che dalle loro meticolose verifiche si trovano ad osservare un universo, un sistema planetario, una terra e una dimensione spazio-temporale riducenti la vecchia dottrina newtoniana del “contenitore cosmico” ad un vintage, di nobile fattura, ma obsoleto quanto un cocchio reale.
L’equazione della formula è universalmente nota (raramente avverbio fu cosí appropriato), ed è reperibile da per tutto; se non basta, ricorro ad una pillola di saggezza del popolo masai: «Solo i vili tirano i baffi al leone morto». Non è quindi utile farsi belli del coraggio altrui. Ma chi volesse osservare da vicino la struttura dell’equazione, e come me si trovasse ad anni luce di distanza dai fondamenti di matematica che la supportano, non potrà non capire che là dentro ogni lettera, maiuscola o minuscola, ogni simbolo, latino o greco, sta ad indicare qualche cosa di estremamente preciso e inconfondibile.
L’equazione è semplice, schietta, direi pura nella sua trasparenza; arrivare ad afferrarla nella totalità dei labirinti di calcolo che l’hanno preceduta – necessariamente preceduta – è un altro paio di maniche; la cosa può richiedere una vita di applicazioni assidue.
Il problema conoscitivo viene da lontano; ogni conclusione-sintesi è un condensato di studi, di vissuti, e anche di errori, che comunque hanno contribuito e portato fin là. Dopo, è semplice dire: «Signori, questo è quanto». Per poterlo fare bisogna aver svolto un cammino talmente lungo che l’uso delle scarpe potrebbe essersi ridotto a un optional.
Questo pensiero vale per le enunciazioni di ordine matematico, ma è ingenuo credere che non valga altrettanto, e forse piú, per i princípi filosofici e per gli assiomi che sigillano le essenze ideali.
Se recito: «Nel Principio era il Verbo…», oppure medito «Spiriti Eccelsi, ch’eravate perfetti…», o ancora mi concentro sul mantra: «Ciascun oggetto necessita di essere compreso col pensiero…» cosa sto facendo se non ripercorrere con il mio pensare-sentire-volere gli infiniti passaggi che hanno condotto ad incidere nel tessuto dell’anima la potenza delle parole generatrici?
Da profani poco propensi all’indagine, si cade nella seduzione di credere che le cose difficili ci debbano venir spiegate in modo esauriente e con benevola pazienza. Ma questo non sta scritto da nessuna parte, anzi, avverte Meyrink: «L’uomo cerca sempre il principio e non si accorge che alla sua scoperta si oppone l’illusione che esso debba venir perennemente cercato». Mentre cerchiamo, siamo noi stessi a respingere la scoperta di una possibile soluzione, spesso non riconoscendola, talvolta fingendo di non riconoscerla. Per cui non sempre chi cerca trova, ma chi cerca continua a cercare, e chi trova, beato o non beato lui, ha davanti a sé il compito di mostrare agli altri d’averlo fatto.
L’Integrale di Riemann, il Tensore di Curvatura di Ricci, la Costante Cosmologica non sono piú duri da digerire del Verbo che stava nel Principio, o del fatto che, da un dato momento in poi, gli Spiriti Eccelsi cedettero la loro perfezione, o che un pensiero nuovo, qualitativamente uguale a quello con cui ripenso un pensato, debba trovare una convalida in qualcos’altro da sé.
D’altra parte, per avere la certezza d’essere pervenuti alla contemplazione di una visione, qualunque essa sia, fisica o metafisica, sostenibile sul piano degli attuali criteri di scientificità, bisogna aver raggiunto quel punto di equilibrio tra le forze centrifughe tipiche del ricercatore e quelle centripete ben congeniali alle necessità strutturali dell’ordinario sopravvivere, che possa bandire fin dall’inizio le forme di onirismo mistico, visionario e allucinatorio, le quali troppo spesso nascono da esperienze interiori incomplete, mal gestite, anche se in buona fede.
In altre parole il pensiero con il quale pensiamo non ha da essere totalmente legato alle categorie sensibili, ma neppure rendersi talmente volatile e fantasioso da perdere i riferimenti con l’oggettiva concretezza del mondo.
