Conoscere i Vangeli

Spiritualità
Conoscere i Vangeli

La legge del karma nei Vangeli
Il giardiniere del karma

L'azione del karma contro il male

L’azione del karma contro il male

Partiamo dall’India. Nella prima fase della religione indiana, la fase in cui vennero scritti i testi sacri dei Veda, la parola karman (o karma, secondo l’uso occidentale), derivata dal verbo sanscrito kr, «fare, agire», indicava l’azione sacra per eccellenza, cioè il sacrificio rituale, l’azione intesa come opera umana rivolta al divino. Quando però il sacrificio e il rito si cristallizzarono in formule fisse e stereotipate, quando l’azione rituale si svuotò del suo contenuto sacro, il termine karman passò a indicare l’a­zione morale, buona o cattiva, che ciascuno compiva. E come l’azione rituale serviva a congiungere, ad annodare legami liberi fra l’uomo e il Mondo spirituale, cosí l’azione umana, l’azione morale, fu vista come capace di annodare legami fra uomo e uomo secondo la legge di causa ed effetto che presiede alla nostra dimensione materiale secondo la legge del karma. Questa azione buona o cattiva – si diceva – attende ogni volta una retribuzione: ha «sete del frutto», dicono gli indiani. Fu la casta sacerdotale dei brahmani a rivelare tutta la forza dell’idea della reincarnazione. E la storia stavolta non è stata avara di testimonianze: ci ha infatti conservato il primo documento sulla reincarnazione in una pagina della Brhad-aranyaka-upanishad (III, 2, 13), una delle piú antiche Upanishad (VIII-VI secolo) che riporta un dialogo fra due saggi. Leggiamo questa pagina.

«“Yajñavalkya, quando la voce del morto entra nel fuoco, il suo respiro (prâna) nel vento, la sua vista nel sole, la sua mente nella luna, il suo udito nei punti cardinali, il suo Sé nell’etere, i peli del corpo nelle erbe, i capelli del capo negli alberi e il sangue nell’acqua, che ne è dell’uomo?”.

“Da’ qui la tua mano, amico Artabhaga, noi due soli possiamo essere a conoscenza di queste cose! Non una parola di ciò in pubblico”.

Ed essi uscirono e parlarono fra loro; e se di qualcosa parlarono, del karma essi parlarono, e se qualcosa esaltarono, il karma essi esaltarono, poiché buoni si diventa per le azioni buone, malvagi per le malvagie».

Chi scrisse queste parole parlava del karman in modo guardingo, consapevole forse di riferirsi a una dottrina segreta, gelosamente custodita dalla casta brahmanica: la rinascita in una nuova esistenza, quindi la personalità futura, verrà determinata dal tipo di vita morale che si è vissuta nella vita precedente, da come ci si è attenuti al Dharma, al codice d’onore della casta di appartenenza.

Gli hindu distinguono tre tipi di karman:

1. sañcita-karman: il vasto deposito delle opere accumulate nel passato i cui frutti non sono ancora maturi. Parte di questo karman dà luogo alle tendenze, inclinazioni, attitudini, desideri della vita presente.

2prârabdha-karman: la parte di sañcita che fruttifica nel presente. È responsabile del nostro corpo.

3. kriyamana o âgamin: è il karman che ognuno di noi si prepara per il futuro.

La vita divinaChi è che sceglie – si son chiesti gli hindu – la piccola parte del sañcita che deve fruttificare in questa vita? Chi è il progettista? Gli indiani hanno risposto in vari modi. Šankara, il grande filosofo indiano del Vedânta, sostiene che è lo stesso meccanismo karmico che decide: diventa effettuale (prârabdha) il karman piú intenso e piú recente, il karman piú maturo; resta invece latente il karman antidotato da effetti karmici opposti. Maestri piú recenti, come Shrî Aurobindo, confermano questo punto di vista espresso da Šankara e nel suo capolavoro La Vita divina afferma: «L’uomo è ciò che egli si è fatto; l’uomo del passato è il padre del­l’uomo del presente, e questi è il padre dell’uomo futuro. Ogni essere raccoglie ciò che ha seminato; ha in sorte ciò che ha fatto; e soffre anche ciò che ha fatto. … L’uomo è il creatore di se stesso, è anche il creatore della sua propria sorte». Il karma – continua Aurobindo – non consiste nel fatto che funzioni come una legge meccanica, ma che l’esperienza di quella vita conduca l’uomo fuori dall’Ignoranza. Il karma, allora, è uno strumento nelle mani della Coscienza superiore, che è un fattore molto piú importante del karma stesso.

Un altro guru moderno, Ramana Maharši, sostiene invece che gli esseri hanno il dovere di sopportare il karman, mentre è Išvara, il dio personale, che si occupa di creare il migliore dei karman per ciascuno di noi: Dio manipola i frutti del karman, senza aggiungere o togliere nulla. Išvara sceglie dal subcosciente ciò che meglio favorirà l’evoluzione spirituale di ogni uomo. Nulla è arbitrario. È una risposta di tipo teista.

BuddhaPur nel suo apparente automatismo, dice Šankara, il karman non opera da solo: dall’alto, estraneo al karman, c’è Dio, Išvara, il dio personale, lo Spirito disincarnato, «l’archetipo dello yoghin» (Mircea Eliade) che – essendo gli atti karmici pari a dei legami privi di consapevolezza – fa in modo che tutto vada a buon fine, che il progetto funzioni, ma solo per quanto riguarda il pareggio delle azioni passate, non la valutazione morale delle azioni presenti. Il Dio di Šankara non è interventista, ma è piuttosto un testimone distaccato, che chiede all’anima umana di distaccarsi anch’essa dall’illusione (mâyâ), per salire al piano superiore dello spirito. Esperienza conclusiva dell’anima indiana è che l’uomo raccoglie i frutti dei semi che in passato ha piantato: l’uomo è giardiniere di se stesso.

