Il bambino ha la “coscienza incosciente” dell’Io, cioè in lui i doppi non si sono ancora attivati. Si sono già insinuati in lui sin dal concepimento, ma non sono ancora attivi, non hanno ancora preso il posto della sua coscienza, disattivandola e fornendogli una coscienza surrogata ed illusoria, una personalità, una maschera attraverso cui ri-sonare.
Finché i doppi non si attivano, il bambino si sente, sente il suo vero sé. È in contatto diretto con il suo Cristo interiore e Questi si occupa direttamente di lui, sovrintendendone finanche i processi fisiologici. Basta osservare attentamente gli occhi del bambino sotto i 2-3 anni, magari quando già parla, per percepire di essere al cospetto dello Spirito, al cospetto del Logos. Il suo sguardo è privo di filtri egoici, fermo, severo e amorevole al contempo. Non conosce ancora nulla eppure sa già/ancora tutto. Sa tutto perché ricorda tutto ma presto sostituirà i suoi ricordi, le sue intuizioni, con la “cultura” di cui via via andrà riempiendosi, svuotandosi di verità.
Il bambino, percependo il suo vero Io, vive sul piano dello Spirito. E si percepisce parte di un Io cosmico, parte dell’Io di ogni Io, il Cristo. Goccia ed oceano, al contempo, si percepisce ovunque intorno a sé, sentendo il suo Io tanto dentro quanto fuori dalla sua pelle. E parla di se stesso in terza persona, dicendo “bimbo ha fame”, “bimbo vuole giocare” ecc., cosí come parlerebbe di un altro bimbo, da cui non si sente separato, “altro”.
Ma, arrivato a 2-3 anni, accade qualcosa. Inizia la Guerra: i due doppi si attivano. Devono attivarsi. Per il suo Bene. Devono lasciarlo “libero”, libero dal percepire il Cristo-Io in sé; libero di agire scegliendo in autonomia i motivi del suo agire; libero di compiere il male, cioè di essere non Libero, per essere libero di Liberarsi e ritrovarsi, oppure di continuare a perdersi. Libero di agire senza pensare, perché di continuo “pensato” da Arimane. Libero di agire senza sentire, perché di continuo “sentito” da Lucifero.
All’improvviso, ai 2-3 anni – il gradino è immediato e ben visibile dall’esterno – il bambino si sente diverso. Percepisce un oscuramento della coscienza, una sorta di 41bis animico, un isolamento dal resto del mondo. Isolamento che inizialmente lo spiazza, lo spaventa, lo fa sentire perduto, distante dalla Luce, dimentico del mondo: ha paura, una grande paura che lo porta ad aggrapparsi alle persone che conosce, genitori, nonni, educatori. Ed inizia a disegnare cerchi, cioè ad esprimere il suo nuovo sé, conchiuso all’interno del serpente che si morde la coda. Da quel preciso istante, il bambino definisce quel cerchio con la parola “Io”, perché la sente pronunciare agli altri e comprende che ognuno è un’isola a sé, è isolato dagli oceani di brama in cui Lucifero ha dilaniato e sommerso la Sophia. Da quel momento, l’individuo è lasciato a se stesso, “libero” di fare ciò che vuole: il Cristo non sovrintende piú alle sue scelte, alle sue formazioni psico-fisiche. Da quel momento, smette di essere un Io: ha un Io ma non è un Io, perché deve essere libero di non esserlo, se non lo vuole. Libero di rimanere un ego all’interno del cerchio, della sua pelle. Questo ha ben poco a che fare con la “specie”, come afferma Schopenhauer. Non è quella il “gruppo” a cui l’individuo sente di appartenere e da cui percepisce il richiamo di Ulisse a Itaca. Il filosofo è fuori strada, perché non percepisce ciò che pensa né pensa ciò che percepisce.
Il compito che perciò il Cristo affida all’uomo è di tornare, da adulto, e quindi per volontà e coscienza oppure per sofferenza, alla condizione di bambino, di quando ancora era il suo Io e percepiva se stesso come Logos, sentendosi nel petto anziché nel capo, guardando a ste stesso dai confini dell’universo verso di sé. Perciò, quando l’individuo inizia a riferirsi a sé come “Io”, inizia la necessaria negazione del Cristo in sé.
