Risposte

Considerazioni

Risposte

A tutti piace ricevere risposte; tante innumerevoli risposte; ne abbiamo bisogno. In fondo sono un riscontro di quello che siamo, di quello che facciamo, di come siamo inseriti fra gli altri. Ricevere conferme che garantiscano la qualità, e se vogliamo anche il profilo estetico delle personcine in cui ci siamo ritagliati con cura (qualche volta con sacrificio) è un godi­mento animico al quale non è facile sottrarsi. Gli endorsement sono non a caso il principale sostegno di chi svolge un incarico politico o si muove nella funzione pubblica; sarà tentato a convogliare il corso delle opinioni altrui verso il proprio mulino; non potrà farne a meno, anche se in alcuni casi sarebbe stato meglio.

Sempre che le risposte siano positive; le critiche, le contrapposizioni, i giudizi ambigui, gli encomi ironici, sono prodotti degenerativi che bisogna buttar via in fretta perché, al pari delle immondizie, fermentano e ammorbano l’atmosfera. Il che indica che la spregiudicatezza, quando pecca d’unilateralità, incrementa quello che vorrebbe estinguere.

C’è una vasta categoria di risposte, che però non sono positive e neppure negative; lasciano il tempo che trovano, rimandano ad altra data una risposta definitiva, anticipandone solo qualche pezzetto, cosí per gradire, come una caramella che ci mettiamo in bocca quando la gola è secca; serve per un po’.

Dalle risposte che per incisività e contenuto sono passate alla storia come motti proverbiali a quelle piú complesse e articolate che richiedono un periodo, anche lungo, d’incubazione prima di rivelarsi per quel che sono, riceviamo continuamente stimoli e suggerimenti inter­pretativi. Questo bisogna ammetterlo.

In genere nei riscontri cerchiamo diletto e conforto; tuttavia, per generosa saggezza dei Mondi spirituali, ce ne viene concesso a gocce; sarebbe oltremodo avvilente avere a che fare con un perpetuo positivismo di facciata, tanto facile da risultare sospetto; lazzi e frizzi, sdolcinature e mielosismi gratuiti, in parecchie circostanze, sono fuori posto e pure contro­producenti. Finezza questa che dev’essere ancora fagocitata dalla feconda immaginazione dei produttori di pubblicità.

Ma se calchiamo suolo e terra, chiedendo risposte, un motivo, fra tanti, c’è; non mi stanco di ripeterlo, a me stesso e a quelli che desiderano ascoltarmi: siamo qui per cominciare a distin­guere. Ed è una strada che può portare lontano. Una strada in cui tuttavia l’errore è sempre di casa.

Ittiosi ArlecchinoNell’occhiello edito in prima pagina dal Corriere della Sera, si parla del neonato colpito da “Ittiosi Arlecchino”, abbandonato nel­l’ospedale Sant’Anna di Torino; attualmente è in corso una gara di generosità per offrirgli quell’aiuto e quella vicinanza che i genitori naturali non hanno saputo o voluto dare. L’articolo del giornalista termina con una specie di esortazione-invocazione in base alla qua­le, a suo giudizio, sarebbe auspicabile che la nostra formazione uma­na, cosí civile ed evoluta, impari quanto prima a “sentire di piú e pensare di meno”. Mi spaventa il fatto che un articolo cosí bello e commovente si concluda con una frase in cui il pur bravo giornalista, normalmente pieno di buon senso, dimostra di non aver capito niente sulla situazione interiore degli esseri; proprio da quel sentire, posto in rilevanza, che primeggi sul pensare obbligandolo vincolarsi al centripetismo soli­psistico dell’ego, privo di luce conoscitiva (perciò privo dello Spirito) sorge e dilaga nel mondo ogni sorta di umana defezione; malvagità e perversioni comprese.

Diminuito l’apporto essenziale del pensare, l’aggettivo “umano” acquista il prefisso “dis-” e nonostante i camuffamenti, non se lo toglie piú.

