La visione materialistica del mondo ha condotto il pensiero moderno alla grottesca affermazione che la magnifica tragedia Amleto non sarebbe altro che gli alimenti metamorfosati che ha mangiato il grande poeta Shakespeare.
Bene, una tale affermazione potrebbe essere concepita come ironica, umoristica. Eppure, colui che pensa fino in fondo la visione animica che si è formata in seno a quella che è chiamata visione materialistica del mondo, deve per forza arrivare a questa affermazione. A dire il vero, tale visione delle cose porta fino all’assurdo la visione materialistica dell’anima. Se è dunque vero che dobbiamo considerare i fenomeni dell’anima come emanazioni dell’attività meccanica del nostro cervello allo stesso modo in cui dobbiamo capire i processi che si svolgono in un orologio in quanto derivanti dal suo meccanismo, allora non ci resta che vedere nel funzionamento degli strumenti del cervello, cosí come nei fenomeni psichici, la causa delle piú elevate espressioni dello Spirito umano.
Il filosofo tedesco Leibniz ha già trovato la giusta obiezione a questa affermazione. Ha detto questo: ci si rappresenti una volta che tutto il cervello umano sia compreso, che si conosca fino nel piú piccolo dettaglio come funzionano le sue cellule e quello che le circonda, che se ne conoscano tutti i diversi movimenti e si possa notare tutto quello che avviene nello spazio del cervello quando un pensiero, una sensazione, un sentimento s’instaurano nell’essere umano, supponiamo che questo scopo finale della scienza della Natura sia raggiunto.
Quindi, prosegue Leibniz, ci si rappresenti adesso questo cervello umano ingrandito al punto da potervi passeggiare e osservare tranquillamente i movimenti che vi si svolgono. Si ha in tutto e per tutto una macchina davanti a sé. Che cosa si vedrà? Si vedranno dei movimenti, si vedranno dei processi nello spazio. Ma ciò che non si vedrà è quello a proposito del quale l’uomo dice: sento piacere, sento pena, gioia e dolore, ho questo e quel pensiero. Ciò che l’Io umano deve considerare come il suo bene profondo, del tutto intimo, come i suoi processi ed esperienze profonde e intime, nessun osservatore di questo grande meccanismo ingrandito del cervello potrà vederlo. Per osservare quello che l’Io considera come sue esperienze in materia di sentimenti, di sensazioni e di rappresentazioni, ci vuole una tutt’altra specie di esperienza, per questo ci vuole una esperienza umana interiore, occorre fare astrazione da ogni considerazione spaziale e immergerci noi stessi nell’anima, al fine di andarvi a cercare i motivi che spieghino quello che vi avviene.
Si può chiarire tale questione in un altro modo ancora. Tempo fa ero presente quando due studenti ne discutevano fra loro. Uno era completamente materialista. Era per lui chiaro che l’uomo non è altro che un meccanismo, che abbiamo compreso l’uomo quando conosciamo le funzioni del suo cervello e quelle del suo corpo. A questo proposito l’altro disse: a dire il vero, esiste tuttavia un fatto semplice che basta esprimere per vedere chiaramente che c’è anche tutt’altra cosa di un processo che sarebbe simile a un processo meccanico. Perché l’uomo non dice: il mio cervello sente, il mio cervello sperimenta, il mio cervello ha delle rappresentazioni? Ebbene, l’uomo dovrebbe riconoscere questo fatto come una falsificazione della sua esperienza piú profonda dell’anima. Non possiamo spiegarci i processi dell’anima con un’osservazione nello spazio, come per i fenomeni esteriori. E proprio qui sta la differenza caratteristica fra i processi corporei e quelli psichici: quando vediamo qualcosa prodursi in una macchina, possiamo dirci che questa e quella parte della macchina sono in movimento, stanno agendo, e per questo fatto la macchina compie questo o quello. Non si può qui obiettare che non conosciamo ancora tutti i movimenti e tutte le funzioni del nostro meccanismo cerebrale. Perché questo è proprio il senso della risposta di Leibnitz sull’argomento, cioè che anche se ne avessimo compreso tutto il meccanismo, la vita dell’anima propriamente detta non sarebbe stata pertanto presa in nessun conto. A questo proposito non c’è che una possibilità: guardare noi stessi nel nostro essere interiore e domandarci: che cosa vi scopriamo quando lasciamo parlare il nostro Io? Che cosa scopriamo, quando non vediamo con i nostri occhi, non sentiamo con le nostre orecchie, quando invece osserviamo con la nostra anima?