Per il buddhismo il karman è, ancora piú chiaramente, un meccanismo. Il buddhismo è una religione interamente sorta all’insegna del karma e non all’insegna della reincarnazione, come voleva la teosofia. Dice infatti il Buddha: «O monaci, io non insegno che il karman» (Mahâvastu); oppure «Io affermo che gli esseri sono possessori del karman, lo ereditano, hanno origine dal karman e nel karman hanno il loro fondamento. È il karman che distingue gli esseri» (Mahâkarmavibhanga). Il karma è per il Buddha un atto della volontà, un moto del pensiero, che, una volta accesosi, si realizza attraverso la mente, la voce o il corpo. Ma, quel che piú conta, in quanto espressione della volontà esso non è sterile, anzi genera un frutto, destinato a maturare al tempo opportuno. Il karma è insomma, secondo il buddhismo, una norma ineluttabile, cui l’uomo non può sfuggire. Si legge infatti in molti testi canonici che «gli atti karmici non periscono, anche dopo centinaia di milioni di periodi cosmici. Quando si creano le condizioni e viene il tempo opportuno, essi fruttificano per il loro autore» (Le Traité de la Grande Vertu de Sagesse de Nâgârjuna, Lovanio 1966). Questa vastità del karma, questa sua ineluttabilità sono ricordate dal Buddha con parole celebri in tutto l’Oriente: «La trasmigrazione degli esseri non ha né principio né fine. Principio non si vede, a partire dal quale gli esseri, offuscati dall’ignoranza, vincolati dalla brama, errano di migrazione in migrazione. È difficile trovare un essere che, nel corso del lungo cammino della trasmigrazione, non abbia pianto e versato piú lacrime di quante gocce d’acqua ci siano nel grande oceano; è difficile trovare un essere che non sia stato vostro padre, vostro fratello, vostra sorella o vostro figlio» (Samyutta Nikâya, II). Anche per il buddhismo, dunque, l’uomo è giardiniere di se stesso. Il devoto buddhista e il saggio hindu hanno sempre soddisfatto la loro sete di immortalità guardando all’infinita durata del karman come all’altra faccia del dio Išvara, all’altra faccia del Nirvana.

 

CabalaLa religione ebraica ha sempre rifiutato l’idea della reincarnazione. Ciò però non ha impedito che quest’idea fosse presente nelle correnti esoteriche ebraiche della Qabbalah, la tradizione mistica ebraica, che fiorí in Spagna e in Francia dopo il X secolo. La Qabbalah ha affrontato il tema della reincarnazione in vari testi, dal Sefer Bahir allo Zohar, fino al Libro della trasmigrazione delle anime di Chayyim Vital, che espone le teorie del grande qabbalista Isacco Luria (1534-1572). Il principio della trasmigrazione (ghilgûl) viene anche tradotto con la parola metemsomatosi, che significa «incorporazione». Si ha quando l’anima, pur restando la stessa, cambia vari corpi, senza però entrare in corpi animali.

Nel libro Bahir (195) si legge: «Perché quel giusto è felice e quell’altro è infelice? Perché quest’ultimo si era comportato come un uomo malvagio nel passato: cosí ora viene punito». La prima formulazione dell’idea di trasmigrazione dell’anima risale ad Anan, autore del Libro delle luci; a lui si deve nell’VIII secolo lo scisma fra qaraiti e rabbaniti. Anan era di Babilonia e doveva aver conosciuto tradizioni ebraiche molto antiche, ma sfortunatamente le sue idee in merito ci sono note soltanto attraverso le confutazioni di Qirqisani. Benché costituisca un precedente dell’idea di reincarnazione prima della Qabbalah, vi è da dire che quest’ultima non riprese gli argomenti di Anan. Il libro Bahir è il primo libro qabbalista che, pare, prenda a prestito quest’idea dai Catari, perché essi consideravano una “caduta” la discesa in un vita, mentre per il Bahir la discesa di nuove anime è un premio dato a Israele per le sue buone azioni, affinché queste nuove anime preparino l’avvento del Messia.

Per lo piú nelle prime scuole qabbalistiche (scuola di Gerona) ci si richiamava all’idea di trasmi­grazione per spiegare problemi che oggi diremmo di bioetica: la sterilità femminile, per esempio, deriverebbe dal fatto che un’anima maschile è rinata in un corpo femminile oppure il figlio nato dal levirato (unione di vedova con cognato) sarebbe la reincarnazione del primo marito. Nella scuola di Gerona, precisamente nella scuola di Shelomò ben Adrèt, si riteneva che un’anima potesse essere presente in vari corpi e ci si rifaceva a quest’idea per spiegare l’interrogativo posto dalla resurrezione dei morti: ovvero, se un’anima che è rinata varie volte risorge alla fine dei tempi, quale è il corpo che gli appartiene? Questa scuola risponde: ogni corpo risuscita ed è animato da scintille della stessa anima. L’idea di ghilgûl si diffonde due o tre generazioni dopo il Bahir, tanto che Nahmanide (1194-1270) interpreta le sofferenze di Giobbe come derivanti da una esistenza precedente; ma si diffonde anche il principio (Ezrà ben Shelomò di Gerona) che anche i Giusti possono ritornare in nuovi corpi, non per scontare vecchie colpe, ma per la salvezza del mondo.

Pieter Lastman «Giona e la balena»

Pieter Lastman «Giona e la balena»

Lo Zohar è la grande enciclopedia della Qabbalah (o Kabbalah). Esso insegna che l’anima è formata da tre parti, nefeš, ruach, nšamah (NaRaN), equivalenti rispettivamente al corpo eterico (energetico), al corpo astrale, al Sé spirituale. E come è tripartita l’anima, cosí è tripartita la destinazione dell’anima umana nel post mortem. La Bibbia narra la vicenda di Giona, nell’omonimo libro. Come lo interpreta la Qabbalah? Lo Zohar vede nella narrazione di Giona tutta un’alle­goria dell’incarnazione e del distacco dell’anima dal corpo. Giona s’imbarca: è l’anima che s’imbarca quaggiú per attraversare l’oceano della vita, sul quale la barca è guidata dallo spirito del bene: il nocchiero. Giona cade addormentato in fondo alla nave e il nocchiero gli dice: «Alzati!»: è l’anima che pecca e cade malata, e a lei lo Spirito dice: «Fai penitenza!». Giona viene gettato in mare: quando poi l’uomo muore, l’anima si separa dal corpo. Il pesce che inghiotte Giona è la tomba, e le viscere del pesce sono lo še’ol. Giona resta nel ventre del pesce per tre giorni e tre notti. Dal terzo fino al trentesimo giorno le membra del corpo (arti, occhi, piedi…) vengono giudicate; ma anche l’anima (nefeš) viene giudicata negli stessi trenta giorni, durante i quali resta quaggiú e non sale in alto. Poi l’anima si leva e il corpo si decompone nella terra e vi resta fino al giorno in cui Dio resusciterà i morti. (Zohar II, 19a-19b). Mentre gli elementi che formano il corpo cominciano a lottare fra loro (Zohar I, 218 b) l’anima del giusto cambia involucro (Zohar I, 65 b). Al corpo composto dei quattro elementi si sostituisce la nuvola formata dai quattro venti: una nuvola che ha la stessa forma del corpo terrestre (Zohar II, 13 b): è lo stesso corpo celeste che l’anima animava prima della sua discesa sulla terra (Zohar II, 150 a).