Il silenzio interioreTempo fa un amico mi chiese: «Tu riesci a conseguire il silenzio interiore?» Gli risposi di sí. Lui allora replicò: «E chi ti dice che quello sia veramente il silenzio interiore? Potrebbe darsi che tu lo creda, ma che non lo sia». Al che risposi: «E tu come fai a sapere se quel che io credo essere il mio silenzio interiore sia quello giusto o meno?».

Abbiamo dovuto convenire che il pensare è l’unica forza in grado di darcene conto; perché il pensare sa farci distinguere, e nel distinguere, il mondo della materia con tutte le sue leggi può anche rivelarsi come identico e separato da quello dello Spirito; il pensare scopre e sperimenta la trascendenza dentro l’immanenza; mette ogni cosa al suo posto, non ha mire di primato, non gareggia ma unifica, armonizza, e senza limiti costruisce in libertà le sue creazioni.

Il pensare ci avverte: viviamo nel bel mezzo di correnti multiple e contrapposte; sembra superfluo elencarle, dal momento che piú o meno ci siamo abituati a lavorare durante il giorno e a dormire di notte, prendendo quindi la loro alternanza per una polarità benevola in cui svolgere i nostri passatempi. In ciascuno di noi si agitano componenti personali che derivano sicuramente da fattori contingenti: famiglia, luogo di nascita, latitudine, etnia, ai quali si devono anche aggiungere retaggi prenatali ed esperienze di vita non necessariamente vincolate alla storia e alla geografia contemporanee. Tutto ciò va a formare una categoria infinita di domande con le quali si tenta di comprendere il motivo di tali correnti, la loro origine nonché i propositi che eventualmente hanno nei nostri confronti.

Ma pure le risposte, e le attese di quelle, costituiscono una polarità non da poco. Esse infatti, senza fallo, presuppongono come minimo altrettante domande. Ne sono la conseguenza im­mediata (non sempre mediata); la stessa necessarietà da cui sorgono, le prolifera senza freni, anzi, la progressione incrementale risulta geometrica rispetto ad essa. A questo punto, come si può vedere con un semplice confronto raffigurativo, si creano due estremità che attraverso lo sforzo interiore degli uomini s’incontrano, si scontrano, collidono e, in certi casi, colludono.

Eppure non compiono mai tale proposito fino in fondo; lasciano uno spazio a metà percorso, un vuoto, un interstizio, una zona neutrale, nella quale, chi fosse in grado, potrebbe creare una sintesi. Questa porterebbe a termine il senso ultimo di una tensione originatasi al di fuori della dimensione uomo, ma entrata di diritto nella sua piú intima sfera, affinché il cammino sulla strada della conoscenza non gli resti un facile utopismo, ma cominci ad apparirgli quale scopo; una enorme precisa incredibile finalità. Ove venisse a mancare o scemare il pensiero che la pensa, l’ordine delle domande e quello delle risposte, rimarrebbe senza significato.

 

Terra di nessunoNella geografia politica, in particolare nei territori in cui la diplomazia ha ceduto da tempo alla vio­lenza dei fatti, ci sono strisce di terra indicate col termine inquietante, ma purtroppo anche realistico, di “no man’s land”. Un vuoto al negativo, escludente a priori lo Spirito umano, in cui gli assoggettati alle opposte tensioni si fronteggiano, temporaneamente sospendono la cruenza dei combattimenti, e nel con­tempo, si organizzano da ambo i lati, studiando come peggiorare la situazione.

Dalla terra di nessuno si arriva, attraverso le mappe della pubblica disfunzione, al cosiddetto “mondo di mezzo”, sul quale ora la magistratura vorrebbe fare chiarezza. Agli incaricati, auguro ogni bene anche se mi riesce difficile comprendere i netturbini quando scioperano per protestare contro l’emergere dell’immondizia; non lo vedo un buon inizio. Di seguito anche ai magistrati potrebbe venire la voglia di astenersi dai loro compiti (emergenza giudiziaria); idem ai medici, per quanto di competenza (emergenza sanitaria). Ma purtroppo dal momento che le domande urlate sono troppe, anche le risposte piú sensate e precise suonano flebili e inconsistenti.

