Chi svolge una ricerca fidando nelle statistiche commette un’ingenuità, ma se l’alternativa è quella di non fare nulla e abbandonare l’intento, può anche concedere alle statistiche una discreta validità funzionale. Cosí, per quel che riguarda l’indagine sui vari aspetti del concetto di libertà, inteso qui nel senso piú eclatante della parola, nonché sulle modalità con cui il medesimo principio, attraverso mille trasformazioni e significanze, si sia inserito e radicato nella società umana (che in fondo sarebbe un po’ rifare la storia del medesimo) una rapida occhiata a quanto è fino ad oggi accaduto, ci fa capire che, grosso modo, esistono a tal proposito due schieramenti contrapposti, praticamente inconciliabili:
► da una parte ci sono quelli che ritengono a buon diritto d’essere perfettamente liberi, di fare quello che desiderano, esplicando cosí nelle azioni quanto nelle rispettive volontà hanno deliberato di fare; solo eventuali ostacoli esterni potrebbero – ovviamente – impedirne il compimento;
► dall’altra sponda, si oppone una categoria, non meno vasta, di coloro che affermano con larghezza di vedute e allettanti argomentazioni, l’inesistenza di una libertà umana, in quanto siamo tutti – sempre e comunque – condizionati da qualche cosa, sia essa costituita da un fattore evidente, oppure agisca da causa remota, se non addirittura occulta.
Entrambi i raggruppamenti hanno avuto autori, sostenitori, storiografi e divulgatori al punto tale che mi pare di non poter aggiungere una virgola a tutto ciò che hanno saputo esprimere in tema di libertà, in modo molto piú esaustivo e convincente di quel che avrei potuto fare di persona.
Tuttavia, dall’esperienza acquisita sul campo (che, se poco vale in fatto di grandezza e spessore, ha il merito di esser totalmente mia e avermi permesso di costruirci sopra alcune considerazioni), mi sembra evidente che alla luce del sole esista pure una terza categoria, stranamente ignorata, di cui non si accenna mai in alcuna disamina né superficiale né approfondita.
La cosa che rende ancora piú inspiegabile tale lacuna è che si tratta – sempre secondo la mia personale veduta – della categoria piú diffusa e quindi numerosa; e dal momento che la statistica non l’ha mai presa in considerazione, già qui si presenta un problema non certo secondario, che si meriterebbe un’inchiesta adeguata.
Tenterò di trattare le due problematiche collegandole tra loro e mostrare quindi come, in fondo, tra di esse sia avvenuto uno scambio vicendevole di cause ed effetti al punto tale che si è creato una specie di dinamismo iniquo (i giornalisti ricorrono spesso all’analogismo di “spirale perversa“, ma a me sembra già abbastanza perverso il “dinamismo iniquo”) con il quale l’uomo d’oggi dovrebbe misurarsi, se soltanto si avvedesse del pasticcio in cui è venuto a cadere.
Nei confronti del concetto della libertà, animato esclusivamente dal rispetto che provo per esso, noto la maggior parte dei miei contemporanei appartenere ad uno schieramento che si potrebbe definire del “Terzo Tipo”, se tale dicitura, di per sé inflazionata, non riducesse tutto ad un livello di ambiguità caricaturale da invalidarne la portata. Diciamo allora che l’insieme del settore di cui voglio trattare ha come caratteristica fondamentale quella di “credere di essere liberi” e di “agire invece – contemporaneamente e consapevolmente – in stato di necessità”.
Si tratta quindi di una categoria abbastanza evoluta per affermare una pretesa potenzialità dominatrice (“Ha da nascere chi mi comanda!”) ma anche sufficientemente intuitiva per comprendere che le cose non stanno assolutamente cosí, e che se da una parte si può fingere di spingere il carro lasciando agli altri l’intero peso dello sforzo, dall’altra, di tanto in tanto, ci si deve adattare (e sottostare) a delle condizioni che dire “da capestro” è dir poco, ma rende l’idea. Esempio tipico: la tardiva quanto inutile recriminazione: «È vero, sono colpevole, ho sbagliato, ma tengo famiglia!».
Posso capire il motivo per cui una siffatta classe di “gianobifrontisti” sia sfuggita al vaglio dei censimenti ufficiali: in fondo, si può sostenere, costoro appartengono alla categoria dei negazionisti della libertà, o quanto meno ne costituiscono una sottospecie. Non meritano quindi di formare un raggruppamento a parte, anche se affollato. Si fingono liberi per ambizione, per altezzosità, o anche per semplice velleitarismo, ma in cuor loro sanno di non esserlo, e pertanto chi studia le conformazioni sociali della libertà applicabili a questo pianeta, non dovrebbe tenerne conto.
