Eterno, Infinito Essere, in cui vorrei potermi identificare. Tu sai la mia condizione: come forma terrena mi arrabatto in spazi ristretti e lungo tempi che mi appaiono piuttosto insufficienti, a volte troppo brevi, a volte troppo lunghi, e sai che non riesco ancora a farmene chiaramente una ragione. Vivo piú o meno da automa, riempiendo la vita di progetti, mete, traguardi e obiettivi, tutti piccoli e quasi tutti onesti, eppure mi manca il quadro generale complessivo: mi manca il segreto dell’esistere, ne ho soltanto una virtuale cornice; certo, ci sono molte ipotesi al riguardo; ma non serve coltivarle dietro casa come l’orticello di mio zio, ferroviere in pensione; il pensiero (mio? tuo? o di entrambi?) non smette di pensarci, si trastulla con queste cose, le colloca in una dimensione sua, le ridisegna, le assembla in modi sempre nuovi; qualche volta addirittura, con la complicità dell’astrazione, delle insonnie notturne e nonostante le defezioni giornaliere, oltrepassa i limiti usuali: offre spunti affascinanti. La coscienza, allora, solleticata di infantile entusiasmo, gioisce di queste effimere vittorie come fossero sue, senza scorgere le congiunture importanti che qua e là trapelano. Ma l’effetto dura poco; onerate pressioni, ritmi biocritici, microimpedimenti, e triturazioni attuariali ben presto riportano i piedi, momentaneamente alati, sul concreto squallore di un mappamondo ricevuto in regalo: mi pareva un dono bellissimo, ma (l’ho scoperto dopo) era una palla di resina sintetica e cartapesta in tinte vivaci. Riassunto: desidererei qualcosa di piú. È possibile?
Dicono: «Guarda, smetti di fare lo scemo, ora è passato il Natale! Dobbiamo essere tutti piú bravi e piú buoni, anche tu. Quindi adeguati allo spirito della trascorsa Festa e, per amor del cielo, finiscila con questi pensieri d’esistenzialista da strapazzo! A che ti serve socrateggiare?
Non hanno tutti i torti; sarebbe impossibile, anche se sono in tanti. È passato il Natale ed è necessario cambiare quella logica del mondo che mi sono costruito, devo dire, un po’ a fatica e che mi porto dietro come parte di me, forse ancora piú interessante di quel che potrei esserlo come persona presa nell’insieme. Tema tuttavia nel quale non mi voglio avventurare, dato che sta al di fuori del mio confine etico.
Sarebbe invece oltremodo importante (e utile) capire se – caso mai – non sia stata la logica del mondo a conformarmi cosí come sono; ecco un bel problema postcartesiano: penso dunque sono, o sono in quanto penso? In altri termini: il pensare è la causa e l’essere è il suo effetto, o viceversa, nel senso che per pensare devo prima esserci?
Trasporto la formula in ambiente amletico, magari con l’inevitabile pathos, carico di teatrale mestizia, e, data la trascorsa scadenza, mi chiedo: il Natale arriva perché cosí sta scritto sul calendario, o viene in quanto qualcosa si è verificata sul piano intimo e personale?
Un giochino di pensieri e parole. Sembra insulso, ma con una rettificazione specifica diventa subito valido e comprensibile: il Natale, prima di tutto, non dovrebbe essere una festa dell’anima?
Ecco un buon argomento per proseguire col passo giusto; sarebbe molto bello se i cosí detti “uomini di buona volontà” (categoria in via di estinzione come il panda gigante e le whiteflies) dedicassero in maniera diversa quella canonica prevista da riti e osservanze.
Basterebbe che ognuno, in un momento di calma e di serenità (si prega di evitare facili umorismi) si disponga a scrivere qualche riga, una mezza pagina, o se vuole anche piú, e metta nero su bianco le riflessioni che in quel momento gli sembrano piú valide e consone per iniziare il Nuovo Anno conservando dentro di sé l’impulso del Natale. Beninteso del suo Natale. Nonostante che l’Evento sia un patrimonio spirituale dell’umanità intera, il suo accendersi nell’anima è sempre un fatto individuale e in tal senso soltanto può proseguire.