Lo spazio invece che si apre nella dimensione del Pensare (domande e risposte non sono un campo bellico, né piazze in subbuglio cui trasferire bollori e intemperanze) è di tutt’altra natura; non soltanto è pacifica, consona alla vita, lontana quindi da ogni forma di morte, ma detiene in sé la piú alta espressione dello Spirito che gli esseri possano avere alla loro portata, principal­mente a livello individuale: la creatività. Essa s’indirizza ad un traguardo ben piú importante di tutte le detonazioni con le quali i poteri fracassoni e bombaroli di questo mondo si sfidano a gara per un primato poco invidiabile.

Nello spazio di cui sopra sorgono le domande e le risposte. Nascono assieme, partono dalla stessa origine di verità, e quali correnti eteriche entrano nella dimensione spaziotemporale per giungere fino all’essere umano, presentandosi a lui in modo tale che possano venire accolte dal cuore e dalla mente, ove egli non contrasti tale predisposizione.

Ogni struttura umana, sotto l’impulso costante di questa tensione positiva, reagisce secondo formazione e grado di preparazione: in alcuni si manifesta quale immediato anelito, speranza, forza ardimentosa del sentire, in altri si presenta come sfida intellettiva, da risolversi mediante acutezza e ponderazione riflessiva. In altri ancora, le due tendenze concorrono in varie combi­nazioni, accostando il medesimo compito per strade diverse, ma comunque chiamando sempre in causa volontà e coscienza.

Vi è un pensiero di Rudolf Steiner che mi ha incoraggiato a mantenere desta tale prospettiva. Come spesso succede, al momento della prima lettura ho letteralmente immagazzinato la frase senza ricavarne un particolare costrutto. Soltanto dopo, molto tempo dopo, essa è entrata nel grande tema connesso alle “domande e risposte”, allargando la visuale e immergendola nel contesto pratico, sí da risultare estremamente significativa.

Animali e vegetaliIl mondo degli animali con il loro muoversi, con il risuonare dei loro versi, è una continua do­manda che il vivente pone al creato; mentre il mondo dei vegetali, nella sua immobilità, nei suoi silenzi, dal creato offre un’eterna risposta. Le due tensioni ancora non s’incontrano; quanto meno non s’incontrano ad un livello comprensi­bile per gli esseri umani; ma lo faranno un gior­no nell’anima di colui che veramente riconosca il senso dello stare in ascolto.

Come si vede, un pensiero del genere potrebbe sembrare tutt’altro che una soluzione con la qua­le chiudere una volta per sempre il problema. Ma per l’appunto, proprio perché rimandabile a livelli superiori in vastità e profondità, la volontà di estrarre da noi stessi un punto fermo non può consistere, deve proseguire, palpitare nei nostri cuori, stimolare le nostre menti e diventare orientamento della vita che viviamo.

Comprendo come tutto ciò possa sembrare lontano dai nostri comuni obiettivi, ma impostare un programma a lunga, lunghissima, scadenza, diventa un atto fondamentale per la sopravvi­venza della nostra anima.

È davvero meraviglioso e sorprendente cogliere nel protrarsi della corrente vettrice del pensiero voluto, armata di luce propria, l’infinita benevolenza dello Spirito, che con saggezza ed amore sospinge l’essere pensante sulla strada dell’evoluzione, offrendogli in garanzia il perce­pire in modo sempre piú convincente che tale strada coincide con quella che l’Universo stesso ha scelto per sé!

Massimo Scaligero ha evidenziato un tale sillogismo con la breve, possente incisività delle Sue parole: «Non v’è evoluzione che non si compia come ricongiungimento della forma creata con il suo principio».

Marina Sagramora La croce della vitaIn quanto uomini portiamo in noi la componente vegetale e animale (quella minerale è la base affinché le altre si at­tivino); dalle prime due riceviamo impul­si, o correnti, in cui domina una direzio­ne, spicca un elemento orientativo. Se ci limitiamo a subirlo, questo s’imporrà co­me condizione capestro; non sarà facile capirla, individuarla e circoscriverla. An­che perché non avremmo una specifica idea da dove essa provenga.

