I precursori del Cristo: i Mediatori angelici
Quando il Cristo entra per la terza volta a Gerusalemme, annuncia la sua imminente passione (Gv 12, 32-34) e dice: «Io, quando sarò elevato da terra, attirerò tutti a me». I farisei lo contestano dicendo che in base alla tradizione ebraica il Messia non dovrà essere innalzato (ypsōthêvai), ma dovrà rimanere per sempre (menei eis ton aiōna) sulla Terra. Secondo la mentalità ebraica infatti il Messia era una personalità ben diversa dalle Entità angeliche che erano intervenute in forma umana nella storia d’Israele.
La mistica ebraica precristiana ammetteva l’esistenza di alcuni “Mediatori celesti” che, dopo essersi incarnati sulla Terra, erano stati angelicati dalla tradizione perché risparmiati da morte: Henoch ed Elia, i piú grandi di questi mediatori, erano stati sottratti al morire, infatti del primo si dice che «camminò con Dio e non fu piú perché Dio l’aveva preso» (Gen 5, 24); del secondo è detto che «mentre [Elia ed Eliseo] camminavano conversando, ecco un carro di fuoco e cavalli di fuoco si interposero fra loro due. Elia salí nel turbine verso il cielo» (2 Re 2, 11). Entrambi questi “Mediatori celesti” furono angelicati, perché in realtà erano dei Bodhisattva celesti, angelici, che non si erano completamente incarnati sul piano umano, in quanto non era ancora venuto il Cristo.
Il patriarca Henoch fu identificato, dopo la sua ascesa, con l’angelo Metatron [dal greco metathronios, “che sta presso il trono”, o dal latino metator, “misuratore di confini, agrimensore”], un angelo che ha una serie di titoli. Nella letteratura degli Hekhalot, Metatron è generalmente considerato il primo e il piú alto degli angeli, il Ministro della Presenza o il Principe del Volto, in quanto posto alla soglia del settimo Palazzo, il piú alto situato sotto il Trono della Gloria e piú volte identificato con la stessa Presenza divina (Šekinah) in esilio. Egli è l’angelo portatore del Nome impronunciabile di Dio, perciò denominato Yaho’el (ove Yaho è abbreviazione di yhwh), ma è anche il “grande scriba celeste” seduto su un trono, intento a registrare le buone azioni di Israele, dunque è il difensore di Israele nel Tribunale celeste, e per questo talvolta fu assimilato all’Arcangelo Michele. La letteratura mistica lo chiama “il Giovincello”.
Anche Elia era un Mediatore angelico, un Bodhisattva celeste, secondo la tradizione mistica precristiana, tanto che si legge nella Bibbia: «Ecco, io manderò un mio angelo a preparare la via davanti a me e subito entrerà nel suo tempio il Signore, che voi cercate» (Malachia 3, 1); questa visione angelica di Elia non si è limitata all’ebraismo mistico, ma è penetrata perfino nel cristianesimo ortodosso: molte icone raffigurano Giovanni Battista, inteso come Elia redivivo proprio da alcuni Sinottici, come l’angelo del deserto, dotato di possenti ali colorate. Henoch ed Elia, le grandi anime umane angelicate dal misticismo ebraico, i grandi Mediatori celesti, non avevano conosciuto la morte, erano state preservate da questa prova.
Ai primordi del cristianesimo, le prime comunità giudeo-cristiane – che ancora non avevano ben compreso la natura divino-umana del Cristo – piú volte assimilarono la sua figura a quella di un “Mediatore celeste”, insomma a un angelo, che dopo la sua missione terrena veniva di nuovo “angelicato”, assunto in cielo. La lettera di Paolo agli Ebrei afferma la superiorità del Cristo sugli angeli appunto per smentire coloro che sulla scia del giudaismo mistico pensavano che il Cristo fosse un essere angelico: credevano che fosse stato «l’angelo che salvò gli Ebrei dall’Egitto» (Giuda 5-6; Numeri 20, 16) oppure l’angelo portatore del Nome segreto e impronunciabile di Dio (Esodo 23, 20-21), l’angelo che gli stessi mistici ebrei hanno piú volte anche identificato con Michele, Yahoel e Metatron.