È fattibile, se si mette in moto la volontà accompagnata da un sentimento di pudico piacere e di interesse per quel che si sta compiendo, se si recuperano i frammenti sparsi dei tanti Natali trascorsi e li si accosta a quanto ci è stato detto o insegnato a proposito, allora si scopre una cosa bellissima: nessun trattato di scienza, di filosofia o di religione l’ha mai saputo rivelare con semplicità e chiarezza: l’anima dell’uomo è a trazione interiore. Avviarla può sembrare all’inizio difficile, ma una volta messa in moto, protesa verso quella meta che avverte già sua, nessuna opposizione del mondo potrà arrestarla.
Se cosí non fosse ci saremmo estinti da un pezzo.
Un tale convincimento, per quanto condivisibile in buona maggioranza, trova sempre degli impedimenti al momento di diventare operativo. Si ritiene per lo piú che lo scrivere non sia cosa per tutti e che in molti casi sia meglio parlare, discutere, o magari, in circoli piú ristretti ed elitari, trovarsi assieme per meditare, pregare, o comunque svolgere unitivamente esercizi interiori, uno all’insaputa dell’altro, ma tutti sorretti dal medesimo intento.
Sicuramente le strade praticate sono buone e giuste, ammesso un sentimento di lealtà in comune nell’esecuzione collettiva, cosa non semplice da reperire, attuare e mantenere nel tempo. Tuttavia lo scrivere offre secondo me una serie di spunti i cui pregi non possono venir trascurati. Scrivere di qualcosa, indifferente il tema scelto, deve essere concepito come una piccola opera d’arte; come un dipinto, un manufatto, una poesia o una composizione musicale. Che l’esito sia del tutto modesto rispetto all’intenzione originaria, non ha importanza; la coscienza sa come e in quali circostanze e da quale livello si è deciso di agire, e questo le frutta sempre un titolo a favore della crescita.
Inoltre uno scritto, come una qualunque cosa che si costruisca giorno dopo giorno, dà modo di venir riveduto, ripensato, modificato, corretto. Quando pensiamo e ancora di piú quando parliamo, non ci preoccupiamo solitamente dell’insieme di pensieri, parole, frasi e toni usati: li esterniamo e siamo indotti a credere che gli ascoltatori, noi stessi e altri, abbiano capito e afferrato ogni cosa in maniera compiuta, libera da equivoci.
È un’ingenuità che con una certa esperienza maturata negli anni dovrebbe scomparire, tanto piú se si è incamminati sul sentiero dello Spirito. Non posso parlare per tutti, questo è ovvio, ma personalmente attribuisco molta importanza al momento di vita interiore in cui si viene a capire che, in qualche modo, pur latente e motivato, anche giustificabile sul piano umano, abbiamo barato con noi stessi e fatto passare per oro di coppella dei semplici luccichii di metallo piuttosto vile.
Abbiamo voluto credere ai riflessi in cui era comodo credere, ma una cosa è la Luce, un’altra sono i fosfeni. Scambiare una sorgente di Vita con le manifestazioni di un’alterazione patologica rivela e denuncia la serietà del problema in corso.
Simile alla maggior parte dei lavori che devono venir eseguiti nel tempo, la scrittura dà modo di riguardare le parole adoperate, le frasi nella loro composizione e l’efficacia del senso che in esse si vuole racchiuso. Quel che pareva chiaro e limpido nel momento creativo, potrà apparire oscuro e contorto all’indomani, quando con diversa disposizione, si va a ricontrollare la pagina o le pagine in cui abbiamo inciso le nostre riflessioni.
Si riesce a capire che l’aver voluto esprimere un determinato concetto non basta a che esso sia compreso da quanti si prenderanno la briga di leggerlo. Quindi scrivere e rivedere, scrivere e modificare, scrivere e limare, togliendo il superfluo, sostenendo l’essenziale, evitando prosopopea e leziosità, è un lavorío che richiede un continuo serrato dialogo con se stessi, nel quale il soggettivo deve in qualche modo farsi i conti in tasca e inchinarsi alla nitidezza dell’oggettivo.