Nel nostro incontrare quel che la vita ci propone giorno dopo giorno, abbiamo tuttavia avuto modo d’imbatterci in una Scienza dello Spirito, capace di offrirci delle panoramiche a 360°, grazie alle quali fruire di una visione e di una comprensione molto piú ampia di quella in normale dotazione; allora il senso stesso delle domande (che a volte non siamo neppure in grado di formulare in modo compiuto e distinto) e delle risposte (che continuiamo a credere necessario reperire in qualche remoto angolo del sensibile esteriore) si presenteranno precise e pertinenti alla luce di un intimo risveglio, forse non del tutto atteso, eppure, sotto un certo punto di vista, perseguito e auspicato.

L’esistere dell’uomo sulla terra non si sviluppa attraverso le tensioni degli opposti, ma grazie alla tensione degli opposti; avevo già deciso in precedenza di saltare la loro classificazione, inutile quanto infinita: amore e odio, essere e avere, ragione e sentimento, sono i capostipiti di una serie che può venir allungata a piacere. Non avrebbe scopo parlarne se non ci ricordassimo che in definitiva tutto dipende da un unico contrapposto iniziale, l’Io e il non-io; l’impronta dello Spirito nel fango della materia.

La parola “fango” è pleonastica; basta dire l’impronta dello Spirito nella materia; il termine fango, adoperato come spregiativo, descrive tuttavia il difficile compito di abitare questa nostra dimensione dell’essere, praticamente insostenibile dal punto di vista spirituale, e – al tempo stesso – viverci dentro, grazie a un apparato corporeo che respira una miscela di gas atmosferici e un’anima in grado di allevare, a lungo senza saperlo, una coscienza aspirante al puro conoscere.

Di contro alle frasi preconfezionate del conformismo dialettico, nel quale, con un certo sussiego, si pretende indicare nella cosiddetta “terra di nessuno”, “mondo di mezzo”, “deserto dei tartari”, una landa oramai abbandonata da Dio, ha da stare il pensiero saldo, forte e chiaro quanto il sole, che l’Uomo è potenzialmente quel dio. Sorretto da spinte, pur contrastanti, sulla strada evolutiva, gli riuscirà di trasformare quella landa di morte nel nuovo Eden.

Qualcuno ha detto che tra le infinite ipotesi che si possono congetturare sull’argomento, io scelgo sempre (guarda caso!) quella creazionistica, o comunque indirizzata verso una soluzione metafisica. Al che mi viene sempre da replicare che, per prima cosa, chi confeziona questo bel ragionamento deve togliere di mezzo il “guarda caso”, in quanto elemento d’intrusione doloso e in esplicito contrasto con il senso testuale. In secondo luogo, le ipotesi si chiamano cosí perché hanno la caratteristica di partire tutte dal grado zero della dimostrabilità.

Trovandomi nella circostanza in cui la scelta è oggettivamente neutralizzata fin dall’inizio, mi sembra ragionevole, e anche umano, dare la preferenza a quella con la quale mi trovo in miglior sintonia; una scelta concordabile, condivisibile, perché gratifica la parte di me ritenuta a mio giudizio maggiormente preziosa, interessante; oltretutto convinta d’aver ancora parecchi compiti da sbrigare, sia nell’immediato che nel lontano futuro.

Rasoio di OccamIl criterio non è nuovo; riprende il “rasoio di Occam”, con la variante aggiunta di una decisione interiore ma­turata e soppesata per un periodo notevolmente lungo. Se è il pensare stesso a fornirmi la notizia di una pos­sibile evoluzione sua e mia, perché dovrei privarmi delle azioni che la determinano?

Dal momento che ho tirato in causa il tema delle scelte e delle decisioni, mentre sto argomentando su quello delle domande e delle risposte, vorrei richiamare alcuni esempi concreti per chiarire quale possa essere il rapporto (o addirittura se esista un rapporto) tra i due poli opposti e la nostra facoltà di scelta, quando è co­stretta a viverci in mezzo. Come si suol dire, presi tra due fuochi, scegliere diventa difficile e com­plesso, anche perché riveste il carattere dell’urgenza e dell’intollerabilità.