Può essere. Non sono un filosofo né un filologo, e neppure uno studioso in senso classico della parola, ma da parecchi anni svolgo il mio ruolo di anima incarnata in corpore umano, vivo fra la gente, e, fatti quattro conti in merito, quando di tre settori, il terzo giganteggia rispetto agli altri due, secondo me, c’è da tenerne conto. Eccome!
Per meglio spiegare ciò che vado a prendere in considerazione, potrei attingere ad una collezione di esempi da riempire un libro; ma per un senso di carità nei confronti di chi si è preso la briga di leggermi, limiterò la raccolta ad alcuni, tratti dai settori piú disparati della quotidianità; però hanno il pregio di essere estremamente rappresentativi e quindi costituire un eloquente tapis roulant per indirizzare l’attenzione di qualche osservatore insonne verso l’obiettivo che mi ero prefisso.
Una squadra di calcio è formata da molti elementi; c’è una società, c’è un direttore, ci sono i giocatori, l’allenatore, lo staff dei tecnici, poi lo stadio, i vessilli e naturalmente i tifosi. Ogni città – non parlo solo delle metropoli, ma anche delle cittadelle, dei paesi, dei borghi, e perfino dei rioni dei capoluoghi piú grossi – ha la sua squadra, squadretta o squadruccia, e ognuna, secondo le regole imposte dalle federazioni, si cimenta nei tornei gareggiando con impegno e sollevando tra i fan e i sostenitori, si può dirlo, ondate emozionali, che per giorni e giorni vengono poi riprodotte, amplificate ed esaltate (nel bene e nel male) da un esercito di cronisti, esperti, opinionisti e molti altri ancora (tra i quali, come sempre, si frammischiano pure fanfaroni e ciarlatani, ma questo non deve costituire un pregiudizio, perché il mondo è abbastanza grande per tutti e fino ad oggi, dalle nostre parti almeno, anche chi finge di lavorare, purché finga bene e sia devoto ad un qualche onorevole patrono, riesce a sbarcare il lunario con sufficiente disinvoltura). In fondo l’idea del Reddito di Cittadinanza, anche se presentato come innovativo e concettualmente moderno, è figlio d’antica usanza.
Ciò tuttavia importa poco; quel che conta è che le varie tifoserie nacquero per sostenere ovviamente le squadre del proprio quartiere o dell’oratorio o del dopolavoro. Allargatosi lo spazio ed il tempo, gli amori sportivi abbracciarono i vessilli della città natale, per arrivare alfine alla vasta coralità del cosiddetto “tifo nazionale”, il cui nome, pur richiamando un’infezione contagiosa, è invece il rimasuglio di un’affezione sentimentale sincera e appassionata. Partendo dall’Inno di Mameli, la veemenza e l’epica gioia si sono dapprima ridotte a tarallucci e vino, e quindi progressivamente degradate fino ad assumere l’aspetto di manifestazioni preoccupanti, da cui affetti e sentimenti se n’erano scappati via per non tornare piú, e dar posto quindi a ribollimenti di violenza, di follia parossistica, accompagnati da scontri fisici, magari con armi non convenzionali, prima, dopo o durante le partite, in prossimità degli stadi, e dilagando poi per le piazze e per le vie di alcune città. Ti dicono: «Beh, sai, lo sport è cosí,.. son cose che succedono… Tra i tifosi c’è l’ardimento, un po’ d’intemperanza, magari l’arbitro non ha concesso un penalty dovuto… Per cui ferite, accoltellamenti, risse e bastonate non devono stupirci piú di tanto».
Non occorre essere Leonardo da Vinci per capire che qui c’è qualcosa che non va; non può assolutamente andare cosí. In una società che si rispetti, che si autoproclami libera e democratica in ogni occasione, anche nelle piú futili e disimpegnative, non dovrebbe permettere il prodursi e il proliferare di simili efferatezze.
Questa rettificazione tuttavia in pratica latita; nonostante le prese di posizione, i decisionismi di riparo e l’assunzione di futuri provvedimenti, come abbiamo potuto constatare di recente, sia il campionato di calcio, sia il Giro d’Italia ciclistico, sono andati avanti pure in piena pandemia e alla faccia di tutte le restrizioni di libertà, lockdown compresi. Ci sarà un motivo ben preciso, oppure si tratta una volta ancora di una spiacevole combinazione di eventi?