Questa ipotesi potrebbe essere avvalorata da alcune citazioni neotestamentarie:
Filippesi 2, 9: «Dio lo ha esaltato e gli ha dato il nome che è al di sopra di ogni nome»;
Giovanni 17, 11-12: «Padre santo, custodisci nel tuo nome coloro che mi hai dato, perché siano una cosa sola, come noi».
In realtà nella prima citazione Paolo non si riferisce al nome segreto di Dio ma al nome Kyrios, mentre Giovanni non può che riferirsi al nome che unifica il Cristo al Padre, cioè l’Io sono (egò eimi). Nell’ottica di Giovanni il nome segreto non è infatti Yhwh ma “Io sono”. Quando dunque lo stesso Giovanni (12, 32-34) fa dire al Cristo: «Io, quando sarò elevato da terra, attirerò tutti a me», per evitare confusioni di sorta aggiunge: «Questo diceva per indicare di qual morte doveva morire».
Tutta la soteriologia di Giovanni nega che il Cristo sia un emissario delle Gerarchie spirituali, un Mediatore celeste: il Cristo è parte del Padre, Logos di Dio, preesistente alla creazione. Egli, incarnandosi sulla Terra, ha affrontato l’esperienza della materia che ciascuno di noi quotidianamente affronta. Henoch ed Elia erano stati preservati da morte: proprio come gli dèi dei Misteri morirono solo metaforicamente, il Cristo invece, quale viene predicato da Giovanni, può scendere piú in basso di qualsiasi entità angelica, perché appartiene a una regione piú alta degli angeli. Ha vissuto la morte per dare all’umano la Resurrezione già all’indomani della Pasqua, senza che l’uomo attenda il regno dei cieli o la Seconda Venuta, la Parousia. Grazie alla Resurrezione del Cristo l’uomo può già godere dell’Io sono: questo il senso dell’escatologia realizzata di cui è portavoce Giovanni.
L’esaltazione dell’Agnello
Il simbolo dell’Agnello, che attraverso le parole del Battista ha accompagnato il battesimo nel Giordano e poi la Crocifissione, ritorna infine come figura gloriosa, vittoriosa, nell’Apocalisse. In questo libro l’Agnello è citato ben 29 volte e viene presentato come il simbolo del Risorto. Nel capitolo 5 (vv. 6-14) si dice: «[6] Poi vidi ritto in mezzo al trono circondato dai quattro esseri viventi e dai vegliardi un Agnello, come immolato. Egli aveva sette corna e sette occhi, simbolo dei sette spiriti di Dio mandati su tutta la terra. [7] E l’Agnello giunse e prese il libro dalla destra di Colui che era seduto sul trono. …[11] Durante la visione poi intesi voci di molti angeli intorno al trono e agli esseri viventi e ai vegliardi. Il loro numero era miriadi di miriadi e migliaia di migliaia [12] e dicevano a gran voce:
“L’Agnello che fu immolato è degno di ricevere potenza e ricchezza, sapienza e forza, onore, gloria e benedizione”. [13] Tutte le creature del cielo e della terra, sotto la terra e nel mare, e tutte le cose ivi contenute, udii che dicevano: “A Colui che siede sul trono e all’Agnello lode, onore, gloria e potenza, nei secoli dei secoli”. [14] E i quattro esseri viventi dicevano: “Amen”. E i vegliardi si prostrarono in adorazione».
L’Apocalisse (17, 14) dice anche che nel combattimento contro i sostenitori della Bestia, «l’Agnello li vincerà, perché è il Signore dei signori e il Re dei re e quelli con lui sono i chiamati, gli eletti e i fedeli». Poco oltre, quando descrive la Gerusalemme celeste, l’Autore aggiunge: «Non vidi alcun tempio in essa perché il Signore Dio, l’Onnipotente, e l’Agnello sono il suo tempio» (21, 22). Questo Agnello trionfante sostenuto dalle quattro Potenze celesti (le Hayyot) è ritratto nel mosaico che adorna la volta del presbiterio della chiesa paleocristiana di San Vitale, a Ravenna. Il mosaico sembra quasi voler dire che l’Agnello di Dio circondato dagli angeli non è una realtà spirituale lontana dalle nostre menti, al contrario è una potente realtà interiore che parla ai nostri cuori.