Le cifre e le lettere dei simboli sono sempre stati, per quanti hanno appreso a leggerli, un po’ come i segnali stradali per l’insieme degli automobilisti (magari con qualche infelice eccezione). Ma la bontà della metodologia applicata non basta a produrre da sola la meraviglia della visione d’insieme, quando e se arriva, perché a quel punto il contemplante si rende conto d’essersi portato là dove essa si offre e da dove, sicuramente, scomparirà, lasciando nell’anima echi profondi e nostalgie.
Il “modello standard” di Newton si presentava come uno stendersi di spazio-vuoto senza confini in cui galleggiavano corpi celesti, pianeti, stelle, galassie e nebulose. Tali corpi erano dotati di una forza, di attrazione e di rigetto, per la quale, raggiunto l’assetto ottimale, potevano mantenersi in equilibrio tra loro, e se l’isonomia necessitava un nuovo riposizionamento, ecco che intervenivano collisioni, urti ed esplosioni i cui effetti venivano subito riassorbiti dal sistema. Un modello quindi basato essenzialmente sulla meccanica gravitazionale.
Come idea non era male: ma lasciava aperti parecchi interrogativi. Per esempio, l’estensione dello spazio. Cosa vuol dire “infinito”? Che senso ha parlare di “vuoto cosmico”? Se c’è un vuoto come fa un corpo a galleggiarvi dentro? E questa forza gravitazionale, da dove salta fuori?
Avendo già in testa la sua Teoria della Relatività Ristretta, Einstein prese in considerazione il concetto di “campo elettromagnetico”, recente scoperta di Maxwell, il quale però, come spesso succede, non riuscí ad immaginare la portata dell’idea una volta connessa all’astrofisica. Associare le due intuizioni risultò invece fondamentale per il fisico di Ulm.
Il suo ragionamento fu lineare: lasciamo perdere il concetto di uno spazio-vuoto visto come contenitore cosmico, dal momento che con questo non andiamo avanti, e cominciamo invece a pensare all’intero universo come fosse un campo di forze. Che significa? Se entro in una chiesa, partecipo ad una riunione di affari o vado in trattoria con gli amici, mi accorgo che ognuno di questi posti è un campo di forza. Una serata danzante o un funerale sono o non sono anch’essi campi di forza? Una zona geografica sulla quale si sia abbattuto un violento temporale, non permea forse l’aria di una carica di ozono per lungo tempo?
Ovunque si esplichi e si estenda una determinata influenza, tale da catturare sia i già presenti, sia quelli che ci si imbattono per caso, è un campo di forza. Possiamo divertirci poi a definirlo “psicologico” o “da diporto” o “triste incombenza” o ancora “sentita partecipazione”, oppure metterci un cartello: “Attenzione! Zona radioattiva”. Ma sempre campo di forza è.
E allora? Se Maxwell ci parla di “campo elettromagnetico”, perché non proiettare il concetto elevandolo all’ennesima potenza, e trovare il coraggio di dire che tutto il creato è un unico immenso campo di forza?
Il vuoto, lo spazio infinito, il contenitore universale, non esistono per il semplice fatto che questo era un modo distorto e riduttivo di considerare la struttura del nostro universo. Esso è invece un campo di forza. Ma di quale forza, ci si chiede ora? Di tutte le forze conosciute e conoscende. È sicuramente elettro-magnetico; è certamente gravitazionale; ed ancora, a maggior ragione, è spazio-temporale, nel senso che per sua natura provoca situazioni di tempo e di spazio relazionali e differenziate.
Da questa lettura discende una realtà consequenziale che potremmo definire una bomba conoscitiva: lo spazio creduto fino a qui vuoto, è invece colmo e ricolmo di autentica forza: quella che dà origine e muove tutti i campi di forza.
Non dobbiamo però pensare al campo di forza universale come “contenitore” degli altri campi di forza; cadremmo nuovamente nell’insabbiamento newtoniano. Possiamo, piuttosto, paragonarlo alla meteorologia e constatare come in essa esistano di continuo zone di alta e bassa pressione, fenomeni di pioggia, vento, bel tempo e sbalzi di temperatura, i quali fanno parte dell’atmosfera del pianeta, ma non in quanto la compongano, bensí nella misura in cui essa sa di volta in volta trasformarsi in uno di questi eventi, caratterizzando in tal modo i suoi aspetti fenomenici. Temporali e ozonizzazioni dell’aria ovviamente compresi.