Un secondo e non meno importante aspetto della questione viene alla luce se andiamo a considerare la girandola dei giocatori che, assistiti da fior di avvocati e agenti-manager (di alto livello mercantile e di basso profilo etico) fa cambiar loro la casacca del club di appartenenza, quasi ad ogni stagione, a seconda di come il talento degli assistiti si sia quotato alla Borsa dei Valori Pedatori. Per cui l’ignaro e pseudo-innocente tifoso-spettatore vede, nel tempo, dispersi i suoi affetti sportivi piú cari, che erano stati il principale vincolo con la squadra del cuore e con gli eroi del pallone, la cui maglietta rappresentava (quella volta) il simbolo della città, se non del rione natale.
Lentamente, nel corso degli anni, qualcosa si è modificato in modo irreversibile, ed ora, come risultato finito, abbiamo davanti a noi compagini di calcio che nulla hanno piú a vedere con i motivi per i quali ne divenimmo sostenitori. Per contro, giocatori, nei quali avevamo riposto la nostra fiducia tifosistica, ora indossano divise di città e nazioni, i cui nomi li dobbiamo cercare sull’Atlante, talmente sono lontani dallo spunto iniziale con il quale si era creato il primo collegamento di sentimento, volontà e fiducia.
La spontaneità che stava alla base d’ogni competizione sportiva, è stata destituita, e al posto suo abbiamo lasciato erigere il meccanismo colossale e pigliatutto degli interessi piú o meno legittimi; vaste platee si sono lasciate sedurre con la tentazione del gioco delle scommesse, degli scontri fra clan rivali, e dalla brama di facili guadagni; insomma di un’atmosfera di clandestinità trasversale in cui dar sfogo alle frustrazioni da molto tempo compresse. Il tutto però sempre rigorosamente mascherato da un paravento di lealismo sportivo, di controlli imparziali e di liceità garantite. Gli appositi Deus Ex Machina vigilano dall’alto, e con discrezione muovono le loro iperumane facoltà sotto sigle ermetiche del tipo FGC, UEFA, DASPO, TRIBUSPORT.
Emerge quindi uno scollamento piuttosto vistoso tra quel che avrebbe dovuto essere e quel che in effetti è. Personalità smarrite o in preda a postumi allucinatori continuano a non vedere la discrepanza, preferendo riempire stadi e schedine senza capire d’essere vittime semincoscienti di una mattanza sportiva che – poco sportivamente – li circuisce, li sbeffeggia e puntualmente li deruba.
Svelata e descritta la formula in questione, mediante la quale non è affatto vero che la mano destra non sa quello che fa la sinistra, ma è invece molto piú realistico ammettere che sono molti i casi in cui siamo consapevoli di agire usando con abilità l’inversione manuale, distruggendo a sinistra quanto stiamo facendo a destra, viene da supporre che il paradigma non si limiti al complesso mondo del football nazionale ed estero.
Mi sembra che, misurata a spanne, la formula di questa commistione procurata ad arte, trovi applicazioni similari in molti settori che in apparenza c’entrano poco o nulla col pallone, anche se, volendo arrivare all’osso del simbolismo, in fondo si tratta sempre di contenitori elastici, riempiti d’aria, che saltano e rimbalzano di qua e di là, per lo spasso di qualche miliardo di giocherelloni; il fraintendimento etico, molto diffuso, la cui logica sostiene: «si vive una volta sola e quindi è opportuno spassarsela il piú possibile» giustifica molte cose, al punto che tutto può succedere. Ma bisognerebbe controllare bene se, in quel punto, si vuol vedere nell’essere umano un protagonista responsabile oppure una marionetta agitata da fuori e in preda a convulsioni psiconeurotiche.
La contaminazione verificatasi nello sport, ci induce a non parlare esclusivamente di calcio; altrettanto potrebbe dirsi per tutte le manifestazioni e gli sport divenuti nel tempo una fonte di quattrini grazie alla stolida purezza delle varie tifoserie e alla raffinata astuzia dei pochi che ne reggono il banco. La possiamo incontrare nella Sanità Pubblica come nel Festival della Canzone di Sanremo; nell’amministrazione della Giustizia, nelle istituzioni dell’Educazione Scolastica, come nel mondo del Lavoro, eterno motivo di scontro tra imprenditori e sindacati, datori di lavoro e maestranze o prestatori d’opera e di servizi. Per non dire nell’Editoria, nella Stampa, e nelle emittenti RadioTv, nelle agenzie di news e nello stuolo di gole che ogni giorno si affannano a sbandierare ai quattro venti risultati, pronostici, cifre e report.
