I poeti disegnano sulle proprie orme geroglifici familiari
che nessuno decifra ma che tutti sanno leggere.
Nicola Gelo
L’accoglienza deve essere anteposta alla comprensione del problema, poiché comprendere prima di accogliere porterebbe a una comprensione di tipo intellettualistico, a una comprensione libresca. La comprensione che nasce da un sentimento di profonda accoglienza è una comprensione mutuata dalle forze del cuore. Senza dubbio l’educatore dovrà sviluppare tanto di conoscenza e coscienza riguardo all’antropologia e alla pedagogia, ma queste, in un certo senso, dovranno essere un po’ dimenticate, messe da parte. Il pianista, dopo un attento studio della partitura e dopo tanto esercizio, potrà finalmente tenere un concerto. Prima del concerto egli dovrà “dimenticare” la partitura e recarsi da solo all’incontro con la musica ed il pubblico: oltre le tende, sul palco. L’oblío è una forma di ricordo.
L’osservazione poetica, l’osservazione priva di giudizi e pregiudizi, è la sola strada che possa portarci all’Incontro con l’altro. James Hillman ci ha lasciato un’affermazione adamantina su cui meditare: la bellezza è la percettibilità stessa del cosmo. Per i Greci bellezza e bontà erano fuse insieme nell’espressione kalokaghatía: potremmo allora egualmente dire che la bontà è la percettibilità stessa del cosmo. La bellezza-bontà dovrà quindi costituire quell’anelito etico con cui l’osservatore accorderà il suo strumento percettivo. In particolari momenti di liricità (si pensi all’innamoramento, al primo sguardo con cui incontrammo la creatura amata) ogni essere umano, seppur per brevi istanti, riesce ad osservare l’altro mediante percezione originaria: quella percezione che ci permette di osservare l’altro cosí come Dio l’ha fatto, senza paraocchi.
Solo le azioni umane, quando si rendono inumane, divengono abominevoli, sfuggendo dunque alla legge della kalokaghatía.
«Abbiamo bisogno di altra poesia che riveli quel che il cuore è pronto a riconoscere» sono parole di Joseph Campbell.
La respirazione del bambino piccolo o respirazione ancestrale
Accanto alla respirazione polmonare ne abbiamo un’altra che chiameremo respirazione neurosensoriale. Il respiro neurosensoriale permette di accogliere, individualizzare e discriminare le impressioni provenienti dal mondo esterno. Ognuno di noi durante la quotidianità della giornata accoglie, individualizza e discrimina in continuazione i contenuti del mondo. Si pensi all’ascolto di una lunga conferenza. La nostra attenzione – in condizioni di normalità – viene dapprima portata al relatore, ai contenuti della relazione per poi passare ad una fase di concentrazione autopercettiva. Questo processo accade continuamente nel corso delle nostre giornate. Ci “distraiamo”, diremmo: attuiamo cioè il processo espirativo. Abbiamo bisogno di “riprendere fiato”, perché altrimenti tenderemmo a “fonderci” con i contenuti della relazione. Costantemente il processo di respirazione neurosensoriale è il mediatore di questi due stati o polarità. Quando la nostra attenzione si sposta dal fuori al dentro, passiamo dal guardare al vedere, dall’ascoltare al sentire: mutua la direzione della nostra capacità attentiva. In quei momenti – se prestassimo attenzione – ci ritroveremmo alle prese con una sorta di autentico processo metabolico.
La forza-pensiero accompagna costantemente il sangue entro la regione metabolica, sostenendone i processi di eterizzazione della materia. Quello stato che chiamiamo sovrappensiero è in realtà uno stato un po’ sonnambolico, molto simile allo stato in cui fluttuano pensieri e percezioni dopo un pranzo abbondante.
Nei momenti di “espirazione” compiamo processi di distanziamento e metabolizzazione. I bambini sognatori vivono maggiormente in questa fase metabolica.