L’Apocalisse (7, 17) presenta infatti l’Agnello come colui che dà la Vita: «L’Agnello che sta in mezzo al trono sarà il pastore [degli eletti] e li guiderà alle fonti delle acque della Vita». Già nel Vangelo di Giovanni la Vita è uno degli appellativi del Cristo: «Io sono la resurrezione e la Vita», dice il Signore a Marta prima di resuscitare Lazzaro; «Io sono la Via, la Verità e la Vita», dice a Filippo la sera dell’Ultima Cena. Questa Vita per Giovanni è Zoè, la Vita dello Spirito, ben diversa dalla vita individuale o biologica, espressa dalla parola bios o psyché. Già il profeta Daniele aveva presagito da lontano la vita eterna dello Spirito e l’aveva immaginata come il premio finale e ultraterreno concesso ai Giusti in seguito alla resurrezione dei morti. La credenza nella resurrezione dei morti si sviluppò per gli Ebrei nel corso dell’esilio (Is 26, 19; Ez 27; Dn 12, 2), tanto che al tempo di Gesú essa era molto diffusa. Lo attestano le stesse parole che Marta rivolge al Cristo prima del miracolo di Lazzaro, il premio di una nuova individualità, di un nuovo corpo spirituale: «Molti di quelli che dormono nella polvere della terra si risveglieranno: gli uni alla vita eterna (hayyí ‘olam) e gli altri alla vergogna e per l’infamia eterna. I saggi risplenderanno come lo splendore del firmamento; coloro che avranno indotto molti alla giustizia risplenderanno come le stelle per sempre» (Daniele, 12, 2-3).
Il corpo spirituale che i profeti avevano contemplato come premio dei Giusti, il corpo immortale e luminoso che gli Iniziati contemplavano uscendo dal corpo fisico: questo corpo il Cristo fa all’umanità dopo il sacrificio del Golgotha: è l’Io Sono, la forza in grado di rinnovare e di trasfigurare tutta la nostra natura, dunque i corpi fisico, eterico e astrale e di trasformarli in Via, in Verità, in Vita. Il fulcro di tutta la nostra evoluzione umana è l’Io, come il fulcro di tutta l’evoluzione cosmica è il mistero del Golgotha.
L’esperienza moderna delle quattro feste dell’anno
Per rivivere nei nostri cuori il senso della Pasqua, dobbiamo partire dal senso delle quattro feste che secondo l’Antroposofia scandiscono il corso dell’anno.
San Michele è nata come festa cristiana del 29 settembre dopo il VI secolo, prima nelle chiese dell’Africa e dell’Asia si festeggiava San Michele l’8 novembre assieme ai piú grandi angeli. Questa festività, che sorse dunque per celebrare non soltanto San Michele, ma tutti gli angeli, risuona nell’anima come la festa del cosmo e delle Gerarchie, come il ricordo del Logos disincarnato che gradualmente discende lungo le Gerarchie, attingendo in particolare le forze angeliche (astrali) dalla sfera delle Potestà, le Exousiai. Dal 29 settembre al 25 dicembre intercorrono esattamente dodici settimane. In questo periodo l’uomo è chiamato a sentirsi in sintonia con il cosmo, con le dodici costellazioni, con i dodici punti di vista dell’universo: in questo periodo ci sentiamo figli del cosmo, che gratuitamente, come un dono, ci elargisce la percezione di discendere dal Bene. È un tale impalpabile dono che l’anima umana, negli altri periodi dell’anno, quasi dimentica questa sensazione e la rievoca a fatica.