Ma ovunque ci si giri, sotto sotto risuona la medesima musica: gli orchestrali sono uomini (?) privi di scrupoli che sopraffanno uomini pieni di scrupoli. Coscienze vendutesi a forze antiumane che depredano e violentano coscienze entro le quali ancora vivono rimasugli spirituali e che, per loro karma, subiscono lo scherno, gli oltraggi e le scelleratezze dei primi.
Le interminabili polemiche circa l’opportunità dei vaccini; le ineffabili questioni su come ridistribuire al meglio le risorse nel quadro di una ipotetica eventuale ripresa economica; le barzellette sulle opere pubbliche, sugli appalti e sulle gare truccate per aggiudicarsi i lavori delle infrastrutture; i tentativi maldestri se non cruenti da parte dei poteri politici di tutto il mondo a mantenere l’ordine pubblico là dove il mondo (ovvero la coscienza dei popoli) incomincia a smettere di credere nelle panzane divulgate attraverso media e stampa compiacenti; il richiamo forte e inaudito a provvedimenti ecologici e ambientali urgenti e non piú rimandabili, utilizzato (come del resto avviene nel commercio internazionale dei prodotti farmaceutici e della cosmesi) per confondere, esasperare e spingere gli animi degli oppositori a fare esattamente il contrario di quanto avrebbero fatto se avessero davvero capito quel che stavano facendo, formano un quadro deprimente. Sarebbe tuttavia ancora piú deprimente l’ostinarsi a non volerlo guardare.
Non è piú una questione di sfere di cuoio riempite di aria e prese a calci da giovani ardimentosi che si rincorrono per i prati in fiore; questa cosa del «facciamo il bianco ma mettiamoci anche un po’ di nero perché è giusto accontentare tutti», che per lungo tempo è stato lo slogan preferito delle finte democrazie, è diventata una bevanda troppo disgustosa per continuare a berla con rassegnazione o con indifferenza.
Non sobillo nessuno a scendere in piazza, a provocare tafferugli o a creare tensioni in seno alla popolazione; chiedo solo di dire – prima di tutto a se stessi e poi agli altri – pane al pane e vino al vino, perché mi pare che ci stiamo ogni giorno allontanando dal momento focale di questo distinguo e pertanto dalla possibilità delle decisioni ponderate del buon senso comune. Perdendo pure quest’ultima bussola, per l’umanità di un prossimo futuro forse potrebbero non esserci previsioni; non sarebbero queste tuttavia a mancare.
Tentiamo di riflettere spassionatamente e con obiettività: facciamoci delle domande; potremmo anche sentirle retoriche o pleonastiche; ma non demordiamo; poniamocele al centro, nel silenzio della nostra interiorità e vediamo poi cosa ne salta fuori. Forse anziché la solita testa di pupazzo con la molla, verrà fuori qualche cosa di nuovo. E sarà sbalorditivo.
Che c’entra il rilascio di un mafioso pentito, il quale ha finito di scontare la sua pena detentiva, col disastro della funivia del Mottarone? Per una libertà interpretativa: qualcuno ha sbagliato nel formulare le leggi; ha ritenuto di non dover pensare ad eventuali implicazioni future; lo stesso errore si è ripetuto costringendo il meccanismo della funivia ad una forzatura prolungata nel tempo allo scopo di aumentare gli introiti.
La canzone del gruppo rock dei Maneskin, vincitrice all’ultimo Eurofestival, ha qualche cosa a che vedere con l’andirivieni dei migranti, coi loro naufragi, con l’apparato di accoglimento, sistemazione, e la spartizione dei medesimi su accordi intereuropei piú simili ad una partita di “rubamazzo” che ad una risoluzione diplomatica? Per una libertà interpretativa, se veramente desideri aiutare qualcuno non occorre che ti finga altruista: ogni camuffamento regge solo un po’ di tempo. Del pari se hai qualcosa da dire a favore degli emarginati, degli infelici, dei disperati e per farlo, hai scelto di travestirti da Zombi, di assordare il mondo col tuo veleno sonoro, e di fracassare i limiti che separano il buonismo moralistico dall’empietà satanica, allora il tuo “Zitti e Buoni” lo vai a cantare a tua sorella.