Ma quando in seguito ci siamo chiariti questo punto di vista, dobbiamo anche aver chiaro il fatto che tutte le domande inerenti all’anima e ai suoi processi devono essere trattate altrettanto scientificamente e senza pregiudizi di quelle della scienza della natura. Nessun naturalista ammetterà che si possa imparare direttamente qualcosa sulla vita del cervello, sulla sua forma, con una semplice analisi chimica di una sua parte. Per farlo sono necessari altri metodi. Per questo è necessario studiare la forma di una qualsiasi parte organica, di considerarla nel suo intimo legame con il resto del mondo organico. In breve, se restiamo nel campo della semplice fisica o chimica, non siamo in grado di descrivere i processi della vita. E se ne osserviamo soltanto i fenomeni esteriori, siamo altrettanto poco in grado di conoscere i fatti della vita dell’anima.
Quali sono dunque questi fatti della vita dell’anima? I fatti fondamentali della vita dell’anima sono il piacere e il dolore. Perché ciò che proviamo come piacere e dolore, come gioia o dispiacere, è l’esperienza della nostra anima che ci è propria. Quando passiamo accanto a oggetti che ci circondano, essi fanno un’impressione su di noi. Ci dicono qualcosa a proposito del loro colore e della loro forma, anche sul loro movimento, ci dicono quello che sono nello spazio. Ma dagli oggetti stessi, non possiamo trarre niente che ci dica quello che si svolge nell’uomo quando passa vicino ad essi. Il colore di un oggetto agisce sull’occhio di uno e dell’altro. Il piacere, ma anche il dolore, che uno può provare a proposito di questo colore può essere differente, completamente differente da quelli di un altro. Quello che uno prova come piacere viene forse dal fatto che quel colore gli ricorda un’esperienza particolarmente cara, che ha provato spesso una gioia a proposito di quel colore.
Un altro può invece pensare a un’esperienza triste quando vede quel colore, ed è forse per questo che prova dolore. Queste esperienze dei colori sono originariamente proprie all’uomo. Appartengono completamente a lui solo. Nella gioia e nel dolore che si svolgono nella vita interiore si esprime l’entità del tutto particolare dell’uomo, quell’entità grazie alla quale uno si distingue dall’altro, quell’entità per cui nessuno è simile a un altro. Già questo dovrebbe mostrarci chiaramente che le forme prese dal piacere e dal dolore non possono dipendere soltanto dall’esterno, da quello che accade nel mondo dei sensi; questo ci mostra, al contrario, che alle impressioni del mondo esteriore nel nostro essere interiore risponde qualcosa che è diverso in ogni essere umano. Cosí che, dunque, ci sono davanti a noi tanti mondi interiori quanti sono gli esseri umani, e che possiamo comprendere solo dalla profondità della loro natura interiore che sono una realtà del tutto particolare, del tutto autonoma, di fronte a tutto ciò che si esprime nello spazio e nel tempo davanti ai nostri occhi e alle nostre orecchie.
La vita interiore dell’uomo si svolge nella gioia e nella sofferenza. Al piacere e alla sofferenza è legato qualcosa che, da quando l’uomo ha cominciato a pensare, ha rappresentato per lui in tutti i tempi una grande domanda, un enorme enigma. A questo è legato il destino dell’uomo, quel destino che lo spirito greco, nella sua finezza, ha avvertito come qualcosa di sovrapersonale, come qualcosa che plana al di sopra dell’uomo, che fa irruzione nell’uomo, come qualcosa che non ha nulla a che vedere con quanto merita l’individuo, con quanto ha ottenuto con le sue azioni, con ciò cui ha aspirato. Non possiamo descrivere che con asciutte e povere parole la concezione del popolo greco: un’anima che sopporta un gigantesco destino che troppo spesso schiaccia l’uomo. I destini umani sono altrettanto differenti quanto differenti sono il piacere e le pene degli uomini, e questi destini umani, come può mostrarlo una semplice osservazione comune, non hanno nulla a che vedere con quello che l’uomo, in quanto personalità, acquisisce lui stesso con il suo lavoro, conquista da solo. Quello che si definisce in senso proprio “destino” è qualcosa che si trova di là dal merito personale, al di sopra della colpevolezza personale.