Natale non era originariamente una festa di origine cristiana, ma pagana. È nato come festa solare ed è un residuo dei culti del dio Sole che si erano diffusi nel tardo Impero, soprattutto il culto di Helios di Emesa, patrocinato sia dall’imperatore Elagabalo (218-222 d.C.) sia da Aureliano (270-275). Il 25 dicembre era il giorno natalizio di tutti gli dèi del Sole di origine orientale e a Roma, in questo giorno, ogni quattro anni si teneva un agone dedicato al Deus Sol Invictus, il dio Sole Invitto: questo «nuovo dio era il simbolo astratto, politico-spirituale dell’Impero, che abbracciava tutto il mondo» (Franz Altheim, Il dio invitto. Cristianesimo e culti solari, Milano 1960). Gli imperatori del tardo impero si sentivano incarnazioni del dio Sole e come tali erano venerati dal Nord Europa all’Asia, perché tutti i popoli possedevano il culto del dio solare. Anche Costantino fu un seguace del dio Sole, prima di divenire cristiano, tanto che fino al 317 mantenne sulle monete il conio del Sol Invictus. Gli antichi astronomi avevano associato il Sole al 25 dicembre perché l’astro in questa data rinasce, comincia a risalire dopo il solstizio invernale. Anche l’Epifania sorse da una festa pagana: il 6 gennaio ad Alessandria si festeggiava la nascita del dio Eone da una vergine (Kore). La notte precedente si attingeva acqua salutare dal Nilo, che secondo la credenza si doveva trasformare in vino.
Nell’esperienza cristiana questa rinascita del Sole è sentita come la nascita dell’uomo dal grembo del cosmo. Questa gestazione cosmica dell’anima umana culmina sotto forma di stella che scende sul Bambino. Il cosmo divino-spirituale incombe sul Bambino: a questo mistero i Rosacroce allusero con il mantra Ex Deo nascimur. A Natale sperimentiamo il nostro nascere da una lontana origine spirituale, cosí, dopo Natale, cominciamo a crescere tutti come uomini, senza avvertire la presenza delle Gerarchie, che tuttavia mai ci abbandonano. Tra Natale e Pasqua riviviamo in chiave individuale le forze che abbiamo ereditato dal cosmo, ripercorriamo sul piano individuale il cammino che ci ha portato a sviluppare i nostri involucri umani, il corpo fisico, eterico e astrale.
Pasqua e Pentecoste non sono nate come feste cristiane o pagane, erano già feste ebraiche, tipiche feste agricole, che in origine celebravano rispettivamente la rinascita primaverile della vegetazione e la maturazione delle messi, la mietitura. L’antico popolo d’Israele le trasformò in feste storiche, nel senso che a Pasqua commemorava la liberazione dall’Egitto e a Pentecoste il dono della Torah.
Ciò che gli antichi Ebrei vivevano allora come esperienza di popolo, noi oggi siamo chiamati a viverlo sul piano individuale: se la Pasqua era per loro la liberazione della comunità, noi vi dobbiamo cogliere un’esperienza puramente interiore.
Che cosa ci comunica l’esperienza della Pasqua? Che cosa ci suggerisce l’immagine dell’Agnello che muore e viene esaltato?
Come a Natale diamo l’addio al cosmo, per nascere come uomini, cosí a Pasqua diamo l’addio all’umanità, alla Terra, per rinascere nel cosmo. Come a Natale prendiamo come modello della nostra nascita umana il Bambino, cosí a Pasqua prendiamo come modello della nostra nascita cosmica il Dio-Uomo. Come a Natale ci lasciamo ispirare dalla nostra patria celeste, la profondità del cielo stellato, cosí a Pasqua ci lasciamo ispirare invece dalla nostra patria terrena, dal rigoglio della natura primaverile che rinnova le nostre forze di crescita interiore e di guarigione, grazie all’aiuto dell’Arcangelo Raffaele, l’angelo della primavera, che anima il colore verde dell’arcobaleno e che, secondo lo Zohar, presiede alle prime ore del mattino portando sollievo ai malati.
La Pasqua ci invita innanzitutto a riconoscere la positività del dolore.