1. L’anima del peccatore non possiede un corpo celeste (nšamah) prima di nascere alla vita umana, pertanto se non fa penitenza nel mondo quaggiú è destinata a ritornarsene nuda com’era al suo arrivo. Il suo castigo è l’inferno (gehinnom), che però non è eterno: basta che il peccatore abbia avuto anche soltanto l’intenzione di pentirsi, perché l’anima non sia condannata per sempre (Zohar II, 150 b)

2. Al momento della morte, l’anima del giusto ritorna a essere ciò che era prima di discendere sulla terra (corpo di gloria) e ritorna a contemplare la Luce Divina

3. Altre anime – e sono la maggioranza – subiscono alcuni mesi di geenna («flutto di fuoco», Zohar II, 209-212), poi dalla grazia di Dio ottengono di ritornare sulla terra: è il ghilgûl, la migrazione delle anime (che mutano soltanto i corpi). Si legge infatti nello Zohar: «Il Santo, sia benedetto, pianta le anime quaggiú: se prendono radice, bene, se no le strappa, anche parecchie volte, e le trapianta, finché prendono radice. …Felice l’anima che non è piú obbligata a tornare in questo mondo, per riscattare gli errori commessi dall’uomo che essa animava» (Zohar I, 187b-188a).

«Le trasmigrazioni sono inflitte all’anima come punizione e variano secondo la sua colpa. “Se tu acquisti uno schiavo ebreo, lui ti servirà per sei anni e al settimo ritornerà libero senza darti nulla” (Es. 21, 2). Lo schiavo che servirà per sei anni designa l’anima. Ogni anima che si è resa colpevole durante il suo passaggio nel mondo quaggiú, è per castigo condannata a trasmigrare tutto il tempo necessario per accedere al sesto grado della regione da cui emana. Quanto alle anime che emanano dalla Šekinah [che costituisce il settimo grado], non sono assoggettate al ghilgûl, poiché è detto: “E al settimo ritornerà libero”» (Zohar, II 94a).

Secondo lo Zohar il ghilgûl viene inflitto nel caso di offese alla procreazione, oppure quando non si obbedisce al primo comandamento. L’anima, in tali casi, è condannata a rinascere fino alla completa purificazione. La trasmigrazione sarebbe dunque una condizione di purgatorio terreno, una nuova prova per migliorarsi. In pratica, dice Hayyim Vital, l’uomo viene fatto reincarnare da Dio affinché santifichi tutte le sue azioni, tutti i suoi gesti, affinché riesca ad adempiere tutti i comandamenti, che per gli ebrei sono 613 (248 positivi che redimono i 248 organi; 365 proibitivi che purificano i 365 vasi sanguigni).

Yonassan Gershom

Yonassan Gershom

Secondo la Qabbalah, dunque, non è l’uomo il giardiniere di se stesso, ma è Dio il vero giardiniere delle anime. E qui ritorniamo all’immagine biblica del Dio creatore, che è già alle origini giardiniere, perché costruisce un giardino in Eden. Dio è giardiniere dell’uomo, coltiva l’uomo, lo lascia libero di crescere o di avvizzire.

L’idea della reincarnazione, l’idea dell’esistenza di ripetute vite terrene, oggi si sta diffondendo moltissimo, soprattutto grazie alla diffusione in Occidente delle filosofie orientali. Ma non solo. In America c’è un rabbi hassidico (Breslover), un seguace della Qabbalah, che ha di­vulgato – attraverso due libri (Oltre le ceneri: casi di reincarnazione dall’Olocausto, A.R.E. Press 1992, e Dalle ceneri per guarire, A.R.E. Press), attraverso una serie di conferenze e, infine, grazie a Internet – una sua personale teoria, suffragata da una ricca documentazione. Questo rabbi di Minneapolis (Minnesota), che si chiama Yonassan Gershom, ha raccolto centinaia di casi di uomini e donne americani che attestano di avere precisi ricordi di una loro vita recente vissuta nelle comunità ebraiche dell’Est europeo e rammentano persino episodi vissuti nei Lager nazisti. Dice Gershom: si tratta di anime ebraiche perite nell’Olocausto, che si sono reincarnate come ebrei e perfino come non-ebrei; queste persone morirono, dice il rabbi, col pensiero: «Devo ritornare in vita per raccontare al mondo ciò che ho vissuto». Cosí si spiega il fatto che tutte queste persone sono attratte da simpatia verso il rituale ebraico, la pratica della religione ebraica. Ecco come la teoria della reincarnazione viene invocata oggi anche per spiegare i fatti storici recenti.

 

Reincarnation and KarmaL’Antroposofia in Occidente, fondata da Rudolf Steiner, in modo autonomo dalle religioni orientali o dalla mistica ebraica, sostiene la teoria della reincarnazione. L’uomo è giardiniere di se stesso o è Dio il giardiniere dell’uomo? Anche Steiner si pone questa domanda, e in alcuni libri come Teosofia, La saggezza dei Rosacroce, Le manifestazioni del karma cosí risponde: l’uomo è sí giardiniere di se stesso, ma il progettista del suo karma è l’Io superiore, il Sé spirituale, che è incarnato nell’uomo, anche se ancora soltanto potenzialmente operante. Dobbiamo ancora imparare ad agire secondo l’Io superiore.

La dottrina del karma, quale la intende Rudolf Steiner, si differenzia dalle interpretazioni che ancora oggi ne danno l’induismo e il buddhismo, perché l’ “atto karmico” è inteso non soltanto come gesto individuale che viene a controbilanciare i fatti del passato, ma anche come azione che si inscrive nel karma della Terra e che pertanto prepara il futuro. Partiamo dal rapporto fra karma e libertà. Dal momento che le cause che determinano gli eventi dell’esistenza presente permangono in una vita passata, come può l’uomo dirsi libero? O, per meglio dire, in che cosa l’uomo è libero se è costretto per karma a eseguire certe azioni? Nel primo volume delle Considerazioni esoteriche su nessi karmici (Editrice antroposofica, Milano 1985) Steiner risponde con un esempio: un uomo decide di costruirsi una casa e una volta pronta ci va ad abitare, anzi non può far altro che andarci ad abitare. Ammettiamo che egli stesso non ricordi di aver voluto quella casa e che addirittura senta come una privazione di libertà il fatto di doverci abitare; ciò non toglie che, dentro la sua casa, sarà libero di vivere come vuole, in modo saggio oppure in modo dissoluto. Con ciò si vuol dire che l’uomo, pur circondato dalle necessità karmiche, è interiormente libero, o meglio è libero in una specifica zona: il pensare. Grazie al pensiero egli può prendere coscienza del giusto ordinamento del proprio karma. Conclude Steiner: «Non accadrà mai che dissenta dal karma chi lo conosce davvero, anzi diviene libero appunto mercé l’assolvimento dei propri compiti karmici».