Se ciò non accadesse, l’uomo sarebbe un automa morale del Logos. Deve dire “Io” e illudersi di essere separato dal cosmo, perché una parte del suo vero Io deve autosospendersi e “liberarsi”, acquisire la “licenza di fare il male”, perché l’Io può evolvere solo se una sua parte cammina, libera e incosciente, sulla Terra. È sulla Terra che le Gerarchie celesti gli affidano i suoi doppi, preziosi strumenti del suo Io superiore in quanto avversari del suo io inferiore, attraverso i quali l’Io reca alla sua stessa parte egoica tutte le connessioni e gli eventi karmici che gli occorrono per conquistarsi la Libertà.
È sempre il vero Io che muove i suoi “nemici”, affidando alla sua stessa parte inferiore, autosospesa ed incosciente di sé, i compiti da svolgere. È sempre solo l’Io a suscitare le reazioni, i risentimenti, i ripensamenti dell’ego. Ma non appena l’uomo egoico inizia a muovere la volontà, cioè a strappare il pensiero al sentire luciferico e alla logica arimanica, inizia anche a divenire “buono”, cioè ad essere infuso di Bontà, della forza possente del Cristo che illumina il pensare ed il sentire se solo voluta. Perché la Bontà non è un sentimento a livello umano, non è la bontà recitata e sentimentalistica, bensí volontà pura, divina, portata dall’Io nell’ego che vuole Volere. Solo perché inizio a volere, in qualsiasi modo io eserciti la mia volontà, io inizio a lasciar fluire la Bontà in me come forza rettificatrice dell’io. Bontà che inizia a trasformare il sentimento passionale in amore ed il pensare logico in saggezza del cuore, finché gradualmente sperimento sempre piú l’Io come una presenza accanto a me. E arriva il giorno in cui quei doppi vengono concretamente espulsi, nella cosiddetta “scissione della personalità”, appunto. In sostanza, la personalità o l’ego, ciò che comunemente corrisponde alla coscienza di sé, al proprio orgoglio, al carattere, al temperamento, al nome e cognome con cui ci s’identifica, altro non è che la percezione dei propri doppi, che pensano, sentono e agiscono al posto dell’Io.
Quando il bimbo inizia a dire “io”, quella parola per lui significa soltanto “colui che pensa-sente-vuole in me”. Colui, coloro che ora agiscono prima di me, prima del mio Io, talmente veloci e furbi che l’Io è sempre in ritardo rispetto ad essi. Perciò devo allenarmi, attraverso di essi, se voglio riacquisire il mio territorio, e batterli sul tempo. Facendolo, rettifico e libero il mio pensare, il mio volere ed infine il mio sentire. Ma faccio anche una seconda cosa: mi formo i concetti spirituali che mi serviranno nel post mortem, senza i quali vivrei al buio tra la morte e la nuova nascita.
Per farlo, prima di tutto l’uomo deve comprendere che ciò che chiama “io”, e che crede di Essere, non è affatto il suo vero sé. Afferma Scaligero nel suo Trattato: «Ciò che normalmente gli uomini chiamano “io”, non è il vero Io, ma quello condizionato dall’astrale inferiore ed esprimente un’autorità di fondo degli istinti, nella quale l’uomo ordinario crede ravvisare la propria libertà. L’Io che l’uomo dice di essere, non può essere l’Io se non nel pensiero vivente: ancora da lui non conosciuto». Tale disidentificazione è la base, il piú urgente degli equivoci da risolvere, quello da cui altrimenti derivano tutti i guasti dell’anima. Se invece non lo si comprende, non si risolverà mai questo né i successivi problemi.
Ma c’è ancora una terza opera, che il ricercatore attua nel riconquistare il proprio territorio animico, nel trasformare il suo sentire in “amore che pensa”. La piú importante di tutte. Scrive Steiner in Verità e Scienza: «La Verità, come abitualmente si ritiene, non è il riflesso ideale di qualcosa di reale, bensí una libera creazione dello Spirito umano, che non esisterebbe affatto in alcun luogo se non venisse da noi stessi prodotta. Compito della conoscenza non è di ripetere in forma concettuale ciò che già esiste altrove, ma di creare un campo del tutto nuovo che, solamente in unione col mondo sensibile dato, forma la realtà completa. Con ciò la suprema attività dell’uomo, il suo creare spirituale, viene inserito organicamente nel divenire universale. Senza questa attività, il divenire universale non sarebbe affatto pensabile come totalità in sé completa. Di fronte al corso del mondo, l’uomo non è uno spettatore ozioso, ripetente entro il suo Spirito, in immagini, quello che senza l’opera sua si compie nel cosmo, ma un co-creatore attivo del processo del mondo. Ed allora il conoscere è l’elemento piú perfetto dell’organismo dell’universo. La conoscenza è la sintesi tra l’immediatamente dato ed il creato, il prodotto del pensare, come principio formatore ed ordinatore che si accosta al dato stesso».