Le storie penose di morte e di prigionia nelle carceri egiziane suscitano in noi forse qualche riflessione sulle attività (o inattività) della Farnesina, o rimandano il pubblico interessato ad errori formali, a sviste e disattenzioni, simili a quelle sull’intestazione al Largo Ciampi e sull’equivoco di postare in rete un Colosseo che tutto è fuorché il Colosseo?
Per una libertà interpretativa: la disattenzione è sempre rivelatrice; ciò nonostante, a volte diventa comoda; non evita le brutte figure, ma nel numero le sbiadisce, conferisce loro un ritocco, uno speciale, morbido effetto-dissolvenza, degno dei maestri della cinematografia.
In un paese dell’Est Europa un aereo viene dirottato con la scusa di un possibile attentato terroristico; in realtà si rendeva necessario catturare un dissidente del regime prima che questi avesse rilasciato una pubblica intervista nel paese d’arrivo.
Il leader di una tra le piú potenti nazioni del globo, ha dato incarico ai propri servizi segreti, di far luce sulla vera origine della contaminazione da Covid 19, con la condizione che il tempo per farlo non fosse superiore ai tre mesi e che le cause riguardassero l’estremo Oriente.
Per una migliore libertà interpretativa: entrambe le notizie hanno il triste sapore dell’ennesima menzogna. Si può dire che per la prima si sia mosso un demone minore, mentre per la seconda è stato richiesto l’intervento di un Satanasso di Alto Livello.
Ma l’orbita geopolitica degli avvenimenti non deve trarre in inganno; per la messa in scena dell’inchiesta sul Covid 19, è bastato un demonietto alle prime esperienze, in quanto la popolazione di riferimento è già devastata di suo da potenze infernali che l’hanno ridotta allo spaventapasseri di sé stessa; nel mentre per le popolazioni dell’Est Europa, anche se di numero ridotto rispetto all’altro caso in esame, il discorso è diverso: anzitutto sono molto meno creduloni degli occidentali, e per questo è stato opportuno smuovere Spiriti Inferi Menzogneri di grande esperienza; infatti la diffidenza, i sospetti e l’antipatia nei confronti del regime in carica puntano all’autodeterminazione, a quella coscienza di sé, che gli Inferi devono continuamente placare e dirottare (pure loro!) se non vogliono perdere la posizione preminente di Avversari Anti-Uomo
La libertà, cui in tanti ora applaudono, dal momento che le restrizioni sanitarie sono diminuite, e quindi si concede di tornare all’originario splendore la possibilità di movida e aperitivo senza coprifuoco, è davvero la Libertà? Possiamo accostarla alla libertà che Dante ci ricorda con la figura di Catone l’Uticense?
Per una libertà interpretativa: la libertà non si può comperare; però costa. A volte è molto cara; e si fa pagare sempre in via anticipata. È un processo doloroso e lungo di catarsi individuale e collettiva: fintanto che si nutre l’illusione di poterla concepire in vacanze e aperitivi, in happy hour e mense imbandite, sarà un percorso ancora lungo.
La pubblicità è l’anima del commercio; cosí dicono.
Per una libertà interpretativa: la pubblicità che dilaga, invade e deturpa le nostre vite come la plastica avvelena le acque dei mari: la pubblicità che tutto interrompe, che ogni cinque minuti entra a gamba tesa nei programmi, rubriche e notiziari, anche nei momenti di compunzione e di dolore: che costringe giornalisti e conduttori a troncare bruscamente dialoghi, discorsi, interviste, lacrime e risate al grido «Oh mamma! Abbiamo sforato!»: la pubblicità che ingrassa pochi a danno di molti: la pubblicità che rappresenta l’abuso di un potere che ci vorrebbe schiavi, servi e consumatori sottomessi, la pubblicità che riempie di cartacce le cassette delle lettere, che deturpa le strade con una cartellonistica invasiva; la pubblicità che nessuno chiede, ascolta né legge; la pubblicità che cerca di annientare ogni possibilità di crescita, di scelta, di decisione, di libero volere; la pubblicità che involgarisce ogni giorno e ogni notte terrestri: la pubblicità insolente, squallida e terrificante macchina da guerra che prova a destabilizzare i sensori neuronici dei cervelli umani (almeno quelli che ci restano): sarebbe questa l’anima del commercio?
La domanda è del tutto retorica, ma se la propaganda delle forze istituzionali è quella che sostiene a spada tratta che è il lavoro a conferire all’uomo la dignità che gli spetta, allora rispondo che è proprio la pubblicità a togliergliela e a renderlo un automa impotente, privo di coscienza e posto a servizio della civiltà dei consumi.