Tutto questo processo – qui riassunto in un modo estremamente sintetico – avviene costantemente e inavvertitamente in ognuno di noi. Ognuno di noi ha per giunta una costituzione che lo porta naturalmente a sentirsi ‘piú comodo’ in una delle due polarità (si pensi ad un uomo flemmatico e ad uno sanguinico) e costantemente alterniamo fasi della giornata in cui passiamo piú tempo nella fase dell’assorbimento dei contenuti del mondo ed altre in cui siamo piú nel rilascio (si pensi al passaggio dall’attività lavorativa a quella immediatamente susseguente). Ciò che espiriamo è poi da porre in relazione a quanto abbiamo inspirato: in tale movimento vi è una chiara processualità ritmico-metabolica.
Qualsiasi contenuto del mondo sia entrato nella nostra respirazione neurosensoriale dovrà essere, una volta metabolizzato, restituito al mondo. Ovviamente la fase espirativa con cui il respiro neurosensoriale rigetta, metabolizzato, il contenuto del mondo è diversa per tutti. Il poeta dopo aver “respirato” un nuovo paesaggio ne ricaverà una poesia: il mondo – che per Wittgenstein è la totalità dei fatti – risulterà arricchito da un elemento in piú. Il processo di restituzione – e dunque di imitazione – è un processo sacro che può scegliere, per il suo divenire, la via dell’arte. Con questo voglio intendere che il cosiddetto “comportamento disturbato” di un bambino non dovrà indurci a pensare che egli non viva nel sussulto alla bellezza. Questi bambini vivono in un modo straordinario la relazione con il bello e il buono, ma le loro restituzioni sono semplicemente esplosive. Vedremo in seguito perché.
La Terra evolve grazie al processo di imitazione dei bambini, e le loro “restituzioni” sono in realtà un alimento eucaristico per il mondo spirituale. Quando i bambini giocano insieme su un prato, scavando magari con le mani nude la terra, compiono un lavoro di ricerca che non andrebbe mai disturbato. Quando un bambino gioca con la terra, è come se a lei si rivolgesse dicendo: «Ecco, cara terra, io ti capisco. Non so bene perché eppure mi sei simpatica. Nessuno ti parla, ma io ti conosco e ti farò un po’ compagnia. Ecco, qui adesso farò un buchino, ci verserò dell’acqua e sarà un lago: cosí berranno le formiche. E saranno felici». Il gioco è la vera università dei bambini.
In una delle prime conferenze del corso di Antropologia (O.O. N° 293), Rudolf Steiner mette in guardia gli educatori sulla necessità di insegnare al bambino in età scolare (7 anni circa) a respirare. Il suo riferimento non si basa sulla respirazione fisico-polmonare bensí su quella che abbiamo definito neurosensoriale. Il bambino piccolo vive avvolto in un gesto di continua apertura al mondo, di continuo stupore. L’educatore dovrebbe, attraverso una scansione ritmica della giornata, portare ritmo tra una fase inspirativa e una espirativa; in tal modo il bambino imparerebbe a regolarizzare tale respirazione e a portarsi in quella zona di scambio tra espansione e contrazione. Una continua permanenza in una delle due zone porterebbe il bambino a soggiacere o alle impressioni del mondo o a quelle mutuate dalle forze organiche. Il processo con cui il bambino metabolizza le impressioni del mondo è il processo imitativo.
Distinguo due tipi diversi di processi imitativi nel bambino. Il bambino piccolo (fino ai 4-6 anni d’età) vive in uno stato di imitazione ancestrale, mentre i bambini piú grandi (dai nove anni in poi) in un processo di imitazione rappresentativa. Nella fase intermedia, in particolare dai sei ai nove anni, il bambino necessita davvero di un’educazione del respiro. In cosa consista questa educazione lo si vedrà in seguito.
Il bambino piccolo non ha formato ancora lo spazio di contrazione-scambio-espansione, e dunque non avrebbe senso per lui la respirazione neurosensoriale. Con sempre maggiore frequenza i bambini piccoli vengono sovraesposti a stimoli e percezioni da loro ingestibili. La loro organizzazione interna non può inverare alcun gesto imitativo riguardo a tali stimoli. Essi richiederebbero un assorbimento mutuato da quella zona di scambio, o centro, di cui i bambini piccoli non dispongono.