 

La risposta di fondo. Una prima risposta risale all’epoca in cui, ancora bambino, mi accadeva in casa di udire mia madre inveire a voce alta, contro quel destino che aveva reso lei vedova e me orfano, a seguito degli avvenimenti che sconvolsero la mia città nel maggio del 1945. Non potevo far altro che ascoltare; le domande che la sua anima sofferente esprimevano in quei momenti (al mondo? al destino? a Dio?) erano cariche di un bruciore sferzante e doloroso. Pur senza essere in grado di capire, avvertivo in esse l’inutilità della loro esposta violenza, dato che, ora lo so, lo sfogo di un’anima non corrisponde mai alla logica della vita. Fin da quei giorni sperimentai ciò che in seguito seppi essere il preannuncio del tetro cupio dissolvi di chi si trovi a patire quel che non ritiene giusto patire; quel suo cieco voler annunciare al mondo il torto subíto, picchiando la grancassa del rancore, senza concepire, nemmeno alla lontana, l’eventua­lità di essere sulla sponda opposta della ragione.

Chi all’epoca, e negli anni a seguire, avrebbe saputo formulare una risposta perfettamente calibrata alle domande strampalate e scomposte che il cuore di mia madre eruttava nei momenti di crisi? Chi avrebbe potuto lenirle anche di poco l’angoscia spietata che l’attanagliava, e rendeva la sua vedovanza un lugubre processo di autodistruzione?

Non potevo farlo io, a due, a tre, a cinque, o dieci anni; non seppi farlo né a venti, né a trenta. Dopo, fu troppo tardi. Posso tentare oggi, senza la sicurezza di riuscirci, ma ci posso provare.

Se avessi potuto (+ saputo+ voluto) le avrei detto cosí: «Cara mamma, tu continui a vedere solo ciò che qualcuno ti ha tolto e non guardi a ciò che la vita ti ha dato. Come risposta, io non mi sento del tutto convincente; però io sono una risposta, anzi, io sono la tua unica e sola risposta; con me, in me dovrai sforzarti di vedere, di capire, di ricontrollare l’intera partita del tuo dolore. Perché dentro quel conteggio di dare e di avere sono stati commessi degli errori di valutazione madornali, e non ha piú alcuna importanza adesso sapere a chi o a cosa attri­buirli. I processi della vita non sono quelli dei tribunali, l’ingiustizia non è il peggiore dei mali che ci possa affliggere. Questi dureranno finché l’idea di quel che è giusto per ciascuno di noi, non si sarà fatta strada nei nostri cuori e non apparirà chiara e precisa in ogni mente. L’anima continuerà a soffrire comunque, ma libera dal capestro del risentimento e della vendetta; avrà dalla sua l’espiazione e la purificazione; saranno con lei, la guideranno. Allora l’ineluttabilità del passato potrà cambiare, diventare un dignitoso presente, accogliere un riconoscente futuro».

 

La risposta di mezzo. Qual è il senso di una risposta di mezzo? Che può significare? Che è una risposta cosí e cosí, una verità arrangiata, un espediente dialettico, un po’ carne un po’ pesce, senza riuscirci. È strano, il valore di ciò che sta nel mezzo si è affievolito nel tempo, fino a diventare mediocre e scadente; un aggiustamento, un pateracchio, insomma nulla di definitivo e quindi privo d’importanza. La via di mezzo sembra non interessare nessuno.

Eppure, non ricordo chi, qualcuno affermò che per fare un passo avanti, bisogna perdere l’equilibrio sia pure per un istante. Senza quel momento d’instabilità, di scompenso, di per­duto controllo, nessun cammino può venir intrapreso nel mondo della fisicità. Per andare avanti bisogna dunque rischiar di cadere. Trasportato sul piano dello sviluppo evolutivo, vorrebbe dire che nel tentativo di giungere a dar buona prova di sé, si deve mettere in preventivo la possibilità di fallire e di far brutta figura, con se stessi, davanti ad altri, forse coram populo.