Il progettista del karma ha un nome: è l’Io superiore, un frammento dell’«Io Sono» incarnato dal Cristo e donato da Lui a ciascun essere umano. Il Cristo è secondo Steiner il discrimine dell’evoluzione, l’incarnazione stessa dell’Amore. «Ora nel luogo in cui era stato crocifisso», dice il Vangelo di Giovanni, «vi era un giardino e nel giardino un sepolcro nuovo…». Il Cristo risorge in un giardino e come giardiniere appare a Maria di Magdala. Il Cristo è il giardiniere venuto a operare sul karma della Terra per trasformarla in un Cosmo dell’Amore. Un frammento del grande Io del Cristo è in noi a tessere il nostro karma individuale per inserirlo in questo grande progetto di redenzione.

 

Cristo giardiniere

Cristo giardiniere

La reincarnazione nei Vangeli. Si è tentato piú volte di rintracciare nei Vangeli l’idea della reincarnazione, l’idea delle ripetute vite terrene, ma vi è da dire che poche sono le tracce di questa credenza. Perché? Forse perché quest’idea era estranea al cristianesimo dei Vangeli? Per poter comprendere bene gli aspetti di questo problema occorre fare una distinzione: distinguere fra karma e reincarnazione.

La reincarnazione indica, nelle varie tradizioni, il viaggio che l’anima compie dopo la morte e quindi la successiva rinascita. Sulla terra tocchiamo con mano la realtà della reincarnazione solo in pochi casi. Ci capita quando ci troviamo di fronte ai fenomeni estremi dell’esistenza, di fronte alla nascita, alla morte, all’incontro con l’altro. Se ci nasce un figlio o muore uno dei nostri cari, allora evochiamo il principio della preesistenza dell’anima, dell’immortalità dell’anima. Il bambino è per i genitori l’incarnazione di un’anima alla quale essi talvolta si sentono legati da sempre, con la quale “si riconoscono”; mentre di fronte a un vecchio genitore che muore ognuno di noi si augura che possa continuare a vivere sotto altra forma e che infine ci si possa rincontrare. Il mistero della vita e della morte è l’oggetto della dottrina della reincarnazione: quando insomma pensiamo alla reincarnazione pensiamo non solo al cammino dell’anima nell’aldilà, ma anche al ritorno dell’anima quaggiú, per evolversi ulteriormente. Rudolf Steiner ha spiegato dettagliatamente la natura del viaggio dell’anima umana: con la morte l’anima si spoglia del corpo fisico, poi del corpo eterico (o energetico), infine del corpo astrale. Una certa parte del cammino dell’anima nell’aldilà è impegnata nella purificazione del corpo astrale, cioè delle sue passioni, dei suoi impulsi, delle sue emozioni: l’anima rivive ciò che ha causato ad altri, mettendosi però dall’altrui punto di vista, sperimenta le offese o il male fatto ad altri, cosí come gli altri lo hanno sperimentato. Cosí prepara il pareggio dei suoi errori nella regione chiamata Kamaloka, Regione dei desideri: un pareggio che però può realizzarsi soltanto nella vita successiva. Questo dimostra che per chi crede nella reincarnazione l’aldilà non è mai una dimora definitiva, ma sempre un purgatorio, come purgatori sono del resto tutti i cosiddetti inferni buddhisti.

 

 Il caso di Elia e Giovanni. C’è un solo caso davvero evidente di reincarnazione nei Vangeli, ed è relativo alla profezia biblica (Ml 3, 23: «io vi manderò il profeta Elia prima del grande giorno del Signore») secondo la quale poco prima che il Messia discenda sulla Terra verrà il profeta Elia ad annunciarlo. Il Cristo, in diversi luoghi, attesta che Giovanni Battista non è altri che Elia (Mt 11, 14: «Giovanni … è quell’Elia che deve venire»; 17, 12: «Elia è già venuto e non l’hanno riconosciuto; anzi l’hanno trattato come hanno voluto. …Allora i discepoli compresero che egli parlava di Giovanni il Battista»; Mc  9, 13). Possiamo anche pensare che a quel tempo la fede popolare ammettesse in qualche modo l’idea della reincarnazione, come pare confermare Mc 6,14: «Giovanni il Battista è risuscitato dai morti e per questo il potere dei miracoli opera in lui – si diceva». Questo potrebbe chiarire come mai nelle correnti mistiche medievali del successivo giudaismo, ovvero nella Qabbalah, ritorni in auge l’idea della trasmigrazione delle anime o ghilgûl.

 

KarmaLa legge del karma e il Discorso della montagna. Diverso è invece il principio di karma, nel quale ci imbattiamo quotidianamente, in ogni momento della nostra vita. Il karma indica la legge di causa ed effetto, per cui le conseguenze delle azioni buone o cattive ritornano su chi le ha compiute, perché in qualche modo egli rimedi all’errore. Il karma è la legge che regola l’agire e per cui la reincarnazione si compie. Questa legge, in parole povere, insegna che si diventa ciò che si pensa, che l’essere umano, da una vita all’altra, è il frutto dei suoi pensieri; per questo motivo i buddhisti hanno sempre insegnato che l’azione karmica è in fondo un atto della volontà, una volizione, un effetto del desiderare e del volere (cetanâ).

Ciò che noi pensiamo in questa vita, ciò a cui noi pensiamo in cuor nostro, ciò che noi attualmente coltiviamo nei nostri pensieri, questo saremo nella prossima esistenza, questo diventeremo in concreto, sul piano fisico. Ciò che in una vita precedente abbiamo vissuto sul piano del corpo astrale, sul piano delle nostre passioni o aspirazioni interiori, tutto ciò nel periodo fra morte e nuova nascita viene a configurare una nuova compagine eterico-fisica, una nuova personalità.

Reincarnazione

Reincarnazione

Ma perché a certi popoli questa verità spirituale è stata data e ad altri no? Perché nella religione hindu e buddhista la reincarnazione è un principio basilare, mentre nei Vangeli non lo è? Anche Rudolf Steiner si pose questa domanda nel suo commento al Vangelo di Luca, e cosí rispose al quesito: «I Vangeli furono dati prematuramente …al­lora non si poteva comprendere la tecnica del karma. Cosí la reincarnazione e il karma non furono insegnati allora sotto forma di dottrine astratte, ma nelle anime umane furono riversati sentimenti tali da renderle gradualmente mature per accogliere la dottrina della reincarnazione e del karma. Ciò significa che a quell’epoca si dovette comunicare solo ciò che poteva condurre gradualmente alla comprensione della dottrina della reincarnazione e del karma, e non la dottrina stessa».