Il cristianesimo istituí i quaranta giorni di Quaresima con l’astensione dalle carni, per far sí che l’uomo, in questo periodo, si confrontasse con il senso di caducità insito nella natura umana, con la condizione di incompletezza della nostra corporeità. Oggi possiamo riconoscere ancor piú adeguatamente il potere illuminante della sofferenza se entriamo nell’ottica della dottrina del karma.
Sul piano fisico moriamo una sola volta nella vita. A questo si riferisce lo scrittore della lettera agli Ebrei 9, 27-28, quando scrive: «E come è stabilito per gli uomini che muoiano una sola volta, dopo di che viene il giudizio, cosí Cristo, dopo essersi offerto una volta per tutte allo scopo di togliere i peccati di molti, apparirà una seconda volta, senza alcuna relazione col peccato, a coloro che l’aspettano per la loro salvezza». Ma già sul piano eterico moriamo piú volte nella vita, perché la vitalità si rinnova con i settenni, e dopo certe malattie. Invece sul piano astrale le nostre sensazioni muoiono di continuo: sono davvero istantanee, come dicevano i buddhisti. Ma anche Paolo dice in 1 Cor 15, 31: «Ogni giorno io affronto la morte». Oggi l’essere umano si è sprofondato terribilmente nella materia, sperimenta continuamente la morte. Rudolf Steiner ha dichiarato: «Durante la veglia le forze astrali espongono la testa organica costantemente alla morte. …Durante la vita terrestre l’uomo desto porta in sé, nella sua testa, una morte latente. La tendenza a morire è sempre presente, perché l’organismo astrale, nell’intento di spiritualizzare la testa, è il distruttore permanente delle forze vitali del cervello. …Avere una vita interiore cosciente significa far morire la vita organica» (R. Steiner, Filosofia, Cosmologia e religione nell’antroposofia, O.O. N° 215).
La coscienza dell’Io sorge nettamente dall’esperienza della morte: noi costruiamo la dimensione dell’Io sull’esperienza del morire. Si spegne l’exploit eterico della giovinezza per far sorgere la vitalità astrale; si spegne questa per far sorgere l’Io. La coscienza aggrappata al corpo astrale sperimenta continuamente la morte, la caducità della consapevolezza, finché almeno il corpo astrale non si riveste dell’abito morale dell’Io. Dice Rudolf Steiner (op. cit.) che «il Cristo è entrato in un corpo terrestre per risolvere per gli uomini – non con un insegnamento ma con le azioni – il grande enigma che già si poneva: l’enigma della morte». Se nella Settimana santa ci immergiamo nella lettura del Vangelo di Giovanni dal capitolo 13 al 19, assistiamo a un grande contrasto.
Nel lungo discorso dell’Ultima Cena Giovanni ci presenta il Cristo come mai nessuno lo ha presentato, come il Logos incarnato che prende su di sé il karma della Terra per un incommensurabile atto d’amore. Ma ecco che, poco dopo, l’evangelista ci descrive l’umanità del Cristo sbeffeggiata, percossa, uccisa: è lo stesso Cristo come icona del dolore. Noi ci riconosciamo in questo dolore, perché vi ritroviamo il peso delle nostre prove, l’oscurità del nostro dolore.
Il Cristo sperimentò la morte su tre livelli, e le stigmate ne sono appunto i segni. Queste stigmate si rivelano sul corpo dei mistici grazie alla imitatio Christi: sono quelle sugli arti (mani e piedi), dunque sulle zone del volere, quella sul torace, dunque sulla zona del sentire, infine vi sono quelle sul capo, sull’organo del pensare. Sul capo del Cristo fu posta una corona di spine, una specie di casco: durante la flagellazione il Cristo sperimentò, in nome dell’umanità, la morte dei pensieri, la morte del pensare riflesso. In realtà non solo i grandi stigmatizzati ma tutti noi portiamo sul nostro capo i dolorosi segni della morte del pensare. La resurrezione che siamo chiamati a vivere a Pasqua è in primis la resurrezione dei pensieri vivi dal pensare morto.