Nella marea di interpreti e situazioni che il Manzoni ci propone ne “I Promessi Sposi”, si ricavano parecchi esempi di questo tipo, soprattutto dai cosí detti personaggi secondari, che qualche volta sono stati messi lí allo scopo ben preciso di offrire, con una battuta, un gesto, un comportamento, il desiderio umano di rappresentarsi in un certo modo, senza tuttavia aver ancora guadagnato la capacità, o il merito se vogliamo, di sapersi attuare come sarebbe piaciuto. Col risultato pertanto, di apparire teneri e goffi, imbarazzati e imbarazzanti, timidi e smargiassi, esibizionisti e inopportuni ad un tempo.

Ben poco avrei potuto sapere sul “sarto” manzoniano, e meno ancora ne avrei ricordato, se non fosse stato per una serie di tempo­rali, che in quel lontani giorni di dicembre, ormai prossimi alle vacanze di Natale, aveva reso l’aula della IIIa B del Liceo Petrarca quasi un deserto. Da ventuno allievi, eravamo ridotti a una decina; le intemperie che da qualche giorno imperver­savano sulla città, e i relativi malanni di stagione, avevano decimato la mia classe.

Il sarto dei Promessi sposiFu forse per questo che quel mattino l’insegnante d’italiano, trovandosi in un ambiente meno popolato del solito, ma fiducioso nell’attenzione dei pochi temerari presenti, volle allargare la canonica lezione sui Promessi Sposi, focaliz­zandola sulla figurina del sarto (un po’ scolorita, di ridotto spessore, se cosí posso dire, rispetto alle altre) illustrandola in un modo che non gli avevo inteso fare mai; oppure ero io che, chissà, magari nella situazione particolare, avevo dila­tato la mia disponibilità all’apprendimento; il fatto è che quella lezione del professor Gigino (il suo nome era Luigi, ma tra noi studenti egli era in codice “Gigín”) discese nelle profondità dei miei lacunosi recessi illetterati, vivacizzandoli con nuove, brillanti scintille.

Non rifarò la storia del “sarto”; abbiamo letto piú o meno con profitto la vicenda di Lucia liberata dall’incubo dell’Innominato, e da questi, convertitosi al Bene, condotta al Cardinal Federigo, il quale, per una sistemazione provvisoria, la fa alloggiare nella casa del sarto. Cosa questa che suscita in quel semplice artigiano di paese una insopprimibile velleità di mostrarsi all’altezza della situazione; alle ultime raccomandazioni e ai ringraziamenti, da parte di cotante personalità, egli avrebbe voluto esibirsi con una risposta pronta, dotta, acculturata, consona alla felicità di intervenire concretamente dopo un fatto cosí burrascoso, e di restituire l’armonia perduta a tante anime in pena. Sentiva giunto il suo momento, in cui da umile mestierante poteva svelare al Cardinale, al curato, ai presenti tutti, la capacità di essersi guadagnato la nobiltà interiore di uno di quei cavalieri leggendari, di cui egli, tra ritagli e cuciti di stoffa, si era fatto una piccola cultura, della quale aveva imbottito anima e corpo.

Forche caudineEppure, al momento giusto di prendere la parola, non gli riuscí altro che a dire uno stri­minzito: «Si figuri!». Non sarebbe stata la fine del mondo per uno dei tanti villici dei dintorni; ma egli aveva oramai elevato se stesso ad un livello che doveva essere per forza esente e lontano da ogni banalismo. Invece la pochezza dell’espressione usata, tutt’altro che aulica, scappatagli quasi di bocca, biascicata e ristretta nel suo formalismo meschinetto, risuonò in lui ignomi­niosamente, gli franò dentro, esecranda, irrimediabile, quanto la notizia della disfatta delle Forche Caudine per Roma. Le sconfitte sono sempre scottanti, ma quelle avvenute per autogol, bruciano di piú.

«Vi siete chiesti mai, perché il sarto non ha un nome proprio?». Ci spronava cosí il professor Gigino, con una certa foga, mentre si aggirava tra i banchi, puntandoci l’indice e guardandoci uno ad uno negli occhi. «Prima di essere un sarto, sarà stato anche un uomo, no? con tanto di nome e cognome. Tuttavia l’Autore lascia in sospeso la questione, la trascura volutamente; ci fa quasi capire che l’uomo vi fosse sí, ma in fieri; ovvero il suo esser uomo stava ancora divenendo, si trovava a metà strada, tra la sua realtà contingente (adulto, cat­tolico, maritato, padre, contadino e artigiano) e il desi­derio interiore di andare oltre se stesso, di studiare, di leggere, capire, per mostrare poi al mondo chi vera­mente fosse, e che, a Dio piacendo, avrebbe potuto di­ventare».