L’uomo deve dunque risvegliare il suo Artista interiore, il Cristo-Creatore in sé. È chiamato a divenire co-creatore, a perfezionare la natura, a rettificare l’operato dell’eloha lunare Geova (YHWH). Lo scienziato deve divenire artista e, l’artista, scienziato. Perché, dice Goethe: «L’arte perfeziona la scienza».
«L’arte si fonda sulla conoscenza», secondo Steiner, perciò la conoscenza non può che fondarsi sull’Arte: ecco il senso della gnoseologia goethiana. Nel conoscere, io parto dall’esperienza, dall’immediatamente dato, e creo di questo un’immagine contenente ben piú della forma immediata del mondo sensibile. Di questo, la forma essenziale mi si rivela solo nel conoscere. Nel conoscere, io non devo solo osservare l’oggetto nell’immediatamente dato, ma l’oggetto mi si deve rivelare in qualcosa di superiore a ciò che inizialmente percepisco.
«Conoscere significa aggiungere la percezione del pensiero alla mezza realtà dell’esperienza sensibile, affinché la sua immagine divenga completa», dice Steiner.
L’artista possiede innata la capacità immaginativa di immergere nella sua vita la realtà sensibile quanto i concetti astratti, per crearsene la forma essenziale e penetrarla, intuirla e rappresentarla al mondo. Nel blocco di marmo, Michelangelo vedeva già la statua, il contenuto eidetico da cui gli occorreva soltanto rimuovere il “superfluo”. In ogni seme l’artista vede la pianta contratta; in ogni pianta vede un seme espanso, in un ritmico movimento, una corrente lemniscata al cui centro percepisce se stesso, attraversato dal Logos che respira nel suo petto.
«Il Vero è simile al Divino, non appare immediatamente: noi dobbiamo indovinarlo dalle sue manifestazioni», dice Goethe. E dobbiamo solo disporre le manifestazioni del Vero in una successione armonica tale che il Vero ci appaia. Poi, osservandole, dobbiamo rimuovere l’involucro che ce lo nasconde. Nella sua concezione gnoseologica dell’arte e fenomenologica del conoscere, Goethe supera Platone. Da un lato Platone, nel suo realismo metafisico, ritiene che l’oggetto sia reale ma che la realtà non si esaurisca nel sensibile. Per lui l’arte sarebbe inaffidabile, in quanto doppia imitazione (mimesis), imitazione del sensibile che a sua volta sarebbe imitazione del sovrasensibile.
Tale visione fallace dell’arte – il dissidio ontologico tra mimesi e realtà – fu colta perfettamente da Nietzsche, secondo cui non si può essere contro la metafisica senza essere artista.
Goethe invece si limita a partire dall’immediatamente dato, percepirlo ed osservarne la percezione, senza presupporre che l’oggetto esista o che sia solo una rappresentazione. Per Goethe, il modello scientifico del conoscere consiste proprio nel porre gli effetti in giusta sequenza e poi nel togliere il superfluo che ricopre le cause ideali. L’arte e la scienza derivano dalla stessa fonte primordiale dell’essere. Entrambe non portano nulla di soggettivo, ma sono rivelazioni di quella stessa fonte. Lo scienziato osserva la realtà e ne descrive le forze propulsive in idee, concetti. L’artista plasma la materia secondo quelle stesse forze propulsive in opere d’arte. Per farlo, entrambi devono conoscere, acquisire le leggi del mondo.
Oltre che per evolvere come individualità, l’uomo discende sulla Terra anche – se lo vuole – per essere al Servizio dei mondi spirituali. In questo senso, l’artista compie la piú perfetta delle azioni nel cosmo, perché realizza il perfezionamento della Creazione: il pensare creativo del cuore, “le opere del Padre”, ciò che il Cristo definisce il Suo nutrimento.