Su Albert Einstein si raccontano molte cose. È stato bravo? intelligente? intuitivo? geniale? Credo sia meglio dire che, al momento opportuno, dall’insieme degli uomini ne è emerso uno che ha seguito una traccia facendo tesoro di ciò che altri avevano nel frattempo isolatamente e parzialmente trovato, e tale percorso – sicuramente aiutato dal fatto che per anni ha lavorato all’Ufficio Brevetti di Berna, dove aveva accesso a una moltitudine di studi dei richiedenti brevetto ‒ lo ha condotto alla rivelazione di una verità che oggi ci sembra la versione emergente nella conoscenza dell’universo fisico.
Non è dunque mia intenzione raccontare qui le meraviglie della capacità e delle scoperte di Einstein, dato che già il mondo della scienza, la cultura generale e la propensione a celebrare il succo delle meningi, gli hanno innalzato i monumenti della gloria e li hanno acconciamente distribuiti nei testi di storia, nelle enciclopedie, compreso il “Guinness dei Primati”. Piú che sufficiente perché la sua fama rimanga duratura per i secoli a venire…
Desidero invece rivolgere le mie riflessioni a un altro uomo, nato diciotto anni prima di Einstein, il quale pur non avendo ottenuto il prestigio e la notorietà di questi, ebbe l’avventura, o se si preferisce si assunse la missione, di svelare al mondo una verità – esito solo un attimo a dirlo – ben diversa e, oggettivamente parlando, di vitale essenzialità per la formazione interiore di ciascun essere umano dell’epoca moderna.
Possiamo anche dire “ per la trasformazione di ciascun essere umano “, se si accetta l’idea che da un certo punto in poi della crescita, di ogni crescita, si rende necessario imparare a camminare con le proprie gambe.
Abbracciando con la sua anima tutto lo scibile trascorso, nonché i vari settori in cui solerti catalogatori lo hanno voluto suddividere, e con particolare riferimento alla filosofia intesa quale indagine gnoseologica per eccellenza, quest’uomo, sul finire del secolo XIX, scoprí nella propria intima natura una disposizione che ritrovò poi abbozzata, incompleta, a volte del tutto sopita ma comunque sempre presente in tutti gli esseri umani con i quali ebbe contatto.
Che ogni individuo sia dotato di facoltà pensante, non era certo una novità, ma pochissimi pensatori, solo una élite esclusiva degli “addetti ai lavori”, aveva intuito, chi piú chi meno, che una cosa sono i pensieri pensati, e un’altra cosa è il pensare in sé.
Si era creduto che il pensare fosse un grande, indefinibile scatolone, una specie di contenitore metafisico in cui possono liberamente navigare i nostri pensieri, quelli che abbiamo fatto e quelli che potremmo ancora fare. In pratica il mondo, o la dimensione, del pensare, era un po’ come quel vuoto, quello spazio smisurato, con il quale, qualche diecina d’anni dopo, ebbe a confrontarsi Albert Einstein.
Ma mentre quest’ultimo arrivò ad una soluzione matematico-fisica e ne fece quindi scaturire una visione altrettanto matematico-fisica (né avrebbe potuto fare altro), Rudolf Steiner, prima ancora, fu in grado di concepire una verità sbalorditiva, la quale non avrebbe dovuto sbalordire assolutamente nessuno, poiché era già stata anticipata da secoli di tradizioni religiose e di esegesi dei Testi Sacri; era stata divulgata in tutte le lingue, e oltre tutto, come se non bastasse, aveva pure profonde radici nell’anima di ogni uomo nato alla luce del sole.
Perché nel pensare, ossia in quella forza pensante che può venir impiegata a piacere nel sostanziamento di ogni nostro pensiero, non potrebbe esserci la percezione immediata interiore, individuale e collettiva, che la forza dello Spirito vive dentro di noi, e ‒ in contemporanea ‒ la dimostrazione definitiva, in quanto autopercettiva, dell’esistenza di Dio? La prova che ci rende unici tra tutte le creature del mondo, e permette, a quanti vogliano e ci si mettano di buzzo buono, di sperimentare in se stessi questa corrente di vita? Che è anche corrente di luce e di amore infinito, e da universale sa farsi particolare per ogni anima capace di porsi nella giusta disposizione a riceverla? Perché questo continuo possente fluire gratuito della forza pensante non dovrebbe essere riconosciuto come il Grande Dono di Dio, la nuova porta che spalanca i misteri dell’universo, del destino dell’uomo e della sua missione sulla terra, svelandogli il senso ultimo della sua provenienza, della sua venuta e della sua finalità?