Caro vecchio professore, quante cose oggi vengo a capire di te, grazie a quell’apologo sul “sarto” del Manzoni! Pure tu, oltre al lavoro d’insegnante, avevi studiato, scritto e pubblicato a tue spese fior fiore di relazioni, ricerche, profonde e dettagliate, acute e puntuali, sulla letteratura italiana dal Rinascimento al Romanticismo; eppure eri sempre lí, in classe, ogni mattina, con lo stesso cappotto, lo stesso vestito grigio, la cravatta scura, la borsa di pelle nera un po’ sdru­cita e l’ombrello sgangherato. Se la nascosta ambizione fosse d’improvviso risaltata fuori da dove l’avevi da tempo relegata, se avesse cercato ancora di sedurti, prospettandoti fama e allori, sicuramente anche tu le avresti ripetuto: «Si figuri!».

Ti comprendo, ora piú che mai, perché condisco anch’io la pasta quotidiana con la medesima salsa. Anch’io scrivo, piú o meno in segreto, un po’ anonimo, un po’ sconosciuto; scrivo lunghi dialoghi con me stesso, arrampicandomi su fatti ed eventi che mi creano il moto buono per dire qualcosa di mio. Ho pure un piccolo angolo di lettori che, mi riferiscono, seguono questi scritti. È un equilibrio precario ma, al momento, si regge bene; da una parte il bisogno di parlare, di manifestare quel che sento su Dio, sul mondo, sulla vita, su quel che capita o che potrebbe capitare; ed è la prima corrente-tensione; dall’altra, il compiacimento di venire ascoltato, di vedere accolte le mie considerazioni, anche da persone che non conoscerò mai. Ma proprio in questa seconda corrente-tensione sta il segreto dell’equilibrio armonico; un equi­librio che può vivere solo tra una miriade di domande cui dedicare qualcosa di mio, e una platea invisibile, avvolta nel buio dell’ignoto, la cui presenza virtuale detiene potente l’inudibile risposta.

Ho appreso la lezione; grazie Professore.

funamboloSe ti comporti bene e scrivi parlando a lungo con l’anima, è sempre tutto ok. Le correnti, le polarità, i fuochi in mezzo ai quali ti sei messo, non ti fanno male; anzi, Ti fanno vivere ogni giorno imparando qualche cosa di piú. Ti diranno di tutto: sei un matto, sei un esibizionista, un grafomane logorroico; scrivi e scrivi perché non hai nessuno con cui parlare, e se lo trovi, non ti sta nean­che a sentire. È vero, però chi ha deciso di diventare funambolo, è pur dovuto salire sulla fune. Apprezzerà in seguito che essa resti sempre costantemente tesa.

Sai una cosa, caro Gigino? Dovesse sal­tarmi il ticchio di pormi il problema di es­sere o non essere contento di tutto quel che ho scritto fin qui, per me e per altri, penso che risponderei, assieme a te e ai tanti “sarti” di questo mondo, con un bellissimo: «Ma si figuri!».

 

La risposta dall’Alto. Cancelliamo tutto; cambiamo registro. È il momento di non concedere ulteriore spazio ai poli che animano le parti senzienti, affettive e razionali del nostro involucro; non sono molto attendibili e fanno sempre a gara per vedere chi tra loro si agita di piú.

Duccio di Buoninsegna «Quid Veritas?»

Duccio di Buoninsegna «Quid Veritas?»

Poniamoci invece, con la migliore disposizione possibile in fatto di semplicità e chiarezza, di fronte alla Domanda delle Domande: «Quid Veritas?».

Ad essa – lo sappiamo bene – si con­trappose (diciamo cosí, anche se il verbo “contrapporre” è in questo caso un verbo infelice) il silenzio di Gesú Cristo.