Non bisogna attendere che siano le cose, i fatti a trovarci le soluzioni del vivere – che è poi la fattualità del karma – ma risorgere nei pensieri e tessere un destino di luce sul piano superiore. L’aureola che circonda il capo del Risorto è già il segno della Resurrezione del pensare. Bisogna abituarsi a contemplare questa luce del pensare risorto.
L’anima rivive il sacrificio di Cristo come sacrificio della Luce che muore nel mondo per risorgere come Vita spirituale. Il Cristo sulla croce non è l’icona del cieco dolore, ma della forza trasfigurante del dolore, del suo segreto impulso di resurrezione: egli ha affrontato il dolore e la morte per trasformare il karma in veicolo di Resurrezione, si è preso il nostro dolore per darci la sua Resurrezione. Apprendiamo immaginativamente che nel dolore si può essere mansueti e innocenti, «come un agnello condotto al macello», secondo l’immagine messianica di Isaia (53, 7). Cogliamo allora il fulcro della visione cristologica della Patristica greca, che per bocca di Atanasio diceva: «Il Cristo si è fatto uomo perché l’uomo si facesse Dio».
Questa divinità che il Cristo elargisce all’uomo è l’Io, il principio immortale che ci fa comprendere e superare gli eventi, il karma, le prove. L’uomo si appella raramente all’Io, ma quando lo fa percepisce il coraggio spirituale, la luce, l’amore: il principio «non io, ma il Cristo in me». Perché il Cristo ha detto: «Nel mondo avrete tribolazione, ma abbiate coraggio, io ho vinto il mondo» (Gv 16, 33).
Il battesimo pasquale. Nel cristianesimo antico la dimensione misterica, fondata sul principio morte e resurrezione, riviveva soprattutto nel battesimo, che allora veniva amministrato agli adulti alla vigilia di Pasqua o della Pentecoste. I catecumeni, dopo uno studio di 2-3 anni, venivano immersi per tre volte nell’acqua corrente. Allora la Pasqua cristiana era ancora celebrata il 14 Nissàn, lo stesso giorno di quella ebraica. Sarà il Concilio di Nicea del 325 a fissare definitivamente la Pasqua nella prima domenica successiva al plenilunio di primavera, in contrasto con i protopaschiti, tra il 22 marzo e il 25 aprile.
- Nissàn: Secondo il Sefer Yetzirah, ogni mese dell’anno ebraico è connesso a una lettera dell’alfabeto, un segno zodiacale, una delle 12 tribú. Nissàn è il primo mese del calendario (Es 12, 2) e dà inizio alla primavera. Nissàn, Iyar, Sivan corrispondono alle tre tribú del campo di Giuda, Judah, Issachar, Zebulun. È il mese della redenzione: «A Nissàn i nostri patriarchi furono redenti dall’Egitto e a Nissàn noi saremo redenti» (Roš HaŠana 11a). Nissàn è il mese dei miracoli (nissim). Il fatto che Nissàn ha due nun indica nissei nissim, “il miracolo dei miracoli”. La lettera hei è l’origine fonetica di tutte le 22 lettere: «Con la lettera hei Dio creò questo mondo» (b’hibaram-b’hei bera’am, Gen 2). Perciò in questo mese si rinnova il mondo.
- Segno: taleh (Ariete), che simboleggia il sacrificio di Pesah. Israele è simboleggiato dall’Agnello.
- Senso: linguaggio, voce aggraziata dell’agnello.
- Tribú: Giuda, il re delle tribú. Nissàn è “il nuovo anno per i re” (Mishnah Rosh HaShana 1, 1).
- Senso: Personifica Malchut come Mondo della parola rivelata.
- Piede destro (Giudici 5, 10).