Quando parliamo di colpevolezza e di merito, prescindiamo da ciò che irrompe nell’uomo, e che è indipendente dal suo proprio lavoro. Qui c’è qualcuno che è destinato fin dalla nascita a vivere nella povertà e nella miseria, e non solo per l’ambiente in cui è nato, ma semplicemente per il dono, la dote della natura, che ha ricevuto alla nascita. Là c’è quell’altro che appare un bambino fortunato, nel quale piacere e pena possono condurre molto in alto, semplicemente per il fatto che alla nascita è stato provvisto di doni piú grandi, piú notevoli di quelli dell’altro. La maniera con cui si incastrano il destino e la vita umana costituisce da sempre la grande angosciosa domanda dell’uomo pensante. Nei loro reciproci rapporti, il destino dell’uomo e l’anima umana hanno occupato poeti e ricercatori. Rispetto all’esperienza individuale dell’anima umana, quale effetto esercita il destino dell’uomo?
Nella natura troviamo un paragone al reciproco rapporto fra anima e destino. Lo troviamo in quello che incontriamo nella natura come specie, come forma specifica degli esseri viventi. Un essere vivente non ha una forma arbitraria. Ogni essere vivente ha una forma corrispondente al suo germe. È per il suo germe che un leone è un leone, la rana una rana, perché è nel germe che si trova la forza che conduce verso la forma particolare, e questa forza è ricevuta dal germe per ereditarietà dai suoi antenati. Per questo l’animale è formato in una specie particolare. Queste leggi dell’ereditarietà regnano nelle specie vegetali e animali, regnano in proporzione alle parti che hanno ereditato per poter svolgere le loro attività. Una vita è determinata dalla conformazione degli organi che sono stati trasmessi ereditariamente. Questa legge della ereditarietà è la grande legge che determina i generi e le specie nel mondo delle piante e degli animali e anche nel mondo fisico umano.
Questa legge della specie, questa legge dell’ereditarietà e dell’evoluzione è la legge del destino per le specie. Un essere individuale isolato può praticare la sua attività solo secondo quanto stabilisce la legge dell’ereditarietà. Quello che sente l’uomo come piacere e pena in rapporto al destino che regna su di lui è molto simile. Come l’animale ha ereditato dai suoi antenati la forma della sua specie, cosí troviamo l’uomo provvisto in un modo del tutto determinato di disposizioni, di segni distintivi del carattere, che determinano la misura del suo piacere e della sua pena, che ne contengono la misura, che gli attribuiscono la sua vita.
La legge della specie regna sugli animali come il destino regna sugli individui. Cosí come il naturalista moderno, se fa delle ricerche oneste, fedeli alla legge dell’evoluzione, si domanda perché quell’animale abbia un organo prensile piú lungo o piú corto, l’occhio piú o meno acuto, e non si accontenta di considerarli un miracolo, ma al contrario si dice: devo paragonare questo animale con altri animali, devo osservare come questi organi si sono poco a poco costruiti la loro forma per la ferrea legge della parentela della specie, dell’ereditarietà fra tutti gli esseri viventi, allo stesso modo il ricercatore in campo umano, nel campo dell’anima, se vuole capire la vita umana individuale, deve domandarsi: com’è la grande Legge del destino in relazione a queste vite umane individuali, come è possibile che il destino abbia regnato sulla vita individuale in tal modo da determinare tale o tal altro grado di piacere e di pena? La domanda sul legame fra l’anima umana e il destino umano è del tutto analoga alla domanda del naturalista. Una considerazione analoga ci procurerà chiarezza sulle domande che occupano gli uomini in questa direzione.
Esiste un fatto che parla con talmente tanta chiarezza su quest’argomento che al solo pensarlo a fondo, in tutti i sensi, otteniamo una risposta cosí da poterci immergere interamente in esso. Questo fatto non è osservato nello stesso modo e nello stesso senso di quanto fa il naturalista quando studia la parentela delle specie. Ciò non dipende dal fatto che esso non parla cosí chiaramente e significativamene, ma al contrario molto semplicemente perché l’umanità moderna si è abituata a trascurare questo fatto, si è abituata a non dare valore alla parola chiaramente udibile, all’esatta testimonianza di questo fatto. È vero che non si tratta di un fatto crudo e grossolano come sono i fatti che parlano ai nostri sensi esteriori.