Possiamo dire che il Mondo spirituale, la Saggezza del Mondo spirituale, ha dato all’uomo una pluralità di vie interiori per evolvere e perfezionarsi: a seconda del grado coscienziale di ogni essere umano o di ogni popolo, a seconda delle disposizioni e delle tendenze, la saggezza universale ha concesso vie spirituali e cammini religiosi. Agli Indiani, assai portati alla contemplazione, fu data l’idea della reincarnazione come chiave di volta dell’universo, legge che abbraccia la nostra esistenza terrena con l’infinità del cosmo, in un cammino infinito di purificazione. La legge della reincarnazione fu la carta topografica per non smarrirsi nella contemplazione dei mondi spirituali.

Il buddhista persegue il superamento del karma, della sete di vita, del desiderio e degli attaccamenti al sensibile attraverso la retta meditazione, attraverso il distacco immaginativo dalle passioni, attraverso l’intuizione dell’insostanzialità dell’io e del mio, ma soprattutto attra-verso la scoperta della zona di luce che aleggia e gradualmente si incarna nel pensare. Potenza dell’immaginazione.

 

Le parabole del Cristo e le similitudini del Buddha. Cosí si legge nel Dhammapâda, il vangelo del buddhismo: «Come lago profondo, limpido, chiaro, il saggio si calma nell’udire la Disciplina» (82); «Di chi libero si nutre di vuoto senza immagini mentali l’orma è difficile da co­noscere come di uccello nel cielo» (93); «A chi è tollerante come la terra …a chi è di retta condotta, come lago montano libero da fango, per un tale uomo non vi è piú rinascita» (95); «Terso, puro, sereno, calmo come la luna, chi ha estinto il piacere, io chiamo brahmano» (413). Queste similitudini immaginative offerte dal Buddha, per la scelta stessa dei motivi (lago, spazio, luna), suscitano nel contemplante una quieta e attenta consapevolezza, quel raccoglimento della immaginazione che secoli dopo il poeta Šântideva riassumerà nel pensiero di meditazione: «Io me ne sto immobile come un tronco».

Nei Vangeli la similitudine perde il suo aspetto di statica analogia e diventa immagine creatrice, immagine dinamica. Il Cristo infatti dà una nuova vita al genere semitico del mašal. In Matteo 13, 31-32 dà l’immagine dello Spirito, dell’Io umano (regno dei cieli) come qualcosa che cresce e che lievita, qualcosa che, anche se piccolo seme, è già una forza. Anche il Cristo offre dunque temi di meditazione, immagini meditative, ma esse hanno forze e contenuti diversi da quelli buddhisti: le parabole della crescita indicano che è nato nell’uomo un elemento destinato a ingrandirsi. Questo cammino non è soltanto immaginativo ma è un cammino che vuole ispirare una nuova via dell’azione. Un nuovo karmayoga, per usare un termine indiano.

Il Cristo, infatti – come anche alcuni pii maestri ebrei del I secolo a.C. – addita non la via della retta immaginazione, ma soprattutto la via dell’azione giusta, dell’azione pura, in modo da non accumulare nessun fardello di peccati, anzi in modo da liberarsene. «Tutto quanto volete che gli uomini facciano a voi, anche voi fatelo a loro. Questa è la Legge e i Profeti» (Mt 7, 12). Il Cristo insegna a sperimentare l’azione, il contenuto dell’agire, dall’altrui punto di vista, dal punto di vista dell’altro. «Anticipa qui sulla terra, segui qui ciò che seguirai nel Kamaloka», sembra dire il Cristo all’anima umana. Ci sono leggi che appartengono al clima di un’epoca, allo Zeitgeist: c’è qualcuno che le intuisce, le coglie sul piano immaginativo, poi c’è qualcun altro che le scopre del tutto, le applica nel concreto. La legge spirituale enunciata dal Cristo era già stata intravista intorno al 20 a.C. dal rabbi Hillel, che l’aveva cosí formulata in versione negativa: «Ciò che spiace a te, non farlo a nessun altro» (b.Shab. 31a). Questo aveva risposto Hillel al pagano che, desideroso di convertirsi, gli chiese di comunicargli tutta la legge nel lasso di tempo in cui lui sarebbe riuscito a reggersi su una gamba sola.

Imitazione di CristoNel testo talmudico Le lezioni dei padri (Pirqé Avoth) – che è un po’ il compedio della fede ebraica, ciò che è l’Imitatio Christi per un cristiano – questo mite dottore della Legge che predicava l’amore per il prossimo (1, 12), insegna ad agire «senza attendersi una ricompensa», agire per amore. Dice infatti Hillel: «Non siate come i servi che servono il padrone a condizione di ricevere una gratificazione (o ricompensa)» (1, 3): questa è l’azione che non ci fa contrarre debiti karmici, anzi va verso il futuro, crea un nuovo destino consono allo Spirito, un destino del Sé. Un altro grande rabbi, Gamaliele I, cosí riassume il principio della reciprocità dell’agire: «Fai la volontà di Dio come se fosse la tua, affinché Egli faccia la tua volontà come la Sua» (2, 4). Leggiamo appena due detti dei Pirqé Avot: «Diceva Gamaliele, figlio del Rabbi Yehuda il Principe: Compi il volere di Dio come se fosse il tuo, affinché egli compia il tuo volere al posto del Suo. Sospendi il tuo desiderio di fronte al Suo e Lui sospenderà il desiderio degli altri di fronte al tuo» (2, 4). «Rabbi Yonathan dice: Chi osserva la Torah nella povertà finirà con l’adempierla nella ricchezza, ma chi trascura la Torah nella ricchezza finirà col trascurarla nella povertà» (4, 11). I Pirqé Avot scolpiscono le fattezze dell’uomo giusto e richiamano l’uomo comune al suo impegno individuale di giustizia.

I Giusti, infatti, secondo il testo ebraico, per le loro azioni morali non si attendono alcuna ricompensa dal Mondo spirituale: la retribuzione dei loro atti è soltanto nel mondo futuro. Grazie a ciò le norme morali espresse dai Pirqé Avot si presentano non come regole statiche, ma come modelli spirituali che consentono una profonda elevazione: modelli anagogici, iniziatici, i quali in fondo insegnano che chi agisce con rettitudine è come se fosse collaboratore di Dio, come se contemplasse i misteri inaccessibili del mondo celeste.

Tutto il messaggio dei Vangeli, tutto il Discorso della montagna è il piú grande insegnamento di come agisce la legge del karma, del significato profondo delle azioni umane: «Non giudicate, perché col giudizio con cui giudicate sarete giudicati» (Mt 7, 1). Anche sul Getsemani, di fronte al dolore e al tradimento, il Cristo ripete la stessa legge a Pietro: «Rimetti la spada nel fodero, perché tutti coloro che mettono mano alla spada periranno di spada» (Mt 26, 52). Questo, secondo il Vangelo, il principio della reciprocità karmica, secondo il quale l’effetto dell’azione compiuta ritorna sul suo autore.