Scrive ancora Steiner: «L’arte scaturisce direttamente dalla forza primordiale dell’essere e non porta in sé nulla di illusorio, di soggettivo, bensí appare come rivelatrice delle leggi nelle profondità dell’operare della natura». Cioè l’arte non è qualcosa di relativo al sentire passionale, bensí all’amore-pensiero, all’intuizione dei misteri del cosmo. L’atto creativo non è “produzione” ma percezione. Creando, io non produco nulla se non gli organi di percezione superiore in me. Le vere opere d’arte sono gli organi di percezione interiore. L’opera, come prodotto fisico, è nulla per l’artista, è solo un esercizio del conoscere. Ha valore per il cosmo, ma non per chi la crea. Per l’artista, creare è soltanto conoscere, intuire, guardare nel segreto delle cose.
Se l’udito (akroasis) è l’organo privilegiato dagli antichi Ebrei, attraverso cui ascoltare la Parola di Dio, per i Greci nel processo conoscitivo conta la vista (aisthesis), specie un certo tipo di visione.
Se secondo Kant il bello è “privo di concetto e privo di scopo”, per Platone invece l’artista è “entusiasta”, cioè ha Dio in sé che gli conferisce la “divina follia”, la mania poietikè, senza la quale «la poesia del saggio, ottenebrata, scompare» (Fedro).
Chi è artista per tecnica e non per divina follia, non dispone infatti di quel che i Greci chiamavano “epopteia”, la visione superiore, lo sguardo al di là del visibile, con cui l’artista guarda alle cose. Senza la divina follia, senza la capacità di infrangere i margini della ragione, della coerenza, del principio di non contraddizione, del giusto o sbagliato, delle leggi naturali, senza la forza di andare al di là del bene e del male, non può esserci arte, creatività, bellezza. Non può esserci sintesi: non può esserci conoscenza. Il divino è contraddizione, follia, incoerenza: è l’enantiodromia, il gioco degli opposti nel divenire universale, in cui ogni cosa scorre e si immerge nel suo opposto. In cui un concetto è vero soltanto se è altrettanto vero il suo contrario, ed ogni cosa è custodita e protetta nella sua negazione. L’uomo vive nella ragione e nel principio di non contraddizione: può essere giusta solo una cosa ed errata l’altra. Dio vive nella follia, nella contraddizione, nell’a priori, prima della ragione: in Dio tutto è buono, vero e giusto. Laddove la Filosofia tenta, invano, di conciliare tale dissidio tra umano e divino, la palaia diafòra del Simposio, l’Arte è il teatro della follia: il teatro di Dio. Il teatro dell’ “ama e fai ciò che vuoi!”.
Nella Filosofia della Libertà, Steiner descrive il “moto pendolare vivente”, il ritmo enantiodromico con il quale l’Io oscilla tra il polo del corpo fisico e quello dello Spirito, a mo’ di inalazione-esalazione o di sistole-diastole. Conoscere e creare sono una cosa sola, due correnti uguali che si contrappongono dinamicamente come in un cuore contrazione ed espansione. Sono le due correnti eteriche, uguali e contrapposte, microcosmica e macrocosmica, scolpite sulla scultura lignea del Rappresentante dell’Umanità.
L’attività conoscitiva umana consiste nel risalire il percorso dell’attività creatrice cosmica. Nel conoscere, l’Io parte dal corpo (dalla percezione sensibile) e risale allo Spirito (all’idea). Nel creare, l’Io parte dallo Spirito (dall’idea) e discende al corpo (alla percezione sensibile). Conoscere è indurre l’idea dalle cose (noetica): risalire dall’esistenza all’Essenza, portare su l’esistenza all’Essenza. Creare è dedurre le cose dall’idea (etica): discendere dall’Essenza all’esistenza, portare giú l’Essenza nell’esistenza. Nel conoscere, l’uomo trasforma l’idea percepita nell’idea conosciuta. Nel creare, l’uomo trasforma l’idea pensata nell’idea percepita. La creazione porta dall’avere all’essere, dalla “proprietà” alla “qualità”.