Riassunto: «Il pensare altro non è che l’origine divina dell’uomo, affannosamente cercata mediante un’attività intellettiva finora troppo inerte, dimessa, e incosciente; perciò incapace di esprimersi col rigore necessario a rivelarsi quale forza-Logos».
La vita, le opere e le parole di Rudolf Steiner, in modo pulito e semplice, rinunciano fin dal principio ad ogni forma di altisonanza dialettica che il tema avrebbe potuto anche in qualche modo esigere. La sua enunciazione è di puro nitore logico ma al tempo stesso, di profonda, cordiale fiducia, non nell’umano in genere (questo sia chiaro!), ma nello spirito eterno che, incarnato nel profondo di ogni anima immortale, cerca di rendere quel determinato essere un individuo capace di elaborare la propria terrestrità fino a spiritualizzarla.
«Il pensare è l’elemento inosservato della vita ordinaria del nostro Spirito». A qualcuno questa frase, tratta dalla Filosofia della Libertà, potrà dire molto, a qualcuno poco, a tanti altri non dirà niente. Ma basterebbe fare un piccolo sforzo su se stessi, sulla propria natura, sempre neghittosa e poco propensa a cimentarsi nel labirinto dei pensieri (creduti) astratti, per capire che se anche il pensare fosse davvero “l’elemento inosservato” nulla ci vieta di cominciare finalmente ad osservarlo. E poterlo fare con tutti i criteri e le metodologie di quella scientificità fin qui acquisita, che di certo non furono ideati per restare fine a se stessi.
Rudolf Steiner comprese che questa epoca richiedeva in modo irrimandabile l’annuncio che fece e corredò di uno specifico insegnamento: l’Antroposofia.
Naturalmente, anche la migliore delle medicine, per quanto ispirata dall’alto, ha le sue brave controindicazioni. Messi davanti all’enunciazione di Rudolf Steiner, i vigili tutori delle correnti di pensiero, conservatori o riformisti che siano, si sarebbero dovuti sbalordire. Che non l’abbiano invece fatto, e che attorno alla figura e alle opere del Maestro l’ufficialità consolidata abbia trovato rifugio in un omertoso silenzio, la dice lunga e la dice chiara.
Applaudiamo l’uomo di scienza, scopritore, fisico, matematico, medico o architetto, chimico o geologo, per esser riuscito a pensare là dove nessuno c’era riuscito prima di lui; ma se la scoperta, se l’innovazione si allarga a dismisura e tocca le corde piú nascoste e sopite del nostro universo animico, allora l’applauso cessa di colpo, l’entusiasmo si raggela e si trasforma in panico.
Perché un conto è aprire lo sguardo su un nuovo orizzonte fisico che ci parla di spazio, tempo e viaggi intergalattici, ma non ci comporta, almeno per l’immediato, alcuna responsabilità di ordine etico; un altro conto è conficcarci nella mente e nel cuore l’annuncio che, in quanto uomini, portiamo in noi lo Spirito; anzi, da esso, per esso e con esso siamo nati, scegliendo con cura i genitori che ci avrebbero procreato, il luogo natale, l’epoca perfetta per l’esperienza da compiersi nel fisico sensibile. Capisco perfettamente: è un rospo troppo difficile da digerire.
Per quanto sconvolgente rispetto a prima, apprendere la novità portata da Einstein, sempre che ci si curi di studiarla e di capirla almeno per sommi capi, non tocca minimamente la nostra struttura interiore: il giardino dell’ego non viene sfiorato dalla potenza dell’equazione che ha rivoluzionato i princípi conoscitivi universali.
Ma quel che invece il dottor Rudolf Steiner indica a chiare lettere in ogni suo pensiero, è per il nostro povero ego cosa terribilmente invasiva. Per quanta amorevolezza e umana comprensione il Dottore possa aver messo nell’offrire e illustrare la sua concezione dell’uomo, del mondo e dell’universo, essa si introduce in noi simile ad una mano estranea che, affondando nell’esofago, tenta di rigirarci come una calza. Questo aspetto è per l’ego un fatto letteralmente insopportabile; lo vive come una sentenza di morte. E non ha torto.