Come nelle comunità educative il compito reale del maestro consiste nel rendersi superfluo, cosí anche nello scrivere l’autore deve saper sparire dalla scena. Prima però deve svelarsi con l’anima nuda e disarmata davanti a se stesso, e poi davanti a un pubblico, oggi non ancora costituito, ma che in tempi successivi troverà utile, forse piacevole, ripercorrere l’intimo cammino di quei pensieri scritti, e in qualche caso potrebbe anche produrre ulteriori sviluppi.
Altrimenti resta comunque l’impegno del dialogo con se stessi, un lavoro inestimabile che si svolge grazie al pensare, non patisce limitazioni contingenti, nel suo farsi si solleva da ogni umano fardello, si sottrae alla gravità e si affaccia a una dimensione in cui il divenire del creato e delle creature nell’eternità dello Spirito non appare soltanto logico e possibile, ma, di contro, fa sembrare preoccupantemente ingenuo il non convincersi e triste il non accoglierlo.
Vi è anche un altro elemento a privilegiare la parola scritta rispetto alle altre forme in cui essa può manifestarsi; ed è l’assunzione della responsabilità da parte della coscienza. Fintanto che penso, non devo nulla a nessuno, non mi sento in obbligo nei confronti di Tizio o Caio, anche quando i miei pensieri sono tutt’altro che gentili nei loro confronti. Se invece prendo parola e comunico verbalmente le mie opinioni, allora il mio grado di responsabilità aumenta; devo tener conto di chi mi sta davanti, della situazione in cui parlo; controllare il tono di una mia eventuale animosità, perché l’esternazione verbale si lega sempre a uno stato d’animo ben specifico che, se mal orchestrato, potrebbe invalidare anche il piú serio e ragionato dei discorsi.
C’è infine il grado di responsabilità legato alla parola scritta; qui evidentemente il livello d’allerta della coscienza deve porsi al massimo livello. Verba volant, scripta manent, dicevano saggiamente i nostri antichi, Lo scritto rimane e può venir letto sempre da chiunque, perciò è una specie di comunicazione rivolta al futuro, laddove la platea dei lettori può essere ragguardevole se non infinita. Questa verità, sorretta da un sentimento che le corrisponda appieno, invita lo scrittore, professionista o dilettante che sia, ad esporre le sue cose con ponderazione ed esattezza; se vi si aggiunge un pizzico di serena modestia, meglio ancora.
Non tutti hanno, o riescono a trovare, il desiderio di affidare a carta e penna il loro pensiero sul periodo delle Festività che chiudono un anno e ne aprono uno nuovo. Per alcuni questo compito potrebbe presentarsi come una baggianata insulsa e perditempo. Ma io credo che anche la piú moderna ed agguerrita delle psicanalisi indichi, come primo rimedio per sottrarsi alla morsa delle problematiche esistenziali (se non esistenzialistiche) quello di eseguire per bene un qualche cosa che di norma si riterrebbe completamente inutile e defadigatorio.
Cimentarsi a costruire in poche righe quel che uno pensa sul nuovo anno che sta iniziando può essere un esercizio che magari non porterà alla abituale concretezza dei risultati ottenuti, non sarà un pacchetto regalo da mettere nella calza della Befana, assieme a cianfrusaglie confezionate che dovrebbero rendere lieto e allegro il deserto del consumismo, ma sarà comunque un esercizio rivelatore. Ed è questo che conta: venire a sapere cosa portiamo dentro di noi, o in alternativa cosa abbiamo lasciato fuori, e quindi ci manca. È sempre meglio poter acquisire questa conoscenza in via anticipata e con risorse proprie, che non dopo, attraverso il consulto di medici, analisti o psicoterapeuti.
Non dispongo di mezzi atti a convincere le persone con le quali mi rapporto; nemmeno li vorrei, anche se ogni tanto la tentazione ci sarebbe. Ma dal momento che ad impossibilia nemo tenetur mentre per le possibilia c’è posto per tutti, potrei prendermi l’impegno di questo compitino e cominciare a svolgerlo in solitaria, nel modo che credo migliore, ovvero corrispondente alle mie concezioni sulla Festività religiosa che ogni anno celebriamo, di cui molto si dice, per cui molto si fa, ma il cui significato pare resti comunque in sospeso: cosí almeno è capitato a me per lungo tempo. Ma ogni cosa ha un suo corso e anche i pensieri, come le gestazioni, devono prendersi i periodi necessari.
