È il 24 agosto dell’anno 79 dopo Cristo. Sedici giorni prima, c’è stata una scossa di terremoto, terrae motus come dicono i pompeiani, che però non ha impressionato piú di tanto la popolazione, abituata ai capricci del vulcano. Taverne, terme, lupanari e termopoli, hanno lavorato al ritmo consueto, fornendo quel gaudium vitae per cui la città è rinomata e frequentata. Ricca, disinibita, permissiva, cosmopolita, Pompei ha portato nell’austero modus vivendi dei Romani, che l’hanno conquistata nell’89 a.C., quel “veleno greco” in cui Catone ravvisava l’inevitabile degrado dei costumi dell’Urbe. Ma tutte queste considerazioni morali non hanno toccato piú di tanto la joie de vivre di una città dove tutti i cittadini dell’impero si sentono a casa, dove tutte le merci e i prodotti dei paesi soggetti sono reperibili, dove ci sono templi in cui si adorano tutte le divinità, da Astarte a Ra, da Bal alla Magna Mater, da Dioniso a Iside.
Ecco, è proprio una profantide, una sacerdotessa del culto di Iside, che in quel giorno di agosto, insieme alla corrotta città, chiude il proprio destino. Alcionea, questo il suo nome, è un’anima pura, uno spirito eletto, che ha portato dall’Egitto, con Memnone, suo padre, gran sacerdote della dea, la chiave dei Misteri, per addolcirne, con un culto ieratico, solare, femminile, il rigido, troppo virile e marziale culto riservato alle varie divinità capitoline, Ma i sacerdoti di Giove non hanno gradito e hanno fatto chiudere il tempio di Iside, imprigionando il gran sacerdote Memnone e gli altri officianti. Alcionea, per le sue virtú profetiche, quindi intoccabile, è stata aggregata alle pitonesse del tempio di Apollo.
Quel giorno fatale, il corteo delle vergini pizie, con vesti candide, muove dal tempio di Apollo per deporre serti di alloro ai piedi del console Ombricio Rufo e di Edonia Metella, che celebrano il loro matrimonio nella città in festa. I banchetti e le danze durano tutta la notte, e nel circo e nel teatro sono previsti spettacoli offerti dagli sposi, lui eroe di guerra e massima autorità di Roma, lei di una ‘gens’ tra le piú ricche e potenti della città. Ma ecco la festa nuziale trasformarsi in dramma: Alcionea, dai gradini del tempio di Giove, parla alla folla festante rivelando il suo amore per Ombricio, prima ricambiato dal console e poi tradito insieme al ripudio del culto e dei misteri di Iside ai quali lei lo aveva iniziato.
Per il troppo dolore, la giovane muore. Il senato decreta che venga bruciata su un rogo d’onore, di espiazione per la città. Ma gli Dei non ascoltano. Un boato annuncia l’eruzione del Vesuvio che seppellisce Pompei, Ercolano e Stabia sotto una coltre di lapilli e cenere. Ombricio e Metella finiscono inglobati come tanti in un calco di cenere pietrificata, e cosí verranno trovati secoli dopo. Si salvano quelli che fuggono verso il mare, se non capita loro la sfortuna di essere colpiti dai lapilli, come Plinio il Vecchio, che incrocia su una galea militare per studiare da vicino l’eruzione.
Mnemone e i devoti isiaci, liberati dai guardiani, si imbarcano sulla trireme dei discepoli della scuola pitagorica di Elvidio. Questi ha preservato un’urna di bronzo contenente il fuoco dell’altare sacrificale del tempio, per il focolare da fondare nella nuova patria. Mnemone ha salvato in un cofanetto di legno di palma i libri di Ermete e l’immagine di Alcionea, incisa a vivo nel proprio cuore. La nave si fa largo con la spinta dei remi in un mare infuocato dai getti del vulcano. Un vero inferno, un abisso orrendo, e la volta del cielo color pece, salvo nei guizzi di lampi sulfurei che lo squarciano.
Sulla tolda, ai banchi di voga, si prega, si cantano inni propiziatori. Quando la trireme sfiora le rocce a picco dell’isola di Capri, superandole, il cielo si rischiara, il sole ritorna a brillare. Si alzano le vele. Nella luce bieca, si profila l’apocalisse: il golfo, le città, la gente, tutto passato all’encausto, obliterato. Ma lui, il Vesuvio, impassibile, fuma, covando future catastrofi.
Elideo Tolliani