Il bambino piccolo vive in una relazione fusionale con tutto ciò che lo circonda. La sua imitazione non nasce da una capacità discriminatoria, quanto bensí da quello stato fusionale in cui egli è immerso. Quando il bimbo piccolo imita il lupo, è come se l’essenza del lupo fosse viva e operante nel bambino e dal bambino cercasse una via di fuga per restituirsi alla natura, al suo posto nel mondo. Il lupo imitato dal bambino è un lupo che – una volta ritornato nel suo mondo archetipico – possiederà qualcosa in piú. Nel processo imitativo infantile la corrente degli archetipi e quella umana si incontrano. Ci aiuta la poesia a pensare queste cose ed è per questo che propongo la lettura di rari versi di Georges Sheade.
Qui l’ombra è una seconda luce
che raddoppia tutto quel che vedo.
Cosí l’ombra di una rosa
è una rosa piú leggera.
Nel suo Ai miei figli Pavel A. Florenskij (1882–1937), ricordando della sua primissima infanzia, cosí scrive: «Pescavamo le meduse coi bastoni. Quei bei fiori dalle corolle opalescenti colme di luce che dondolavano nell’acqua, delicatamente orlate di viola. Sapevamo che potevano irritare, ma sapevamo anche che cosí doveva essere: non ci si può accostare al mistero impunemente. Quando le tiravamo fuori, si scioglievano sui sassi caldi in un muco senza colore, e non ne restava nulla. Qualcuno ci aveva detto che se si mettevano ad essiccare le meduse tra due fogli di carta assorbente, cambiandoli spesso, rimaneva un reticolo colorato. Non lo mettevo in dubbio, ma mi sembrava una favoletta lontana, mentre l’esperienza diretta diceva che le meduse erano creature di quello stesso mare, fatte dalla stessa acqua e nulla piú, e che perciò nell’acqua nuotavano. …La analizzavamo anche, l’acqua di quelle buche: succhiavamo il dito che vi avevamo immerso e ci meravigliavamo del sapore amaro-salato che sentivamo. Parevano lacrime. E non significava, forse, che anch’io ero fatto di acqua di mare? C’erano corrispondenze ovunque; di qualunque cosa ci si occupasse, tutto conduceva sempre e solo al mare. …Nella terra c’era acqua, dentro di me c’era acqua, e anche le meduse erano acqua. …Eravamo diversi d’aspetto, ma tutt’uno quanto a sostanza. Gli anni della mia infanzia e della mia adolescenza li ho trascorsi in una continua, insaziabile e mai paga contemplazione del mare. …E mai il mare ci veniva a noia. Mai la sensazione che ci dava scivolava sull’anima, ma la penetrava ogni volta con tutto il suo essere».
Ed ancora: «Probabilmente era verso sera, o forse non c’era il sole. Mi è rimasta una sensazione come di crepuscolo. Fu allora che, sul marciapiede di pietra coi ciuffi d’erba, erba d’autunno forse – ce l’ho davanti agli occhi come se fosse ieri, quel marciapiede – vidi qualcosa. O meglio, qualcosa sentii: uno strano suono che non avevo mai udito prima. E mi spaventai. Ma la curiosità e l’audacia ebbero la meglio. Decisi di farmi piú vicino e di raggiungere la mèta. Correvo avanti con gli occhi strizzati, poi, di colpo, mi immobilizzai. Di fronte a me c’era un aggeggio mai visto. Al suo interno c’era qualcosa che girava velocemente, che fischiava, strideva e sprizzava faville vivide da una ruota. E, quel che è peggio, accanto all’aggeggio c’era un uomo, una sagoma scura contro il cielo della sera, imperturbabile, impavido e intrepido, che imbracciava qualcosa. …Io me ne stavo lí, come incantato dallo sguardo di quel mostro. Di fronte a me si schiudevano i misteri tremendi della natura. Davanti agli occhi avevo ciò che a un mortale non era dato di vedere. La ruota di Ezechiele? I vortici di fuoco di Anassimandro? L’eterno ruotare, il fuoco noumenale. …Ero impietrito, terrorizzato, preso da una curiosità tra l’audace e l’impertinente, conscio che non avrei dovuto né vedere né sentire quel che, invece, stavo vedendo e sentendo. Ma davanti a me si schiudeva la viva realtà delle forze misteriose della natura, l’Urgrund di Böhme, le Madri di Goethe. E colui che stava accanto a quell’aggeggio che sprizzava faville, quella sagoma scura, non era certo un uomo, né un qualsivoglia essere terreno; era lo spirito della Terra, un essere gigantesco, se paragonato a me. Probabilmente, non mi aveva neanche notato. …Non so quanto durarono la scoperta e lo stupore».