Inizio con un moto di franca simpatia, ricordando un paio di versi tratti da “La Buona Novella” di Fabrizio De Andrè: è un testo che riascolto spesso, e talvolta mi recito interiormente, perché lo sento amico, profondamente evocativo: «…Nel grembo umido, freddo del tempio, l’ombra era scura, gonfia d’incenso…». La ritengo un’intonazione giusta, forse perfetta, allo scopo cui mi accingo (per qualche misteriosa ragione, infatti, il periodo che va dal Natale all’Epifania, per me cominciò cosí, con questa atmosfera rarefatta, un po’ cupa ma promettente; e tale proseguí poi per molti anni).
Abbiamo tutti col Natale un rapporto primario; ma la religione, la fede e l’osservanza dei comandamenti qui c’entrano poco. Sappiamo del Natale in quanto siamo nati, sicuramente nati. Col nostro venire al mondo il corpo ha acquisito l’esperienza della nascita, del nostro nascere; da quel momento in poi non la dimenticherà piú. Nulla importa se il ricordo è sparito dalla nostra testa, se la nostra anima non trova nemmeno una lontana eco di quel momento magico in cui per la prima volta abbiamo aspirato l’aria del mondo, abbiamo emesso il primo vagito e abbiamo cominciato a vivere di vita autonoma. La nascita c’è stata, tant’è vero che siamo qui e il nostro pensiero può converge su quello specifico avvenimento.
L’apparato umano potrà dimenticare, anche rinnegare se vuole, ogni sua forma di passato; non potrà però mai cancellare l’evento che da una dimensione sconosciuta, attraverso il grembo materno, lo ha condotto alla luce del sole. Non fa parte del repertorio di cose nelle quali si può credere o non credere, abbiamo in noi la certezza assoluta di quel che è stato, non ci servono testimoni. Mi fu raccontato che, all’epoca, il mio arrivo al mondo si accompagnò alle sirene di allarme dell’anti-incursione aerea; beh, fu un modo originale per salutarmi e provo gratitudine per gli allarmisti scrupolosi che indirettamente hanno sottolineato la mia festa.
Perché io credo che un venire al mondo sia sempre una festa, anche se il senso di questa festa, che è la festa della Vita, sembra sempre piú spostato nelle ombre della negligenza e della trascuratezza.
Quale forma di messaggio destinato dal Divino all’umanità intera, avrebbe potuto essere piú precisa, comprensibile e convincente, di una semplicissima nascita naturale, avvenuta nel pieno rispetto delle leggi terrene, in circostanze cui si potevano attribuire ogni sorta di aggettivi, ma che, certamente, erano limpidamente distanti da quelle rappresentazioni di sacralità, di potere magico, d’importanza cosmica, che gli uomini sono capaci di produrre navigando a vista tra spiritualità, fantasia e speranza. Solamente in seguito, sarebbero fiorite qua e là, in modo rigoroso ed efficace, nel cuore e nell’anima di alcuni coltivatori dell’interiorità, rimasti magari anonimi o per lo piú sconosciuti.
Eppure l’avvenimento si pone con una chiarezza esplicita, direi lampante: tu sei nato? E allora ricordati che anche il Figlio di Dio nacque come te; anzi, molto probabilmente in maniera meno agevole e confortata. Tutto ciò solo per mettere l’accento su quel fatto: nessuno ti chiede d’inginocchiarti, di pregare o di portare doni, non sei un pastorello. Nessuno ti chiede neppure di tentare di svelare il mistero del Natale, accogliendo in visione apocalittica il suono delle trombe angeliche e il richiamo orientativo delle stelle.
È stata forse magica la tua nascita? No, anzi; i medici sono stati rassicuranti: «Tutto bene – hanno detto agli interessati. – Complimenti!».
Però l’accostamento c’è, valido al cento per cento: Gesú è venuto al mondo come lo sei venuto tu: nudo, inerme, infreddolito e affamato. Può essere che questo non smuova di una virgola la tua attuale concezione del mondo, della vita e di te stesso.