La Scienza vorrebbe conoscere inducendo l’idea muovendo dalle cose (come vuole l’empirismo), ma Arimane schiaccia la Scienza sulle cose, concedendole solo di congetturare astrattamente su di esse. Perciò la Scienza arriva soltanto a farsi un’idea riduttiva sulle cose senza saper cogliere l’idea nelle cose. La Filosofia vorrebbe conoscere deducendo le cose partendo dall’idea, ma Lucifero la tenta a percorrere la stessa strada percorsa da Dio, anziché correttamente a ritroso, cosí che non possa cogliere le cose nell’idea. Le forze arimaniche esaltano unilateralmente il potere tenebroso del percepito. Chi ne sia ottenebrato, non riesce a vedere l’idea nelle cose poiché la vede solamente schiacciata “per terra”. Le forze luciferiche esaltano unilateralmente il potere luminoso del concetto. Chi ne sia abbagliato, non riesce a vedere le cose nell’idea, poiché le intravede solamente sollevate “per aria”.
La realtà è la sintesi tra percetto e concetto, tra l’immediatamente dato per percezione ed il successivamente creato del pensare come principio formatore ed ordinatore che si accosta al dato stesso. Ma la creatività in sé non è sufficiente: le occorre l’amore per dare forma essenziale alla realtà. Solo attraverso l’amore, attraverso il pensiero del cuore, io posso percepire le intenzioni della natura nella mia osservazione del mondo e successivamente pensare/creare il concetto, attivando nel mio cuore eterico quel “moto pendolare vivente”, quelle ritmiche correnti eteriche ascendenti e discendenti scolpite su cuore e testa del Cristo nella statua lignea.
La conoscenza è la sintesi tra arte e amore, tra l’arte di creare il concetto dal di dentro e l’amore come capacità di percepire l’immediatamente dato dal di fuori. L’arte attiene al pensare, alla capacità di crearsi il concetto afferrando il percepito dal di dentro. L’amore attiene al sentire, alla capacità di percepire l’immediatamente dato dal di fuori. Se la realtà è la sintesi tra percezione e concetto, l’intuizione è la forma iniziale in cui il concetto nasce dentro di me. Cosí come l’uomo si crea la verità, allo stesso modo si crea gli ideali morali. La concezione della verità è perciò un atto di libertà, generante un’etica fondata sull’uomo libero. L’azione priva della conoscenza delle leggi che regolano l’universo non è azione “libera”. La vita priva della conoscenza delle leggi che regolano l’universo non è vita “morale”. Solo conoscendo le leggi universali possediamo i concetti e gli ideali morali, allora le nostre azioni sono davvero “nostre” e siamo davvero “liberi”.
L’uomo può intuire solo quel che riesce a creare. E può creare solo ciò che non conosce già, può conoscere solo se rimuove modello e contenuto, il “cosa” ed il “come” gli è stato insegnato. Nel creare, noi intuiamo, penetriamo le leggi universali acquisendone le forze viventi: tali forze divengono in noi ideali morali, libertà, cosí che noi possiamo fondarci esclusivamente su noi stessi.
L’uomo crea la verità nelle sue tre forme: moralità, scienza, arte; il cui fondamento è sempre e solo il pensiero creativo. Non gli sarà mai possibile penetrare nei misteri del mondo, né essere morale e quindi libero, senza sviluppare un profondo senso creativo, artistico.
Tra tutte le arti, la musica è l’arte del conoscere per eccellenza, poiché è l’arte dell’Io. Ed è l’arte cristiana per eccellenza, secondo Hegel. A partire dal romanticismo, eredità del romanismo, la musica si libera dall’impegno mimetico e diviene il prodotto autonomo dell’Io, affermazione della libertà dell’artista, espressione della sua molteplicità individuale (estetica, sensibile, intellettuale, teologica ecc.) in cui l’autore non è piú soggetto ad alcuna legge o autorità eteroindotta. Non piú mimesis, imitazione, rappresentazione, la musica diviene espressione diretta dell’Io e perentoria mostra il dissidio, la contraddizione tra umano e divino. La musica non si cristallizza nel divino né nell’umano, ma trae la Vita dalla morte, dal continuo trapassare tra l’idea e l’esistenza.
La musica, dice Steiner, spinge l’Io ad immergersi profondamente nel corpo astrale, espellendo momentaneamente l’io inferiore, cosí che le Gerarchie superiori, attraverso l’Io, operino nell’anima.