L’imitazione, nel bambino piccolo, è quello stato fusionale con cui il bambino riconosce in prima istanza il suo legame originario con ogni parte del mondo. Da ogni parte del mondo il bambino estrae, vivente, la matrice archetipica, la quiddità. L’imitazione ancestrale estrae da questa quiddità varie e distinte molteplicità o quidditates. Esse restano essenze innominabili perché nell’Eden dove vive il bambino piccolo nessuno ha ancora dato un nome alle cose. E se nessuno ha dato un nome alle cose è solo perché nell’Eden l’essere umano non è discriminato dall’elemento naturale. Come potrei dare un nome alle cose se io, in un certo senso, sono anche le cose del mondo e le cose del mondo sono un po’ anche me? Il nominare implica il signoreggiare quella facoltà discriminatrice che sola può esser data dall’irruzione di un principio sovvertitore ed individualizzante. Irrotto nella coscienza, tale principio condurrà inevitabilmente l’individualità umana al di fuori del giardino dell’Eden. Attraverso un processo di discontinuità il bambino si disidentifica dall’elemento naturale, acquisendo strutturazione e peculiarità proprie: un hortus conclusus posto sulle gambe di madre natura.
Accadesti un giorno
come accadono le cose
e dopo Te
mi accadde il mondo.
Le parole erano
la tenerezza degli istanti:
quel divenire – in altra forma –
di noi stessi.
Eri la pioggia che lava
da ogni battesimo
perché amando restituivi
nuove origini alla storia.
Restituendo ogni cosa
alla sua origine:
quel sacro diritto
a non avere un nome.
E prima che ogni cosa si compia,
prima che Adamo torni
a dare un nome a tutto:
Io ti confusi nuovamente
alla fragranza del fiore
o al forte volo della libellula.
Nicola Gelo
Nel processo di imitazione ancestrale il bambino piccolo è avvolto dal contenuto dell’imitazione, e quest’imitazione rappresenta piú che altro il continuo identificarsi e differenziarsi da molteplici elementi archetipici.
Il bambino piccolo, ad esempio, scopre l’essenza del lupo (la “luposità”), e questa “luposità” lo pervade – agendo dall’esterno ed entrando nella sfera dei processi – fin nelle piú intime fibre. Il processo imitativo del bambino piccolo, il processo che ho definito ancestrale, è un processo sano per quel tipo di bambino. Se un adulto dovesse trovarsi in una condizione del genere, a sentire cioè il contenuto del mondo “premergli contro” agendo dall’esterno, potrebbe non trovarsi in uno stato di benessere, poiché, come adulto, dovrebbe aver sviluppato determinate caratteristiche in grado di renderlo meno vulnerabile al mondo esterno.
Anche gli artisti mantengono caratteristiche di sovraesposizione nei confronti del mondo: ecco perché dovremmo cercare di limitare il nostro giudizio e concentrarci sulla pura osservazione. Tali caratteristiche, al giorno d’oggi, vengono sempre meno maturate: questo è, purtroppo, un segno dei nostri tempi. Come educatori dovremmo concentrare le nostre forze verso l’acquisizione di una coscienza delle problematicità legate a questi mancati processi di maturazione.
Concludendo, potremmo rappresentare la relazione tra imitazione ancestrale e sfera dei processi, cosí come segue espresso artisticamente dai due disegni gentilmente concessi dall’artista olandese Mieke van Vuuren-Dijkman:
La sfera imitativa è la sfera in cui viene portato a gestazione il corpo imitativo del bambino (la lemniscata inserita nel cerchio): quell’organizzazione che lo porrà, in futuro e conformemente al rispetto del principio di individualità (ossia del destino assunto), nella condizione di “danzare” nel mondo, trovando in essa quiete, rinvigorimento e quella giusta regolazione dalle impressioni esterne.