Da piú di duemila anni ci viene quin­di narrato, da fonte autorevole, che la risposta della Verità è il silenzio. Forse non siamo stati sufficientemente attenti, forse siamo stati distratti, forse non ab­biamo capito appieno. Ma la risposta c’è, ci è stata data. È il Silenzio.

Cosa sarebbe questo Silenzio? Ho paura di non averne la minima idea. Ma sono certo che anche questa volta il pensiero mi potrà aiutare.

Ci sono molte ragioni, tutte davvero importanti, in base alle quali, allo stadio attuale del nostro sviluppo interiore, è praticamente impossibile capire il senso della parola “silenzio”. Non è certo quel senso comune, standardizzato, che diamo alla mancanza di suoni. Ecco: per l’uomo moderno il silenzio è un vuoto, un qualcosa che rappresenta un nulla da riempire; una condizione fisica che non esiste sulla Terra, ma che, per assomiglianza, possiamo comprendere al negativo, come si fa per l’assenza di quel che potrebbe solo teoricamente esserci. La parola silenzio resta confinata nel limbo astratto dei pensieri, delle entità soprannaturali, dell’anima; di un incorporeo vacuum con il quale, in ultima analisi, non siamo del tutto convinti di avere a che fare. Anzi, si arriva al punto in cui il pensarci su non rientra nella categoria delle azioni logiche.

Dalla scienza ci viene pure la cognizione di spazio (cosmico) che per secoli abbiamo fatto coincidere con il vuoto assoluto, ora ampiamente sconfessata dalla ricerca astrofisica, la quale ha accertato che non vi è neppure un puntolino nello spazio siderale che possa considerarsi vuoto. Tutto è pieno di qualche cosa; ma il problema sta nel fatto che questo qualche cosa non sempre si vede, si tocca, si misura e si percepisce con i sensi, o con adeguate strumentazioni; a volte sí, è percepibile, altre volte no, non lo è affatto. In queste ultime, il contenuto deve, per ora, venire solamente pre-supposto. Qui l’asino si produce nel classico capitombolo.

Per sapere se una cosa esiste devo avvalermi del percepire, che tuttavia deve essere mediato dal pensare, il quale a sua volta non è ordinariamente percepibile.

Quindi per sperimentare cosa sia davvero il Silenzio, non basta che io smetta di far rumore; devo imparare a percepire la mancanza assoluta del rumore, con la medesima concretezza di un fatto tangibile.

Studio Via CadoliniEcco perché chi veramente fa non parla. Come il pensare, silenziosamente lavora e opera. Non ha bi­sogno di suoni, risonanze, rumori e confusioni varie. Gli amici che hanno avuto la possibilità di incontrare Massimo Scaligero nel suo studio all’ultimo piano di via Cadolini, ricordano certamente il cartello-avviso posto sulla porta d’ingresso. Diceva «Pax et Bonum» e sotto «Silentium!». Non era un ordine, né un’imposi­zione, e neppure un consiglio. Era una dedica per il visitatore, affinché l’incontro, che sarebbe avvenuto di lí a poco, risultasse proficuo a lui e all’Ospite in attesa.

Una semplicità alata per varcare le soglie del con­tingente. Oltre quelle soglie, le domande decadono, i turbamenti cessano. La loro impellenza si annienta.

Per questo, il frastuono del mondo cerca di tenerci lontani dal concepire la possibilità di generare in noi stessi un tale Silenzio. Sarebbe una disposizione ascetica, significherebbe essere già sulla via dello Spirito, e questo il Sovrano del mondo non lo può tollerare.

Sempre di piú gli uomini tendono a circondarsi, a far invadere le loro esistenze da vocíi, da suoni sgangherati, da stridori, boati e gemiti insulsi, pur di non procurarsi un attimo di silenzio in cui poter alfine scrutare in se stessi e vedere se sia plausibile la direzione verso cui si stanno muovendo, o per contro, abbia una sua logica la stasi in cui si trovano bloccati.

Questo è il Silenzio su cui desideravo poter dire qualcosa; se «Quid Veritas?» è la Domanda delle Domande, in quel «Silentium!» vi è la Risposta delle Risposte.

Altro non saprei dire, ma se lo sapessi non lo direi comunque.

 

Angelo Lombroni