Per piú di venti secoli abbiamo demandato agli ordini religiosi, alle confessioni e all’apparato emotivo-sentimentale il potere di guidare e di pascolare le nostre anime nei prati fioriti della pietas, della caritas e della fraternitas. Ora, se non abbiamo ancora avvertito l’imminenza epocale, l’Antroposofia steineriana ci propone di cominciare a condurci da soli, perché, aggiungo io, siamo già grandicelli, svezzati, e anche perché (pure questo è un mio pensiero non molto aulico) papà Creatore e mamma Chiesa hanno fatto tutto quello che c’era da fare e forse qualcosina in piú.
È qui che nascono i drammi e i patemi dell’ego: «È triste trovarsi adulti senza essere cresciuti» cantava Fabrizio De André a proposito di un tale rimasto piccolo di statura. Ma è ancora piú triste trovarsi cresciuti avendo nutrito in sé, e installato al posto di comando, un essere deforme, bramoso, ben intenzionato a non mollare il potere e pertanto ad impedire ogni espressione dello Spirito e della libertà.
Il che non vuol dire ostacolare direttamente la spiritualità che permea ciascun vivente; basta dirottarla, spaccarla, frantumarla, per riaggiustarla poi in mille modi diversi, tutti tesi in competizione sleale e accidiosa fra loro. Ciò che ogni giorno ci passa davanti agli occhi fornisce ampia testimonianza.
Da qualche tempo mi diverto a porre una domanda provocatoria a degli amici che professano una certa militanza antroposofica e sostengono a spada tratta di applicarsi con grande rispetto e devozione alla Scienza dello Spirito. Nel bel mezzo del discorso lascio cadere (con una buona imitazione di ingenuità) la domanda: «Ma in definitiva, la grandezza di Rudolf Steiner, secondo te, in cosa consiste?».
A riscontro ho ricevuto sguardi preoccupati, esitazioni troppo protratte, o in alternativa, commenti del tipo: «La sua forza interiore e l’amore per l’umanità». Risposta questa certamente non sbagliata, ma alquanto generica e poco meno che defatigatoria.
Se avessi chiesto di Einstein, chiunque mi avrebbe indicato la Teoria della Relatività; se si fosse trattato di Cristoforo Colombo, tutti mi avrebbero sbattuto in faccia la scoperta dell’America; e sono convinto che se l’argomento avesse riguardato i coniugi Curie, pochi avrebbero esitato a rispondermi: «I Raggi X».
Evidentemente con Rudolf Steiner le cose non stanno cosí; forse ciò che egli ha dato al mondo è talmente vasto ed elevato che l’idea di dover rovistare nel suo lascito per trovare un qualche cosa di eccezionalmente piú importante del resto, contrasta con la devota riservatezza del discepolismo ortodosso, e in definitiva lascia il tempo che trova.
Eppure, quando in presenza di un interlocutore ben ferrato nelle conoscenze della scienza ufficiale (dichiaratosi subito, a scanso di equivoci, irrimediabilmente agnostico e lontano da ogni qualsivoglia forma di “tentazione” spiritualistica) mi metto a spiegare che la figura di Rudolf Steiner brilla come un faro nella notte ‒ perché è l’uomo che ha aperto la via di una possibile reintegrazione verso i mondi dello Spirito, oramai perduta, e, guarda caso, l’ha fatto proprio grazie a quella facoltà intellettiva, pur razionale, meccanica e astratta, la cui maturazione aveva determinato l’assopimento di altre forze animiche, in precedenza necessarie all’esperienza sovrasensibile ‒ non trovo l’atteggiamento di imbarazzo e di malcelata superiorità riscontrato in quanti snobbano l’interrogativo ritenendolo puro esibizionismo dialettico.
Chi si occupa di ricerca, indipendentemente dal settore in cui è promossa, e lo fa con un intento e applicazione meritevoli, non sottovaluta mai un’ipotesi di lavoro, anche se proveniente da lontani o contrapposti logismi.
Molti discepoli amano Rudolf Steiner ma non hanno verso il pensare lo stesso amore che il Maestro ha indicato loro; con ciò, forse inconsapevolmente, finiscono per disamare chi avrebbero voluto, perché di Lui null’altro hanno se non la rappresentazione che se ne sono fatti.