Friedrich Nietzsche, nel noto libro Ecce homo, stigmatizzava con sarcasmo il pietismo cristiano, che mal si conciliava a suo dire con sentenze impietose come questa: «Chi avrà scandalizzato uno di questi piccoli che credono in me è utile a lui che si appenda una macina d’asino al collo e si butti nel profondo del mare» (Mt 18, 6). Gesú non invita qui al suicidio, ma sta soltanto descrivendo il peso karmico che prende su di sé chi si carica di una colpa: si sprofonda nelle rinascite inferiori, come – in ambito buddhista – chi ferisce o uccide un santo perde il diritto a rinascere uomo e precipita nei destini inferiori, fra gli animali o fra i dannati del post mortem. La stessa concezione è presente nella Divina Commedia, in cui Dante espone la legge del contrappasso (per analogia o per contrapposizione).

Il Cristo e l'adultera

Il Cristo e l’adultera

Gv 8, 1-11: che cosa vuol dire l’episodio del perdono dell’adul­tera? Scribi e farisei sottopongono a Gesú un grave problema: la donna, colta in flagrante adulte­rio, secondo la Toràh (Lv. 20, 10; Dt 22, 22) va lapidata a colpi di pietra. Gesú conferma la Legge sa­cra oppure la rinnega? Gesú allora comincia a scrivere per terra e spiega che non è il giudizio umano e quindi la pena inflitta dagli uo­mini che può controbilanciare il male, ma sarà la Terra stessa, la Terra futura, il futuro karma costruito già sin d’ora su questa Ter­ra, a pareggiare il debito. Gesú dunque non lapida la donna, ma lapida la sua colpa, la scolpisce sul suolo, la imprime sulla Terra.

Poco dopo questo episodio il Cristo enuncia ancora una volta la legge del karma sotto una nuova forma: «Chiunque commette il peccato è schiavo del peccato» (Gv 8, 34), come per dire: chi commette una cattiva azione si vincola con un debito, sottoscrive un debito con l’altro, insomma diventa preda e schiavo dell’altro. La vera azione spirituale, invece, lascia l’uomo libero, non crea vincoli e debiti di nessun tipo.

Alla legge del karma si riferisce anche un episodio narrato da Giovanni (cap.9): la guarigione del cieco dalla nascita. «Di chi è la colpa di questa cecità?» gli chiedono i discepoli: «È colpa sua o è una cosa ereditaria?». «Né lui ha peccato né i suoi genitori, ma è cosí perché si manifestassero in lui le opere di Dio». Anche in questo caso il Cristo fa ricorso alla terra, al suolo: impasta della terra con la sua saliva e guarisce il cieco. Come il Dio creatore, prende della terra e vi immette una nuova linfa, una nuova forza vitale e ricrea l’organo del malato. La Terra è preziosa: solo qui infatti possiamo trasfigurare davvero il nostro karma, riconoscere il Cristo e contribuire alla sua missione. Lo stesso enigma che introduce la guarigione del cieco nato si presenta in veste affermativa in Mt 19, 12, quando il Cristo dice che si può essere eunuchi per un karma passato, per un karma presente («resi eunuchi dagli uomini») o per volontà propria («che si son fatti eunuchi per il regno dei cieli»). Non tutto ciò che si vive proviene dal passato, dunque, talvolta può essere una nostra libera scelta che attende una ricompensa solo dal futuro.

Ciò che nel destino è inspiegabile, è fatale, proprio ciò è karmico, nel senso che le sue cause sono tutte nelle decisioni prese dall’Io nella condizione fra vita e nuova nascita. Una persona nasce con una imperfezione fisica: ciò è un fatto karmico legato al periodo fra morte e rinascita. Se un uomo commette un omicidio e va in prigione, la prigione non è il suo karma, perché il karma è soltanto ciò che noi stessi ci prepariamo da una vita all’altra, passando per il post mortem. La prigione è solo il primo effetto reale di un’azione: se tocchi il fuoco, ti scotti. Se uccidi qualcuno, gli uomini ti isolano dalla società.

La prigione, invece, è karmica se le cause della reclusione non sono in questa vita: se un innocente va in prigione, è il karma che ha voluto questo destino affinché lui migliori, evolva ancora di piú e restituisca agli uomini forze morali attinte nel regno della Materia. È il caso di tanti Giusti colpiti da giustizia iniqua: è il caso di Richard Wurmbrand.

Se una persona fa un lavoro che lo porta a contatto continuo con sostanze tossiche e in seguito a ciò a 60 anni muore di tumore, è karmico il tipo di lavoro, è karmica la malattia, mentre la morte prematura è solo una conseguenza della malattia stessa. Karmica è invece una morte inattesa senza apparenti cause scatenanti.

 

Liberazione dell'indemoniato

Liberazione dell’indemoniato

Come guariva il Cristo. Alla prima e seconda moltiplicazione dei pani Gesú guarisce ciechi, sordomuti, paralitici, indemoniati (cioè portatori di handicap mentali), guarisce insomma le malattie del karma che vengono da vite pre­cedenti. Questi malati avrebbero dovuto scontare in quella vita, sotto forma di malattia o deformità congenita, i debiti karmici contratti nell’esistenza precedente, vincolandosi a una specifica passione inferiore dell’anima. Ma allora per­ché il Cristo li guarisce? Perché il Cristo compie il miracolo? È davvero gratuita la sua azione? I miracoli compiuti dal Cristo vogliono appunto dimostrare che non tutto ciò che esiste nella vita umana è sotto la signoria del karma: nell’uomo, anzi, c’è un elemento libero che è estraneo al karma, l’Io superiore, o Sé, appena potenzialmente desto in noi. Il karma – non dimentichiamo – riguarda infatti soltanto il corpo astrale, il corpo delle passioni che, venendo a prendere il sopravvento sull’uomo e mettendosi al posto dell’Io superiore, si macchia di debiti karmici. Questi esseri che seguono il Cristo meritano il miracolo perché già sono aperti a ricevere l’Io: il dolore li aveva infatti spesso distaccati dall’anima di gruppo, dall’“Io sono di razza”, e li aveva spinti già a sentirsi individui. Questo è il motivo per cui il Cristo dice: «Beati i poveri di Spirito…». I poveri di Spirito non sono i poveri comunemente intesi, altrimenti non si sarebbe aggiunto «di Spirito», sono invece i mendicanti, coloro che hanno per­duto l’antica simbiosi con il mon­do divino-spirituale, sono coloro che, avendo una consapevolezza razionale di sé, chiedono di accogliere sempre piú lo Spirito: co­storo troveranno in se stessi il regno dei cieli, dice il Cristo.