Dice ancora Steiner: «La musica è una finestra attraverso cui il sensibile si affaccia nel sovrasensibile ed il sovrasensibile si affaccia nel sensibile». Attraverso la musica, non solo l’uomo conosce il Cielo ma anche le Entità sovrasensibili si avvicinano per conoscere l’uomo. La musica è puro strumento di conoscenza, è qualcosa di sacro, e come tale non può essere “pop-olare”. Deve invece turbare, scuotere, abbattere i muri della ragione e del sentimento.
E mantenersi, in qualche misura, sempre misteriosa e incomprensibile.
Non deve “piacere”, non deve “far star bene”, non deve essere “consumabile”, bensí pretendere un impegno iniziatico per essere compresa e rivelarsi all’ascoltatore. Non deve adattarsi ai gusti ma determinare i gusti, le leggi del bello e del buono, il senso estetico ed il senso etico nell’uomo: la musica deve conferire all’uomo una forma piú perfetta.
Dice ancora Steiner che nel primo settennio il bambino può formarsi il senso morale solo a partire dal senso musicale. Questo diviene prima senso estetico, “gusto”, e poi senso etico.
Quando Nietzsche attacca Wagner, gli contesta di essere troppo “popolare”, di fare una musica troppo rappresentativa, illustrativa, mentre la musica deve essere spirituale, staccarsi da ogni psichismo e da ogni indulgenza alla piacevolezza.
Per comprendere quanto siano sacre e cruciali l’arte e la creatività per il Maestro dei Nuovi Tempi, leggiamo dalla 23a Conferenza, Fondamenti di Esoterismo (O.O.N° 93).
Dopo l’Adepto della Luna (Lucifero) e l’Adepto del Sole (il Cristo), «il terzo impulso (l’aquila, l’Adepto di Saturno, il principio-Padre) sarà rappresentato da un Adepto che fu già adepto su Saturno. Tale personalità non può ancora incarnarsi sulla Terra. Soltanto quando l’uomo non sarà solo in grado di sviluppare la sua natura superiore, ma saprà
- rinunciare completamente alla sua natura inferiore
- lavorare in modo creativo
allora l’Adepto piú elevato, l’Adepto di Saturno, il Principio Padre, il Dio Nascosto, potrà incarnarsi».
E ancora nella 26a Conferenza dello stesso ciclo: Nel detto secondo cui Cristo ha calpestato e schiacciato la testa del Serpente, troviamo una profonda espressione di esoterismo. La testa del serpente è la mera saggezza; essa deve essere superata. La vera saggezza è nel cuore; questo è il motivo per cui la testa del serpente deve essere schiacciata. Nella Saga di Eracle la stessa verità è già stata espressa. Uccide l’Idra di Lerna, il mostro la cui testa ricresce sempre. Il mero Manas si riformerà sempre. L’Idra sarà vinta quando Eracle saprà mantenere il sangue (Kama) a distanza».
La testa del Serpente, la mera Saggezza (Kama-Manas) che da sola non basta, si riforma di continuo nella testa dell’uomo: deve essere superata.
Nell’Adepto della Luna, il Toro, è celata e custodita la mera Saggezza che va “schiacciata” dall’amore, il principio-Cristo, il Leone, e dall’attività creativa, l’arte.
Conoscere è sintesi tra arte e amore, riconciliazione tra Lucifero e il Cristo. È il “cercare la verità” che rende liberi. È l’attività piú perfetta nel cosmo: «Siate Perfetti come Perfetto è il Padre», l’invito del Cristo.
In conclusione, conoscere è arte, è amore, è libertà. Anche l’amore tra due persone è conoscenza, dice Steiner. Conoscersi è l’arte di amarsi e amarsi è conoscere la propria follia grazie al viaggio dentro di sé in compagnia dell’altro. Ed è sempre grazie al relazionarsi con l’altro che si ritorna dal viaggio nel baratro della propria follia. Il relazionarsi è il fondamento dell’identità, del riconoscimento dell’individuo. “Se l’uomo vive da solo, o è bestia o è Dio”, diceva Aristotele. Ma la relazione non è tra me e l’altro ma tra me e me, attraverso l’altro.
L’amore deve avere una relazione con la propria relazione, come l’artista con la propria opera e lo scienziato con la scienza: considerarla sempre qualcosa di incompiuto, da perfezionare di continuo, mai qualcosa di statico, di assodato. La Libertà è il continuo Liberarsi, attraverso l’arte di amare conoscendo e di conoscere amando.
Fabio Antonio Calò