Ma crediamo forse possibile sperare che la sottile vita dell’anima ci dia delle spiegazioni altrettanto chiare ed evidenti in merito ai processi intimi della nostra interiorità che i fatti esteriori dei sensi? Non dovremmo piuttosto presumere che le questioni che prendono corpo nella vita della nostra anima siano di una natura piú fine e sottile? È proprio come quando Galileo scoprí tanto tempo fa la grande legge dei fenomeni pendolari, quando gli si rivelò il loro senso osservando in una chiesa l’oscillazione di un lampadario, perché la legge della natura gli si manifestò in quell’istante. Ci arrivò soltanto perché seppe riunire i fatti nel giusto senso. Ma quando ci spieghiamo i fatti nel giusto senso, dobbiamo anche farvi chiarezza per quel che concerne il destino e la vita dell’anima.
Passate in rivista la serie degli animali. Troverete una molteplicità di diversi tipi e specie. Da naturalisti moderni che siete, vi spiegate queste specie per la loro parentela fra loro e per il fatto che discendono le une dalle altre. Siete soddisfatti quando avete capito che un animale superiore, piú perfetto, ha ricevuto il carattere della sua specie per il fatto che deriva dai suoi antenati, i cui organi si sono a poco a poco trasformati negli organi dell’animale che oggi sta davanti a voi.
Ma cosa v’interessa nell’animale? È fuori discussione che nell’animale ci interessiamo a qualcosa di piú del suo carattere della specie. Quando abbiamo descritto secondo le caratteristiche della sua specie un leone o un’altra specie di animale, ne siamo perfettamente soddisfatti. Abbiamo tutte le informazioni sul leone quando abbiamo compreso come vive in generale questa specie di leoni, come generalmente si attiva questa specie di leoni; sappiamo allora che in seno alla specie di leoni, la stessa cosa vale per il padre, per il figlio e per il nipote. Sappiamo distintamente che certe differenze che esistono in effetti anche nel regno animale non ci interessano al punto da dover andare a vedere ogni individuo isolato per studiarlo a parte. Sappiamo distintamente che quello che è determinante per l’animale è ciò che il padre, il figlio e il nipote hanno in comune. Il ricercatore si dichiarerà soddisfatto quando avrà compreso un qualunque esemplare della specie dei leoni.
Si deve riflettere su questo fatto fino in fondo e capirne perfettamente e chiaramente il significato. Quando si fa il paragone con il fatto che le cose sono del tutto diverse per gli uomini, si può allora indicare in poche parole la differenza fra il carattere umano e quello animale; differenza che, una volta capita, non può essere negata da alcun ricercatore naturalista; differenza cosí grande, enorme, che fa luce sulla vera entità dell’anima umana. Quello che qui ne costituisce il fondamento può essere espresso in questi termini: l’uomo ha una biografia, l’animale non ne ha.
Certo, nella natura tutto esiste solo per gradi e non si deve obiettare nulla a questo principio, perché è chiaro che si possono notare certi segni distintivi particolari di un animale e arrivare da questo a qualcosa che è simile a una biografia. Sussiste pertanto il fatto che abbiamo una reale biografia solo nel regno umano. Da questo risulta che anche se portiamo al singolo individuo umano lo stesso interesse che portiamo alla specie animale, non è indifferente per l’uomo descrivere il padre, il figlio o il nipote, mentre chiamiamo “specie” i gruppi omogenei di animali, perché hanno gli stessi segni distintivi, e li abbiamo scientificamente compresi quando abbiamo individuato la loro conformazione in quanto specie. A questo punto dobbiamo esprimere un fatto importante: ogni individuo umano è di per sé una specie. Si tratta di un principio che per piú di una persona non risulta subito evidente, che appare ai piú come una elucubrazione.
Anche se questo principio non può subito essere compreso in tutta la sua portata, a colui che lo pensa a fondo non potrà apparire che alla luce di quanto ho indicato. Con questo ci situiamo di là dall’affermazione che per lo psicologo solo il singolo individuo eminente è una prova che nell’uomo appare qualcosa di particolare, mentre la maggior parte degli uomini sono invece della stessa specie e avrebbero in fondo, e soltanto ad uno stadio superiore di sviluppo, la stessa cosa che hanno gli animali.