Beati i poveri di Spirito

Beati i poveri di Spirito

Gesú guarisce di frequente gente indemoniata e posseduta, e ci si interroga ancora oggi chi fossero queste persone, che tipo di malattia avessero. Nessuna particolare patologia – suggerisce Rudolf Steiner. A quell’epoca l’uomo non era ancora sprofondato come oggi nella materia, tant’è che il corpo eterico era ancora un po’ distaccato dal corpo fisico. Ciò è dimostrato dalla propensione che l’uomo antico aveva a credere ai sogni, alle visioni e alle premonizioni in genere: considerava l’invisibile come parte del visibile, conosceva istintivamente i segreti della natura, del ciclo delle stagioni, del clima e dei venti, delle connessioni fra il nostro corpo e l’ambiente. Al contrario, conosceva poco se stesso, il pensare, e diremmo oggi la psiche come realtà autonoma.

Ma quando l’uomo cominciò a discendere nella materia, pur con l’eterico ancora parzialmente distaccato dal fisico, successe che i moti del corpo astrale, ovvero le passioni, si riflettessero direttamente sul corpo fisico sotto forma di “possessione”. La malattia cronica – soffermiamoci per un po’ su questo punto – attraversa tre gradi di manifestazione: essa nasce sul piano del corpo astrale come tensione, desiderio, emozione, disordine delle passioni, poi normalmente si riflette sul piano eterico, dove crea un disturbo funzionale, una irregolarità digestiva, respiratoria eccetera; solo infine si incarna sul piano fisico e dà luogo alla lesione, all’ulcera, al tumore. Al tempo del Cristo, nel caso degli indemoniati, la malattia, non potendosi rivelare in certi casi come disturbo funzionale o psicosomatico per il distacco del corpo eterico, discendeva immediatamente nel fisico. Diverso invece è il caso dei paralitici, nei quali il corpo astrale si è distaccato da una certa zona corporea, la sensibilità si è ritratta, lasciando il campo alle sole forze eterico-fisiche.

«Il corpo astrale è il grande ammalatore dell’uomo», scriveva Massimo Scaligero. Nel corpo astrale è la lontana genesi delle malattie. Perciò il Cristo non dice soltanto ai malati che lo circondano: «Alzati e cammina!» – cosí facendo avrebbe guarito soltanto il corpo fisico – ma dice: «Ti sono rimessi i tuoi peccati!», cioè ti sono rimosse le cause lontane e immateriali della malattia. La remissione dei peccati – la forza spirituale che il Cristo risorto concede ai discepoli nel corso della prima apparizione – fa sí che colui che ha beneficiato della guarigione del Cristo non abbia piú su di sé il peso di aver aggiunto, con la sua colpa, un karma negativo alla Terra (Cristo e l’anima umana, O.O. N° 155).

 

Guarigione del cieco nato

Guarigione del cieco nato

La fede. Che cosa contrappone dunque il Cristo al karma? Contrappone la fede, tanto che spesso, dopo un miracolo dice: «La tua fede ti ha salvato». Sono per esempio le parole che Gesú rivolge al cieco Bartimeo, che viene guarito: egli infatti aveva riconosciuto il Cristo tanto che lo aveva invocato con le parole «Figlio di Davide, Gesú, abbi pietà di me».

La fede non è da intendersi qui come espressione di una credenza in una serie di dogmi, ma fede come primo anelito dell’essere umano a superare se stesso, a trascendere l’ego, a traboccare: fede come sete o bisogno dell’Io superiore incarnato dal Cristo. «La vera fede è quella forza per cui qualcosa si può avverare… Avere fede e credere significa avere una rappresentazione attiva, grazie alla quale qualcosa si compie, si fa, avviene» ha detto Rudolf Steiner (Contributi alla conoscenza del mistero del Golgotha, O.O. N° 175). La fede è vera se dà corpo alle nostre rappresentazioni morali: se noi da una rappresentazione morale – e non da una visione, da una premonizione – facciamo derivare un evento. Ciò può avvenire solo perché il Cristo, in quanto forza spirituale, non è una forza che vive in sé, ma che si proietta costantemente verso l’esterno: una forza radiante. «Non io, ma il Cristo in me» è il mantra consegnato dall’apostolo Paolo ai Galati (2, 20): questo «Cristo in me» è forza irradiante della fede.

Il primo passo di questa fede è l’amore per il proprio karma. «Venite a me voi tutti che siete affaticati e oppressi, e io vi darò riposo. Prendete su di voi il mio giogo e imparate da me, che sono mite e umile di cuore e troverete ristoro per le anime vostre. Il mio giogo infatti è dolce e il mio carico è leggero» (Mt 11, 28-30). Giogo si dice in greco zygòn: è la stessa parola, la stessa radice da cui in sanscrito deriva la parola yoga. Sarà un caso, ma è come dire che il vero yoga cristiano è prendere su di sé il proprio karma, amare il karma come un maestro. Ricordiamo infatti che il karma è il tessuto di destino scelto nell’aldilà dall’Io per far evolvere e maturare l’insieme della personalità. Chi ama il proprio karma ama l’Io, chi ama il proprio karma riconoscerà il Cristo.

Dopo la Trasfigurazione il Cristo guarisce un ragazzo epilettico (Mt 17, 14-20): i discepoli non erano riusciti a guarirlo – egli stesso dice – per mancanza di fede: «Se avrete fede pari a un granellino di senapa, potrete dire a questo monte: spostati da qui a là, ed esso si sposterà, e niente vi sarà impossibile». È illuminante la similitudine con il granellino di senapa, perché – come lo stesso Matteo (13, 31 ss.; Mc 4, 26) riporta – «Il regno dei cieli si può paragonare a un granellino di senapa, che un uomo prende e semina nel suo campo. Esso è il piú piccolo di tutti i semi, ma, una volta cresciuto, è piú grande degli altri legumi e diventa un albero, tanto che vengono gli uccelli del cielo e si annidano fra i suoi rami». La fede acquisisce questo potere lievitante quando il potere dell’Io superiore entra nell’ambito eterico e lo illumina, lo trasfigura: il sentire si apre, si rianima e ci pare che ciò che chiediamo, ciò per cui preghiamo, ci sia stato già concesso.

 

 La legge del dono e la trasfigurazione del karma. L’antica legge del taglione diceva: «Occhio per occhio, dente per dente»: questa norma ritrae l’aspetto piú matematico, piú impietoso della legge del karma. Ma il Cristo va oltre: supera l’antica legge del taglione, secondo la quale tutto si paga fino all’adeguato pareggio. Il Cristo va oltre perché dice: «Se uno ti vuol togliere la tunica, tu dagli anche il mantello»: il Cristo introduce nell’uomo un nuovo elemento che può vincere la necessità del karma, la matematicità del karma, e introduce lo Spirito, quell’entità libera dell’uomo che oggi le scienze spirituali chiamano l’Io superiore, il Sé, l’autocoscienza. Ciò che prima per l’uomo era Legge esteriore, grazie al Cristo diviene Legge interiore, Sé spirituale.