Quando però, passata l’Epifania, starai per riporre nuovamente nella scatola il presepe, con i personaggi, la carta-montagna e le lucette che si accendono e spengono a intermittenza, pensaci su, anche solo per un breve attimo. Concentrati e osserva quel pensiero, lascia che scorra in te brillante di luce nuova. La luce di quel pensiero è l’unica a non spegnersi mai. Beninteso, una volta accesa.
Per alcuni, porre sul medesimo piano della propria nascita la venuta al mondo di un Redentore, potrebbe costituire un problema. Peggio che paragonare la pila di Volta a una centrale nucleare. Ed è quindi bene svagare il dubbio, peraltro pleonastico, fin dal suo apparire. Se non connetto la modalità del mio evento con quella del Gesú Bambino, se attingo alle radici della mia vita separatamente da quelle della Sua, anche quest’anno non ho appreso nulla dal Natale. Posso averlo trascorso tra canti e panettoni, tra messe e cene in famiglia, tra regali ricevuti e atti di carità eseguiti con ordinaria puntualità; ma anche questo Natale resterà solo una data scritta in rosso sul calendario di cucina.
E non mi serviranno le Scritture dei Padri della Chiesa né le conferenze dei Maestri dello Spirito, esse rinnoveranno in me solo la nostalgia per ciò che non ho fatto, per quanto mi sono rifiutato di fare. Con maldestra furbizia mi ero pure accampato delle scuse intelligenti: tutto questo era troppo al di sopra delle mie possibilità; oppure, non ho avuto tempo per queste fantasticherie natalizie, avevo cose piú importanti da fare che richiedevano tutto il mio impegno.
Quindi, in un primissimo aspetto dell’umana libertà, troviamo anche le opposizioni del mendace e dell’ipocrita; ci si nega una verità dimostrabile a tutti gli effetti, pure su quel piano del criterio scientifico sotto il cui giogo pare che oggi debba passare qualsiasi nostra affermazione; e ci si convince, con sempre meno sforzo, che la moderna visione materialistica del mondo sia sufficientemente buona per tirarla avanti cosí.
Il Natale parla al corpo, al mistero della corporeità; ma è un parlare che non si sa piú udire. Eppure nascosto oltre l’universo di molecole, atomi, geni e cromosomi, dietro le galassie del DNA, le costellazioni dell’Epigenetica, il Sole della nostra origine splende e ama senza tregua. Hanno dovuto compiere viaggi lunghissimi coloro che cercavano l’Anello di Congiunzione tra il regno animale e quello umano, eppure non sono nemmeno paragonabili al viaggio che si deve compiere in se stessi per trovare la Congiunzione con il Divino. C’è una coscienza umana capace di contemplare il Natale?
Sento girare un mormorio: «Ma come? E l’anima? E lo Spirito? Dove li mettiamo?».
Un momento di pazienza, ce n’è per tutti. Ma bisogna procedere per gradi.
Il Natale è la stazione di partenza. Basta accoglierlo per quel che è, senza aggiungere, senza togliere nulla. Già questo non è facile. Anzi; mi correggo: accolgo, e aggiungo, un pensiero sintesi di Rudolf Steiner. È la prima parte di una sua meditazione. Ogni volta che sorgono perplessità natalizie che vorrebbero indurmi a sospettare un’esagerazione nelle riflessioni svolte, me la ripeto con gratitudine, riconoscendo la sua funzione rettificatrice:
«Io sono venuto al mondo portando con me l’eredità del pensare. La forza di un Dio mi ha guidato dentro la morte. Essa sta al termine della via».
Come i cieli passano sopra di noi, anche la Festa di Natale è passata, ma se conserviamo nel cuore l’impulso che in qualche modo ci ha fornito la consapevolezza dell’originaria divinità del nostro nascere, abbiamo allora attraversato con il giusto passo il periodo immediatamente successivo all’avvento del Bambino Gesú, ossia il periodo delle Dodici Notti Sante (sul finire degli anni ’80, Sergej Prokofieff trasse un libro davvero interessante che recava tale titolo). L’umana coscienza, accolto il valore della nascita fisica e di quel che ad essa si riconnette grazie alla congiunzione con l’avvenimento superiore, indelebilmente impressa nella corporeità ma conquistata per via intuitiva, si avvia verso una ulteriore tappa fondamentale del suo percorso.