Oh no! Potete distinguere dall’animale l’uomo semplice, il selvaggio, per il fatto che siete coscienti che egli ha una biografia, che la sua entità non si riassume nel suo carattere della specie umana, che di lui ciò che importa è di afferrare la sua singola individualità; che non è indifferente se abbiamo davanti a noi il padre, o il figlio o il nipote. Se vogliamo procedere scientificamente, dobbiamo applicare all’uomo le stesse regole, la stessa legge che applichiamo all’animale solo per ciò che concerne il suo carattere di specie. Se non lo comprendiamo nella sua parentela e nella sua ereditarietà in rapporto ad altri esseri, dovremmo considerare come un miracolo l’animale isolato che sta davanti a noi nella sua perfetta conformazione, nella sua forma del tutto precisa. Ma se ci accontentiamo di guardarlo semplicemente, come appare davanti a noi, dovremmo considerare come un miracolo anche il singolo uomo, che è un tutto, una specie a parte con le sue particolari esperienze di dolore e di piacere.
Colui che si accontenta di lasciar esistere l’individualità umana, ciò che si esprime nella sua biografia, senza volerlo spiegare, senza distinguerlo dalle altre entità, colui che vuol lasciar esistere quest’essere senza spiegarlo, assomiglia a qualcuno che crede nei miracoli. Se ci atteniamo all’evoluzione, dobbiamo dirci questo: nello stesso modo in cui nel regno animale la singola figura umana è imparentata alla sua specie, dobbiamo ugualmente far risalire l’anima umana individuale, nella particolare forma in cui appare, ad un’altra realtà animica. Come la scienza della natura è migliorata in chiarezza da quando ha riconosciuto che la vita non può svilupparsi a partire dall’inanimato, ma che invece un germe è alla base di tutto ciò che è vivente, altrettanto vero è che oggi sarebbe considerata superstizione scientifica credere quello che si è creduto nel XVI secolo, cioè che pesci, rane e altri animali potevano svilupparsi dal fango.
Sarebbe però proprio cosí, se qualcuno volesse affermare che l’animico nasce non dallo psichico ma dal non-psichico. La scienza della natura ammette che il vivente può nascere solo dal vivente, e nello stesso modo si deve riconoscere che l’animico può nascere solo dall’animico. E nello stesso modo con cui la scienza della natura considera come credenza ingenua che la vita provenga non da un germe ma dal qualcosa di non vivente, ugualmente una vera psicologia deve considerare come un’assurdità che l’animico potrebbe provenire da qualcosa di meccanico. Sarebbe la stessa cosa che se qualcuno affermasse che l’animico potrebbe derivare da un qualsiasi ammasso di fango.
Se partiamo da questa base, dovremmo dirci quel che segue. Colui che non vuole credere a un miracolo nel campo della vita dell’anima, deve porsi la seguente domanda davanti ad ogni singola anima: da dove proviene? Dove sono le cause che, nello stato in cui si trova, fanno sí che si è data questa forma? Dobbiamo, per cosí dire, risalire dall’essere animico di un essere umano fino al suo antenato animico, come facciamo quando risaliamo dalla conformazione corporea d’un animale a quella dei suoi antenati al fine di comprendere lo sviluppo della sua specie.
Nell’ultima conferenza ho definito l’apogeo dato da Aristotele alla sua psicologia come una calamità della psicologia dell’Occidente. Ho mostrato che, per ciò che concerne il nostro mondo riguardo ai corpi, Aristotele aveva lo stesso identico punto di vista che ha anche la teoria moderna dell’evoluzione: egli poneva gli esseri in una naturale ascesa evolventesi fino al punto piú alto. Dove Aristotele parla dell’anima piú elevata, egli dice a giusto titolo esattamente la stessa cosa che abbiamo qui esposto. Lo studio della psiche non è spiegabile se si parte da quanto abbiamo imparato a conoscere come dei semplici processi della natura. Non si potrà mai comprendere l’anima come un semplice processo della natura. Per questo Aristotele, da ricercatore e pensatore onesto che era, è ricorso ad una spiegazione che considera senza mezzi termini come miracolo ogni nascita di una singola anima. Con questo egli appare come un pensatore onesto, ma che rinnega un principio scientifico in rapporto allo studio della psiche.
Quando un uomo si è sviluppato fino al punto in cui la sua parte corporea ha acquisito la forma umana, allora un’anima è introdotta in essa dal Creatore: è il solo conseguente punto di vista che si deve adottare se non si vuole decidersi a spiegare l’anima come lo fa la scienza della moderna della natura per quanto concerne le specie del regno animale. Se non si vuole cercare l’antenato animico come si cerca quello animale quando si vuol spiegare l’animale, allora si deve dire che un’anima è stata creata ed introdotta in ogni individuo umano.