Il tributo a Cesare

Il tributo a Cesare

Mt 17, 23-26: «Date a Cesare ciò che è di Cesare, a Dio ciò che è di Dio». A chiarimento di questo detto del Cristo, Rudolf Steiner dice che, come l’immagine impressa sulla moneta è il segno che essa appartiene a Cesare, cosí l’immagine umana, fatta a somiglianza con il Divino, è il segno che l’uomo appartiene al Mondo spirituale. Solitamente di questo versetto si cita solo la prima parte, quella relativa a Cesare, ma si dimentica che il vero succo del loghion è invece la seconda parte. Come dire: ciò che fate sul piano umano, sociale, civile, questo vi lega a Cesare, alla legge degli uomini, ma ciò che fate sul piano spirituale, o grazie alle forze spirituali, questo va destinato nuovamente allo Spirito. La gratuità dell’azione spirituale… Ecco perché il Cristo (Lc) dice ai suoi discepoli di dare prestiti nihil inde sperantes, senza attendersi nulla in cambio. Altrove, sotto forma di loghion affermativo, il Cristo dice: «Gratuitamente avete ricevuto, gratuitamente date» (Mt 10, 8).

Rudolf Steiner ha ricordato in molte conferenze che l’uomo del XX secolo si sarebbe avviato a una sempre piú profonda esperienza del Cristo, quasi a una nuova e reiterata esperienza di quanto accadde a Paolo sulla via di Damasco. L’uomo del futuro – disse Steiner – andrà incontro sempre piú all’esperienza del Cristo, alla visione del Cristo non piú incarnato. Grazie a questa tendenza dell’uomo futuro a riscoprire intimamente la forza spirituale del Cristo come essenza ultima del Sé, l’essere umano acquisirà una particolare facoltà: dopo aver compiuto una certa azione, potrà levare lo sguardo da quell’azione e intuirne l’effetto karmico, vederne immaginativamente lo sviluppo, il frutto morale (L’impulso-Cristo e la coscienza dell’Io, Tilopa, Roma 1994).

Una volta, al tempo della Grecia antica, il colpevole veniva assalito dalle Erinni, figlie di Gaia, divinità terrestri (ctonie) della vendetta: esse perseguitavano quanti si macchiavano di delitti nell’ambito familiare o venivano meno a un giuramento: erano insomma l’incarnazione stessa della punizione o della maledizione, il peso karmico della colpa di aver infranto l’armonia della stirpe. La tradizione popolare greca le immaginava come esseri mostruosi che venivano a tormentare i colpevoli.

 

Il cireneo

Il cireneo

Simone di Cirene. L’episodio che si svolge sulla via del Golgotha è un evento archetipico che si riflette sul karma di ogni uomo portatore dell’Io. Simone di Cirene è infatti una figura che riveste una profonda simbologia karmica, in quanto rappresenta l’intervento gratuito del bo­dhisattva. Quando si attraversano delle prove e si è al limite delle proprie forze, c’è sempre un momento bodhisattvico in cui veniamo a condividere con altri le difficoltà. È successo al Cristo: può succedere a noi. Simone di Cirene è la figura che incarna la dimensione provvidenziale (pronoia = Provvidenza, moto dell’Intelligenza verso l’uomo) del Mondo spirituale, che quando la prova si fa insostenibile invia qualcuno che prende su di sé il nostro fardello. In sintonia con questa concezione provvidenziale possiamo rammentare un pensiero dell’apostolo Paolo, che in I Cor 10, 13 scrive: «Dio è fedele e non permetterà che siate provati oltre le vostre forze, ma con la prova vi darà anche la via d’uscita e la forza per sopportarla».

Simone di Cirene è l’unica persona che soccorre il Cristo nell’ascesa del Calvario. Simone non è un ebreo di Palestina, è già un ebreo della diaspora, come indica il suo nome, e successivamente si fece cristiano, tanto che ritroviamo i suoi figli convertiti nella comunità cristiana di Roma. Simone di Cirene è il simbolo del giusto che prende su di sé la croce altrui: è il simbolo della gratuità dell’azione del Mondo spirituale, della grazia. In questa figura la tradizione cristiana ha sempre visto il primo esempio di sequela Christi, colui che per primo prende su di sé una croce non sua, come il Cristo aveva preso su di sé la croce del mondo. Ma noi, all’alba del terzo millennio, possiamo anche vedere in Simone di Cirene la figura del bodhisattva, del nuovo ideale di santità inaugurato dal Cristo sulla Terra, quando già nella notte del Natale il Cristo venturo ha radunato attorno a sé i pastori e i magi, la giustizia dei profeti e la saggezza degli Iniziati. Il bodhisattva, infatti, è la grande figura di santità idealizzata dalla tradizione buddhista dopo l’evento del Golgotha, anzi grazie al compiersi dell’evento del Golgotha, ed è l’ideale di santità destinato al terzo millennio. Simone di Cirene è l’archetipo spirituale del bodhisattva, della sollecitudine della carità, dello spirito di sacrificio. Il Cristo dice: «Un servo non è piú grande del suo padrone» (Gv 15, 20): è un detto idiomatico, per dire «Ciò che faranno a me faranno anche a voi». Portare il Cristo sulla Terra significa scontrarsi spesso con le norme codificate, l’aridità dei dogmi, il predominio della materia. Ma se l’uomo si troverà di fronte all’insostenibile, ci sarà sempre l’aiuto inaspettato di un essere che con animo bodhisattvico ci soccorrerà nel portare la croce del karma.

 

Meditazione: Potere della Croce

 

La contemplazione della schiena è la percezione della “croce”. La vera forza dell’uomo comincia quando le spalle si rilasciano e la schiena risponde alla sua funzione liberatrice nella sede mediana: in quanto accoglie la virtú dell’asse di Luce che incontra le forze astrali dell’anima. La massima calma, la potenza e la donazione spontanea di sé nascono dalla sede mediana, quando la schiena diviene portatrice della redenzione, secondo lo schema cruciale. È lo schema delle piú potenti forze di vita, che scendono nell’umano quando in esso, mediante ascesi, o mediante fronteggiamento di prove, si produce uno stato di tipo preagonico. L’Io Superiore, per tale via, della trasparente volontà e del coraggio, assume le redini dell’umano. (M. Scaligero, Manuale pratico della meditazione, Tilopa, Roma 1973).

 

Gabriele Burrini  (6. continua)