Sappiamo che i Re Magi vennero dall’Oriente alla “casa” del Bambino (salomonico) portando in dono oro, incenso e mirra: quel che vi era in quei tempi di piú prezioso al mondo. Il loro viaggio si svolse quindi da Est ad Ovest, come il viaggio quotidiano del Sole su di noi.
Il titolo di Re attribuito ai tre Maghi d’Oriente, ricorda quanto in Astrologia analitica si racconta a proposito della Via dei Re-(Pescatori). In breve, chi percorra i dodici segni astrologici, da Ariete ai Pesci, risolvendo le varie opposizioni zodiacali – nel senso che avrà saputo trasformare le correnti ostative in forze virtuose e propositive atte alla propria evoluzione – giunto alla dodicesima Stazione (Segno dei Pesci), potrà, dopo la morte, assidersi sul Trono dei Re, nella Sala delle Udienze, e col concorso delle Forze Cosmiche ivi presenti, potrà contribuire coscientemente alla formazione del suo futuro esistere sulla Terra.
Questa potrebbe essere un’analogia forzata, ma vi sono in essa degli elementi che non è semplice trascurare. La superstizione non ha nulla a che vedere con l’osservazione scientifica, tanto piú quando l’attenzione viene rivolta al Mondo spirituale. Mi sembra tuttavia un pensiero confortante l’essere venuto a conoscenza che il valore dei doni dei Re Magi non si estinse nel loro preziosismo né essa fu la causa del conferimento.
Massimo Scaligero ci ha insegnato che l’oro è la traccia del Sole sulla Terra e Rudolf Steiner ci ha rivelato quale fu il percorso zodiacale e attraverso quali regioni celesti il Cristo Logos discese nel mondo per unirsi poi al Gesú di Nazareth, al momento del battesimo nel fiume Giordano.
L’incenso: il passaggio dallo stato solido a quello aeriforme si indica come “sublimazione”. Si tratta di concepire un qualche cosa che dalla greve concretezza del materiale sia in grado di rendersi aeriforme e di elevarsi al sublime.
La mirra è una specie di resina medicamentosa che serviva, nei tempi che furono, soprattutto per imbalsamare i cadaveri dei defunti. Quanto meno quelli i cui parenti potevano permettersi il lusso di quel trattamento postmortem, o che il defunto stesso, per possibilità personali, se l’era predisposto fin da vivo.
Riepilogo: in un organismo fisico partorito secondo le leggi biologiche, vive e si sviluppa un punto interiore che è possibile definire “coscienza”. Non sta al di fuori, o presso, o in congiunzione con l’anima. Ne sta dentro, allo stesso modo in cui il centro di una circonferenza sta alla circonferenza stessa. Ne fa parte, ma è una parte speciale, in quanto capace di dedurre, sintetizzare, organizzarsi e decidere, dapprima a livelli elementari, poi via via in misura sempre piú significativa.
I doni dei Magi sono gli aiuti che il mondo spirituale accorda alla coscienza che sappia, voglia e possa percorrere in modo vittorioso la Via dei Re; terminando questa nel Segno dei Pesci venne nominata anche la Via dei Re Pescatori.
Ciò che Gesú di Nazareth ricevette quindi in regalo da parte dei Magi fin dalla Sua primissima infanzia, le coscienze degli altri esseri viventi devono sapersele conquistare e meritare in seguito, negli anni tra nascita e morte, accogliendo i fatti della vita, lavorandoci sopra con l’apporto di tutte le forze interiori, che si sviluppano giorno dopo giorno sotto i nostri occhi, anche se quasi mai ci si rende conto di una tale crescita.