A questo proposito esiste ancora un’altra via ma questa, questa scappatoia, è solo apparente. Essa è quella che ha mostrato Herbert Spencer, il grande filosofo inglese morto recentemente. Come abbiamo detto, egli vedeva chiaramente che è impossibile isolare l’anima individuale, considerarla come un miracolo. Egli dice pertanto che, per quello che concerne la vita dell’anima, dobbiamo elevarci agli antenati animici dell’uomo in questione; come egli ha ricevuto in eredità dai suoi antenati fisici la forma del suo viso, delle mani e dei piedi, allo stesso modo ha anche ricevuto in eredità dai suoi avi le sue facoltà psichiche. Herbert Spencer mette cosí completamente allo stesso livello l’evoluzione dell’anima e quella del corpo. Ma è solo una scappatoia che non può mai andare d’accordo con i fatti. Quello che si deve comprendere a partire da un’altra realtà, deve essere dedotto dalle qualità proprie di quest’altra realtà.
Certo, Goethe dice nelle Poesie : «Di mio padre ho la statura, il serio comportamento di vita, della mia mammina la gioiosa natura e il piacere d’inventare racconti». Ma se si esaminano obiettivamente i fatti, nessuno vorrà affermare che quello che costituisce la piú personale entità dell’uomo, quello che egli considera giustamente come il risultato del suo destino, sia determinato dai suoi antenati fisici nella stessa maniera in cui lo è la sua forma esteriore, perché altrimenti l’evoluzione dello Spirito dovrebbe seguire le stesse leggi che segue l’evoluzione del fisico. Ma come potremmo far derivare dai loro antenati le qualità spirituali di un Newton, di un Galileo, di un Keplero, di un Goethe?
Da dove potremmo far discendere le qualità di Schiller? Da suo padre? Schiller ha certo ricevuto la sua forma esteriore da suo padre, quello che è conforme alla specie; perché ciò che costituisce la forma esteriore è determinato dall’ereditarietà fisica, come lo è quella degli animali. Ma se vogliamo spiegare le vere qualità interiori dei differenti individui – e non è necessario essere Schiller, si può essere un qualsiasi Signor Tal dei Tali – se vogliamo spiegare quello che accade nella profondità della sua anima, quello per cui egli è proprio quell’uomo preciso da cui deriva la sua biografia, non potremo mai capirlo studiando la sua origine fra i suoi antenati fisici.
Se studiate un leone e al posto del cucciolo di leone descrivete suo padre o suo nonno, dal punto di vista scientifico sarete perfettamente soddisfatti. Ma se descrivete un uomo, dovete descrivere la sua personalissima vita. Perché la biografia del padre o del nonno è del tutto diversa dalla sua. Le biografie degli individui umani sono differenti fra loro come lo sono le specie nel regno animale.
Colui che riflette integralmente su questi pensieri non può mai considerare l’evoluzione spirituale analogamente a quella fisica. Quando vogliamo spiegare l’evoluzione spirituale, dobbiamo piuttosto ammettere che dobbiamo risalire agli antenati fisici per spiegare la natura fisica. E che l’antenato fisico non può essere contemporaneamente quello spirituale. L’evoluzione animica non va allo stesso ritmo, né allo stesso passo, di quella fisica. Se voglio spiegare un’anima, devo cercare la sua origine in tutt’altra parte che nell’organismo fisico. Occorre che essa sia già esistita, deve avere un antenato animico, come la specie animale ne ha uno fisico. Arriviamo cosí alle idee che i piú profondi psicologi di tutti i tempi hanno riconosciuto come proprie, e che considerano nel vero senso del termine, in un senso scientifico, l’essenza dell’anima. Colui che penetra in questa essenza dell’anima con tutta l’energia dell’impulso di ricerca – per esempio potete osservarlo in un chiaro esposto della Educazione del genere umano di Lessing – arriva ad ammettere che, per ogni anima si deve risalire ad un’altra anima. E cosí arriviamo alla legge dell’evoluzione dell’anima, arriviamo alla legge della reincarnazione.
Rudolf Steiner (1a Parte)
Dalle annotazioni di uditori presenti alla conferenza di Rudolf Steiner.
Berlino, 23 marzo 1904 ‒ O.O. N° 52. Traduzione di Angiola Lagarde.