Il 14 Nissàn era un giorno cardine dell’anno, perché secondo la tradizione ebraica (Targum a Es 12, 42) la Pasqua era legata a quattro grandi eventi: non solo era stato il giorno della «legatura» di Isacco per il sacrificio (antitypus del Cristo) e della liberazione dalla schiavitú egizia, ma era stato anche il primo giorno della creazione, quello in cui Dio disse: «Sia la luce» e sarà quello dell’avvento del Messia. Perché era stato il primo giorno della creazione? Perché la Pasqua ebraica era, nel quadro del risveglio primaverile, il giorno della luce ininterrotta, in quanto la luce della luna piena subentra alla luce solare, configurando quasi un giorno senza tramonto.
Grazie a questa simbologia, il battesimo veniva chiamato “illuminazione” o “rigenerazione” e precedeva immediatamente la cresima e l’eucarestia. Dopo la comunione i neofiti ricevevano latte e miele, come gli Iniziati ai Misteri o i neonati (Tertulliano, De cor. 3), e per otto giorni portavano abiti bianchi. La lettera agli Efesini (cap. 5) conserva una citazione dell’antica liturgia battesimale, dove si evoca il contrasto tenebre-luce e il corrispettivo principio muori-risorgi. Si diceva agli Iniziati al battesimo: «Se un tempo eravate tenebra, ora siete luce nel Signore» (5, 8). «Comportatevi perciò come i figli della luce.
…Per questo è scritto: “Lèvati, o tu che dormi, e risorgi dai morti, e il Cristo ti illuminerà”» (5, 14). [Clemente Alessandrino, Protrept. viii, 24, I, 2: «Sorgi, o tu che dormi, e lévati dai morti e risplenderà a te il Cristo Signore, il sole della Resurrezione, generato prima dell’aurora, che dà vita con i suoi raggi». Cfr. Romani 6, 3-6: «[3] O non sapete che quanti siamo stati battezzati in Cristo Gesú, siamo stati battezzati nella sua morte?[4] Per mezzo del battesimo siamo dunque stati sepolti insieme a lui nella morte, perché come Cristo fu risuscitato dai morti per mezzo della gloria del Padre, cosí anche noi possiamo camminare in una vita nuova. [5] Se infatti siamo stati completamente uniti a Lui con una morte simile alla Sua, lo saremo anche con la Sua Resurrezione»].
Lo stesso invito ritorna in una delle piú antiche omelie pasquali, il sermone Sulla Pasqua (68-69) di Melitone, vescovo di Sardi (II secolo), che riprendeva l’haggadah di Pasqua (Pesahim 10, 5): «Egli è colui che ci ha fatti passare dalla schiavitú alla libertà, dalle tenebre alla luce, dalla morte alla vita, dalla tirannia al regno eterno… Egli è la Pasqua della nostra salvezza». Questa prospettiva misteriosofica del cristianesimo delle origini faceva sí che si concepisse la veglia pasquale come il culmine dell’Iniziazione cristiana, la «notte battesimale dell’anno»: dopo essere stati battezzati al fonte, i neofiti venivano accolti nella basilica con una «liturgia della luce» (lucernarium) e ricevevano l’eucarestia, che concludeva cosí l’esperienza di Pasqua intesa come passaggio dalle tenebre alla luce, dalla morte alla Resurrezione. Questo si diceva nei primi secoli del cristianesimo in occasione della Pasqua, quando si riviveva il mistero della morte e della rigenerazione. Di fronte a noi si profila un grande compito: la riscoperta delle forze misteriche che vivono nei grandi momenti dell’anno, la riscoperta della religiosità che permea la Pasqua come festa di profonda rigenerazione individuale.
Dice Steiner: «Bisogna riconquistare il pensiero della Pasqua, ma lo si potrà riconquistare solo studiando i Misteri antichi. …Ora è arrivato il tempo in cui occorre riscoprire i Misteri, acquistare piena consapevolezza che è necessario riscoprire i Misteri. …La Società antroposofica dovrà diventare, nella sua futura evoluzione, la via ai nuovi Misteri» (R. Steiner, Sedi di Misteri nel Medioevo. La festa di Pasqua, O.O. N° 233a https://www.larchetipo.com/2015/apr15/spiritualita.pdf).
Gabriele Burrini (10. continua)