Se dovessi stilare una classifica comparativa tra i doni dei Magi e le conquiste dello Spirito umano, direi che l’oro è rappresentato dalla conoscenza indirizzata verso il metafisico, o dalla ricerca del divino in se stessi e nel mondo; l’incenso consiste nella capacità di sollevare la propria anima dalla cupa se non tragica realtà quotidiana, che cerca di trasformare l’esistenza degli uomini in una lotta senza quartiere, ove ognuno è costretto a combattere per sopravvivere o per sopraffare – due verbi che stanno terribilmente unificando i loro significati – e la virtú della mirra è invece rivolta a fortificare l’azione contraria a quelle disgregatrici del male. Il desiderio di conservare integre le spoglie mortali, di non abbandonarle ai processi decompositivi della materia, ci racconta un sentimento di attaccamento alla terra di cui pure facciamo parte, ma altresí ci parla anche di un sentimento d’amore, di gratitudine per quel corpo che in vita abbiamo abitato e adoperato in mille maniere. È stato il compagno e il custode di infinite sensazioni, abbiamo provato assieme a lui gioie e dolori, la cui esperienza fu determinante per la nostra crescita. Forse la forma dell’imbalsamazione può sembrare, in questa epoca, ingenua e inadeguata, ma nell’impulso da cui essa è sorta nell’anima degli antichi, sono ravvisabili (per chi sa vederle) le attuali tendenze, appena in abbozzo e disorganizzate, di salvare la natura del pianeta, di proteggere gli animali, di evitare il loro estinguersi, di rispettare la flora e gli ambienti, e di imparare (o ri-imparare) a vivere secondo un canone che da molto tempo sembrava dismesso.
L’amore per il corpo con il quale ci si è dovuti identificare durante il periodo tra nascita e morte, non ha bisogno, oggi come oggi, di venir mummificato e conservato in sarcofagi, ma ha invece bisogno di venir amato alla luce di una conoscenza superiore, una conoscenza che abbia saputo andare oltre all’amore di sé, oltre all’egoismo, con il quale, agli inizi del cammino, la coscienza ha dovuto fare i conti, e dal cui potere centripeto non si è mai potuta del tutto liberare finché la morte fisica non presenti le credenziali.
Tutto questo può apparire fantastico e sconvolgente; non ci sarebbe nulla di male. Accadde anche a me, al tempo in cui mi nutrivo affrettatamente di conferenze antroposofiche e del contorno chiacchieroso che suscitavano nei partecipanti. Ma prima o dopo, ciascuno trova la sua metodologia e regola il proprio passo all’asperità della strada.
Cosí attraverso le Dodici Notti Sante, attraverso il percorso zodiacale che congiunse il Cristo Logos col Gesú di Nazareth, possiamo rivolgerci adesso alla festività dell’Epifania. Sul piano degli eventi storici che si svolgono di necessità nel tempo e nello spazio, trenta furono gli anni che separarono il Natale del Bambino Gesú dal Battesimo nel Giordano.
Per le nostre coscienze di esseri ancora tendenti al perfezionamento interiore, i tempi saranno diversi; noi non possiamo svolgere il cammino dal terrestre al divino in un’unica incarnazione; anzi, spesso vanifichiamo alcune e siamo in qualche modo costretti a “ripetere l’anno” come scolaretti indisciplinati e svogliati.
Ma anche a forza di “ripetere”, la coscienza va avanti, cresce, si sviluppa e maturando esige da se stessa nuove mete e nuovi impegni. Ci fu un tempo in cui questa coscienza, appena sbocciata, ancora timida e delicata, cominciò a chiedersi “Dov’è il Re dei Re?”. L’impulso intimo di doverlo cercare al di là del tempo, al di là dello spazio, l’avviò su quel sentiero in cui seppe diventare Autocoscienza, e quindi Coscienza dell’Io. Le forze rinnovate e compenetrate dai doni spirituali (sono la medesima cosa vista da due punti di vista contrapposti) l’hanno condotta fino alla soglia della Manifestazione, fino all’Epifania.
Ora, su di lei, su questa coscienza umana che ha svolto un lunghissimo cammino, la discesa e il posarsi dello Spirito Santo possono coronare l’opera svolta. È l’ultima Iniziazione.
Qui la Realtà del Mondo inferiore si illumina della Verità del Mondo superiore. Nella coscienza dell’uomo il Principio di Non Contraddizione si presenta con la sua piú completa e totale sintesi: concetto e percezione si fondono in un’esperienza unica, volta al singolare.
Angelo Lombroni