Nulla di quanto è contenuto nel patrimonio leggendario non ha riscontri nella realtà storica. Al contrario, insospettati tesori ci vengono rivelati proprio dalla tradizione favolistica, dall’aneddotica orale dei vari popoli, in ogni latitudine del globo.
Non a caso Werner Keller riuscí a provare, con cifre date e riscontri topografici, quanta verità di cronaca contenesse il libro dei racconti piú strabiliante mai scritto e tramandato dall’uomo: la Bibbia. Il Libro dei Libri aveva ragione in tutto, attestavano le ricerche di Keller, al punto che un generale inglese riuscí ad espugnare una città rivierasca del Mar Rosso in mano ai turchi, sfruttando un passaggio segreto che eludeva la cinta muraria fortificata e di cui un condottiero del popolo eletto si era servito per conquistare la stessa città secoli e secoli prima.
Ci piace restare dunque alle leggende per ragionare di cose reali e manipolare da stregoni le antiche aure spiranti nelle vicende dell’uomo, con la speranza che siano d’ausilio piú di tanti supporti tecnologici e scientifici. La tecnica e la scienza essendo legate alla materia, sostanza fallibile (la guarnizione del missile che si fonde, il topo che blocca i circuiti della contrale elettrica. Il reattore nucleare che imbarca acqua da un tubo difettoso) si rivelano talvolta quali pentole senza coperchio, aggeggi diabolici, imprevedibili, agganciati all’alea dell’insuccesso per presunzione.
Restiamo quindi ai contorni sfumati, alle suggestioni semi-oniriche del fantastico. Ed ecco una leggenda berbera. Narra di una enclave nascosta nel cuore della catena montuosa dell’Ahaggar. Al centro della desolazione desertica, un’oasi florida in colture ed acque, un paradiso. Come tutti i paradisi in terra, gli Eden introvabili, anche quel luogo rimaneva fuori dalla portata umana. Solo la fortuità poteva aprire uno spiraglio, e il caso volle che una banda di predoni, smarritasi in seguito a una tempesta di sabbia, finisse per ritrovarsi alle soglie di quel sito prodigioso.
Con stupore i briganti dovettero scoprire che nessuna ambigua regina o strega o fata governava quella città, producendo con opere d’incantesimo o magia il miracolo di quelle fioriture e di quel rigoglio naturale. Tutto il prodigio era da attribuirsi piú realisticamente ad una comunità di uomini santi che si erano rifugiati in quel luogo, un tempo aspro e desolato quanto la regione circostante, e con la preghiera incessante, la penitenza e la pratica della meditazione e dell’ascesi piú rigorosa, oltre a un duro quanto ostinato lavoro, erano riusciti a bonificarlo, rendendolo fertile.
I predoni estromisero i monaci eremiti, parte uccidendone, parte sperdendone nel deserto, alla mercé del sole e della sabbia, che equivaleva a una ben peggiore morte. In quel paradiso, si dissero i furfanti, avrebbero trascorso infiniti giorni oziosi pascendosi di beatitudini di ogni genere, come prometteva il Profeta ai suoi seguaci nel Paradiso delle Urí.
Non trascorsero molti giorni dalla cacciata dei frati penitenti, che il luogo cominciò a deperire, in un processo di deterioramento quasi tangibile. Acque s’estinguevano e morivano, uccelli e altre creature, che avevano popolato quel luogo di delizie e raccoglimento, migrarono in massa. Nel volgere di pochi mesi i briganti si ritrovarono ad abitare un mondo in dissolvimento inarrestabile. Quando finalmente risolsero di abbandonarlo, lo riconsegnarono al deserto, ormai ritornato parte integrante della sua sconfinata desolazione.
Dalla leggenda alla realtà degli itinerari battuti dalle correnti del turismo all included. Si va alle Meteore, nella Grecia degli anacoreti. Si scalano le cuspidi montagnose di granito, tanto avulse dal contesto morfologico dei luoghi dove sorgono, sí da ritenerle residui planetari o astrali approdati sulla terra dopo ignote odissee spaziali. Sull’epidermide rugosa dei grandi sassi siderali nulla potrebbe allignare se non, nei ridotti alveoli e pieghe della roccia, il verde precario di piante cedue, che un accenno di vento piú severo sradica e precipita nel borro. Pure, una volta in cima, nel sacro recinto dei monasteri, ecco il prodigio ripetuto della leggenda berbera: nella desolazione, il rigoglio di acque e fiori, alberi e uccelli. Le rose, in particolare, osservate attraverso le grate dell’orto in uno dei conventi, sono enormi: colori metafisici e profumo da sortilegio. Predoni assenti, la minaccia delle orde turistiche, prese da soggezione per la santità dei loghi, non basta a portare la rovina. L’armonia prevale sulla rapacità edonistica, e il miracolo è salvo per altri occhi.
Se ne conclude, dopo tali divagazioni, e le conoscenze esoteriche antiche lo dichiarano, che l’ambiente viene plasmato dalla presenza umana, e che dopo una protratta convivenza e simbiosi, esso finisce col testimoniare, in maniera inequivocabile, in quali termini l’influsso di quella presenza si sia materializzato, e in quale misura visibile i luoghi modellati dal colonizzatore siano il riflesso della sua interiorità, del fluido eterico che emana dalla sua recondita sfera psichica. Dentro equivale a fuori e viceversa, in uno scambio osmotico, in un travaso continuo uomo-materia, uomo-natura, nel transfert realizzato spesso all’insaputa degli stessi agenti. O forse è ignara solo la controparte uomo, ché la natura, animata com’è da impulsi di ordine superiore, uniformata all’armonia cosmica, mai tradisce i canoni della necessità di perfezione. Cosa che sovente l’uomo, gratificato di libero arbitrio, dimentica volutamente, rendendosi artefice di degrado e rovine.
Ecco quindi l’urgenza che l’uomo si ponga nel ruolo di paladino dell’ordine e se ne faccia garante nell’esercizio delle sue funzioni terrestri. Probabilmente la cacciata dall’Eden non è una strada senza ritorno, e il Creatore non intendeva rendere la condanna senza possibilità di appello. Esiste la chance che il Paradiso dei Progenitori sia riedificabile, e che a noi venga demandato il compito di restaurarlo con l’esercizio delle virtú ecologiche. O forse con la pratica delle semplici virtú interiori che, al pari di un sole, fatte esse stesse di quella sostanza che è pura luce, irradiando dal nostro interiore sulle cose che ci circondano, le modellino al punto da renderle sublimi, ineffabili. Come per i santi uomini dell’oasi fra le montagne dell’Ahaggar.
L’ecologia dunque non è piú soltanto dotazione di depuratori, emanazione di leggi a tutela dell’ambiente, sanzioni contro chi inquina o deturpa, ma diviene una scienza finalizzata al recupero dei valori morali della creatura umana. Il fiorire di quanto ci circonda è fenomeno di riflesso, proiezione speculare della nostra anima e della suprema armonia che la muove, poiché il sole nasce dentro di noi!
Fulvio Di Lieto
(da: «Mondovita», Anno II, N° 2, giugno/luglio 1988)