L’universo, dicono le piú recenti teorie, è nato a seguito di una gigantesca esplosione di energia; in pratica una determinata forza cede in tutto o in parte il proprio vigore ad una parte che ne manca; con ciò si crea una prima variante, la quale prosegue a cascata per infinite ulteriori differenziazioni; esse costituiscono la dinamica del creato.
Vista di là dalla semplice osservazione scientifica, si può parlare di un sacrificio, nel senso che chi volontariamente si spoglia del potenziale congenito, compie un autentico sacrificio; rende la sua offerta un’azione sacra.
Cosí giunse il momento in cui anche gli Spiriti Eccelsi, che un tempo erano stati perfetti, impiegarono la loro forza per offrire il meglio di sé ad una nuova forma di vita, primitiva e infitta nell’antispiritualità della materia, che stava iniziando ad evolversi, fino ad assumere gli sfumati contorni di un’autocoscienza tutta da costruire e oggi ancora avvolta nella scorza della conoscenza fisica.
Anche noi siamo dei piccoli creatori: ogni giorno, ogni attimo della nostra esistenza, produciamo quantità enormi di pensieri, purtroppo nella maggior parte incompiuti, affrettati e gestiti a raffica come i titoli dei notiziari. Nulla su cui ci si possa soffermare un attimo per approfondire, ma al contrario, subito dopo una news convulsa e concitata, eccone arrivare un’altra strillata e terrifica.
Di fronte a un tale sperpero della primaria facoltà concessa all’umano, chi è ancora in grado di avvedersene sa cosa fare e dove dirigere i suoi passi.
Per me non è possibile parlare di Rudolf Steiner senza ricordare Massimo Scaligero, saggio scrittore, poeta e filosofo, fondamentale e determinante per un corretto accostamento al pensiero steineriano.
Da Scaligero provengono due chiarificazioni illuminanti al proposito:
- «Il pensiero è la via dell’uomo di questi tempi, l’avverta egli o non l’avverta. L’avvertire o il non avvertire essendo comunque pensiero».
- «Colui che pensa ama e chi ama nasce. Comincia a realizzare l’uomo di cui per ora ha solo la forma fisica».
Massimo non lascia dubbi: dobbiamo tornare al pensare; rintracciare le origini della sua trascendenza; coglierla nel farsi immediata presenza in noi; cercare, ipotizzare, intuire chi veramente siamo stati quando non eravamo ancora gli esseri in cui adesso ci riconosciamo.
Sperimentando il pensiero, l’anima sa recuperare l’intima disposizione ad aprirsi verso questa ricerca; trova in essa il proprio orientamento, lo identifica a ciò che effettivamente costituisce la sua unica mèta, si dà il motivo del suo essersi incarnata, d’aver voluto affrontare le peripezie del rutilante caleidoscopio della terra e degli eventi, nel succedersi delle ripetute esperienze esistenziali.
Se la dimensione della concezione einsteiniana fu quella di un universo pieno di energia commutabile e interscambiabile, nella visione anticipata (evitata, scartata, compresa poco ove non segretamente avversata) da Rudolf Steiner, essa fu quel Principio da cui mosse il Verbo/Logos, e nel quale, oggi come allora, si articola ogni nostro pensare-sentire-volere.
Verrebbe da chiedersi: ma se le cose stanno cosí come fu possibile che un pensatore di quel calibro sia stato pressoché messo al bando dalla cultura ufficiale, dimenticato dall’entourage delle scienze e cancellato dalle aree di culto?
Tutto sommato questa è la domanda cui è meno difficile rispondere.
Potrebbe un’umanità globalmente dedita ai propri interessi personali ed egocentrici, sbilanciata verso il perseguimento di profitti puramente materiali, protesa al soddisfacimento degli istinti e delle brame, nonché disposta a commettere qualunque nefandezza e atrocità pur di poterli realizzare, accogliere-comprendere-amare l’uomo che spese la sua vita ad indicare la strada del pensare quale ricongiungimento del Divino umano al Divino cosmico?
Qualcuno mi dice che almeno “si spera” possa intervenire in seguito un ravvedimento generale e una decisiva rivalutazione del pensiero antroposofico.
Ma questo equivale a porsi un’altra domanda: tutte le sofferenze che gli esseri della terra si sono fin qui inflitti l’un l’altro, è il prezzo sufficiente per riscattare un futuro indirizzato allo Spirito?
Io non sono pessimista, ma voglio essere sincero: potrebbe non bastare.
Lino Lombroni