Fino a qualche tempo fa non sarebbe stato necessario parlare di tali questioni: oggigiorno la loro esposizione si rende quanto mai necessaria data la qualità e quantità delle impressioni che raggiungono il bambino, e considerata la positiva perdita di quella saggezza atavica con cui una volta i genitori erano soliti compiere o non compiere determinate azioni per via di una modalità educativa di tipo istintuale: comoda ma non libera.
La sfera imitativa e l’immagine dell’aureola
Attorno al bambino gravita letteralmente il mondo degli archetipi e delle forze formatrici. Esso è solitamente distanziato dal bambino da quella che anticamente veniva rappresentata come aureola: un cerchio la cui periferia è data dalla risultante delle forze di calore che il bambino porta con sé dal mondo prenatale. Nei primi giorni di vita del bambino potremmo immaginare quest’aureola avvolgente tutto il corpo e da esso irraggiante in modo non regolare. Con il passare del tempo questa aureola tende a individualizzarsi, i contorni diventano piú netti e definiti. Le forze di calore che avvolgono il bambino sono realmente forze di calore provenienti dal cosmo: esse incominciano piano piano a incontrare il sistema di forze operanti sul piano fisico, onde operarne una prima individualizzazione.
Il cosmo irradia sulla terra mediante la corporeità del bambino.
L’aureola inizia a delineare uno spazio circolare mutuando tra la “pressione” della Terra e quella scaturente dalle forze di calore del bambino. Le forze di calore che il bambino porta con sé dal suo passato innominale lasceranno sempre piú spazio alle forze dell’individualità – per concludere il loro compito – e dovranno “estinguersi” a sostegno del processo incarnatorio. Queste forze, quando il bambino arriva sulla Terra, sono simili a meteore estinguenti il loro calore nel processo di caduta.
Tali processi sono difficili da cogliere sul piano della pura dialettica. Johann Sebastian Bach descrive il processo di decadimento di tali forze nell’Et incarnatus est della Messa in Si minore, BWV 232 (https://www.youtube.com/watch?v=1M7FCFjvbio&feature=youtu.be). La tonalità minore e il processo discensionale della musica aiutano a comprendere, meditativamente, quel che andiamo affermando.
Questo processo di decadimento di forze cosmico-spirituali entro la materia permette la formazione della circonferenza dell’aureola. Il bambino piccolo – che giace dunque immesso entro questa circonferenza – inizia a compiere un gesto di delimitazione.
La delimitazione del bambino, in questo periodo (siamo attorno ai tre-quattro anni) è una delimitazione della sua componente astrale-eterica, di una componente eterica del corpo astrale. In questo periodo si compie una primissima regolazione della respirazione neurosensoriale.
Il mondo incontra il bambino entro e non oltre la regione caratterizzata dalla circonferenza.
Lo spazio all’interno della circonferenza è costituito tanto da queste forze eteriche che premono verso l’esterno (e che incontrano la corrente della terrestrità generando la pelle-circonferenza attorno al bambino), quanto da tutte le azioni e impressioni che incoraggiano od ostacolano la sensazione di benessere con cui l’individualità del bambino si legherà – coerentemente al suo destino – alla Terra.
Questa sfera imitativa, o aureola, è un organo deciduo, ed ha lo scopo di proteggere e sostenere la gestazione del corpo imitativo del bambino (la lemniscata presente nei disegni). Lo spazio interno alla circonferenza rappresenta una sorta di placenta collocata attorno al bambino.
Il bambino piccolo è realmente un grande organo di senso, e l’opera di mediazione con il mondo esterno è fornita dalla “qualità” di questa placenta.
Il bambino dovrebbe poter imitare – data la sua natura proteiforme – solo elementi naturali e generalmente sani: ecco perché, al giorno d’oggi, i bambini dovrebbero venir aiutati nella discriminazione del processo imitativo, attraverso la cura dell’ambiente circostante. E per ambiente circostante dovremmo intendere anche l’ambiente sociale.
Solitamente le cose sono organizzate affinché accada l’esatto contrario. Quale compito si troverebbe a svolgere l’“imitatore interiore” se venisse sovraesposto a un bombardamento di immagini virtuali, non corredate cioè di una sfera sovrasustanziale e dunque imitabile?
Il lupo delle storie è un lupo che il bambino crea con la sua capacità immaginativa; quello dei cartoni animati, invece, è un prodotto di un’altrui sfera rappresentativa. Dietro quel lupo non vi sarà piú nulla da imitare, nulla di vivente, nessuna essenzialità. L’“imitatore interiore” in casi simili si ferma, giungendo alla immobilità assoluta.
La prolungata paralisi dell’“imitatore interiore” è il grande tema sociale che oggigiorno siamo tenuti ad affrontare. Da essa derivano molte delle problematiche dei bambini e dei giovani di oggi.
Casi in cui l’imitazione del bambino si “intasa” e casi in cui l’imitazione ammala
Il bambino non può sottrarsi al processo imitativo: egli è l’imitatore. Come Proteo, il bambino abita le forme, inverandone processi e linee di forza interni. Nel bambino, ancora immesso entro un’atmosfera edenica, vita e conoscenza non sono separate. Egli imitando diviene la neve, il candore della neve e la sua levità; diviene il nonno che osserva quieto il paesaggio alla finestra e diviene tanto la quiete del nonno quanto il paesaggio alla finestra. Questo è il processo imitativo del bambino piccolo. Eppure la tragicità del bambino consiste nel tendere all’imitazione anche di immagini, impressioni e percezioni deteriori. Una sovrastimolazione di tali elementi deteriori potrebbe ‘intasare’ il sistema imitativo del bambino, potrebbe mandarlo in tilt.
Il processo imitativo si inceppa in caso di sovrabbondante stimolazione esterna (si pensi ad un continuo essere immessi nella realtà digitale, al partecipare costantemente a mille attività extrascolastiche senza aver tempo per riposare, ad una relazione continua e frequente con impressioni imitabili dal bambino…), oppure in casi di traumi e shock. In situazioni di sovraesposizione, trauma e shock (vedi immagine), la circonferenza si laminarizza mentre il corpo imitativo del bambino tenta di ricrearsi un ambiente entro lo spazio vessato.
Questi adattamenti, se da un lato mettono in salvo lo sviluppo del corpo imitativo, da un altro ne potrebbero produrre una disidentificazione con l’immagine corporea. Sono i casi – di cui non si parlerà in questa trattazione – che pongono le basi per quei problemi in cui, ad esempio, una giovinetta si osserverà allo specchio percependosi in un modo totalmente discostante dalla realtà (scorgendosi grassa anziché magra) oppure potrà non capire, osservando la propria immagine, il valore della propria bellezza.
In altri casi questa disidentificazione porterà verso una costituzione apparente del tipo debole di sensi. In realtà le impressioni provenienti dal mondo, impiegheranno piú tempo per ‘agganciarsi’ alla processualità imitativa del bambino.
Proviamo ad inserire in un estrattore un frutto in plastica o in vetro: l’estrattore svolgerà il suo compito arrivando financo a danneggiare le sue componenti interne. Questo potrebbe accadere anche al bambino piccolo.
I problemi incominciano quando i bambini smettono di imitare, poiché senza
quella processualità imitativa il bambino viene esposto interamente al
le impressioni del mondo senza alcuna possibilità di gestione. La circonferenza indicata nel disegno (vedi immagine) esemplifica la rappresentazione di tipo ancestrale (delimitante un ambiente entro cui viene formato il corpo imitativo del bambino). Questa circonferenza costituisce una sorta di involucro protettivo per il corpo imitativo in gestazione. In casi di abuso o violenza, questo “sacco amniotico”, posto a protezione del nascente corpo imitativo, può arrivare a rompersi creando gravi problematicità.
Come si sarà compreso, si può individuare nel processo imitativo tanto un processo esteriore (il bambino che giocando imita il nitrito del cavallo) quanto uno interiore (la relazione con il percetto e con processi piú sottili, musicali, dell’imitazione). Un bambino potrà anche essere impossibilitato a compiere un’imitazione fisico-esteriore (si pensi a un caso di paralisi) ma il suo “imitatore interiore” non necessariamente sarà toccato da quel che accade in ambito fisico: sono due questioni indipendenti.
Nicola Gelo (2. continua)