Un assunto fondamentale collega tra loro le mie riflessioni, le impasta, le lievita come fossero ingredienti di una pizza gigante da cuocere al forno: sopra si spargono le attualità dell’ultima ora, gli accadimenti che formano un piccolo grande museo degli orrori, e fungono a dare nuovi nomignoli al prodotto da commercializzare: alla capricciosa, all’immonda, alla diavolesca; alla brigantina, piratesca, truffaldina, e per gli stomaci piú robusti pure “ pizza alla sacrilega”.
Molti sostengono che nel mal comune ci possa stare un mezzo gaudio, ma per quel che mi riguarda, rimango convinto che il mal comune sia una mezza epidemia; infatti non ci siamo andati lontano…
Cos’hanno di particolare le umane follie dei nostri giorni? Quale comun denominatore se ne trae guardandole in controluce e chiedendoci con obiettività il loro significato, cercando di ravvisarvi un’evidente analogia che le accomuna tutte? Il risultato c’è e non è piacevole. Si tratta di fatti e situazioni che svelano una condizione umana estremamente precaria e indebolita. Raccontano di anime che non sanno piú vivere la vita interiore necessaria a farle crescere e sviluppare in modo corretto; raccontano di giardini, di piante e fiori rinsecchiti, asfittici, scoloriti, privi di vigore, avviliti nell’abbandono, nel sudiciume accumulatosi, nel quadro di un’avvenuta devastazione che ci vede corresponsabili.
In vero la situazione dei rifiuti urbani e di vari parchi o giardini pubblici di molte città, presentando simili aspetti esteriori, denunciano quelli interiori, che nessuno vede, di cui nessuno parla, ma che tutti subiscono, fingendo di non subire.
Emblematico fra tutti, il caso di una grande acciaieria sorta nel meridione del paese; a suo tempo, essa si allargò, divenne sempre piú grande e produttiva e poté offrire migliaia di posti di lavoro. Come succede in tali casi, attorno ad essa si costruirono le case degli operai e in breve divenne una vera e propria cittadella, con l’applauso e la riconoscenza di governatori, proprietari, dipendenti, maestranze e sindacati; un gioiello di operatività industriale lodato e portato ad esempio in tutto il mondo.
Poi cominciarono le malattie; si stabilirono nessi causali tra l’inquinamento prodotto dalla fabbrica, dalle scorie, dai gas, con il territorio e l’ambiente circostante, che in pratica riguardava ora l’intera città. Si cercarono ripari, soluzioni alternative, ma ogni vero rimedio sarebbe stato, sul piano economico e finanziario, peggiore del danno che si stava perpetrando; nessuno decise niente, a parte finzioni e messe in scena ad uso e consumo di lontani osservatori. E tutto continuò, finché i lutti e le malattie non poterono piú venir contenuti nei cosí detti limiti della decenza pubblica.
I giudici decisero che qualcuno doveva pagare; ma le sentenze della giustizia umana funzionano quanto le baracche del tiro a segno: se miri bene ti porti a casa un orsetto di pelouche, e magari quella sera vai a letto sentendoti un po’ migliore. Per questo i piú sbrigativi preferiscono mirare al bersaglio grosso.
Mentre scrivo, la tragedia dell’indecisionismo dei poteri del mondo che abbiamo creato, è ancora in onda; forse ne vedremo l’epilogo. Se nei tempi che furono si fosso fatto il processo a Caino, qualcosa mi dice che saremmo andati avanti fino alla prescrizione. Ma è una mia opinione, nemmeno tanto nobile.
Ora devo davvero voltare pagina; se queste sono state fin qui recepite come premesse per costruire l’ennesimo discorso di lamentela, di rimprovero urbi et orbi e di provocazione per spingere gli animi sensibili a ravvedimenti e penitenze, io penso di aver fallito completamente il mio obiettivo.
Perché son poche le cose di questa epoca che aiutano maggiormente l’Avversario dell’Uomo quanto il mettersi assieme per piangersi addosso e implorare la Bontà del Divino affinché ancora una volta intervenga a bonificare le nostre malfatte.
La passività e l’inerzia hanno già prodotto disastri in tutti i settori dell’esistenza; l’unico antidoto possibile è quello di opporsi all’iniquo, alla menzogna, alle finzioni portate, vissute ed esasperate, nel tempo presente, a livello difficilmente immaginabile. Ma opporsi vuol dire, prima di ogni altra cosa, sapere quel che c’è da fare e poi farlo. Altrimenti si finisce per alimentare l’iniqua spirale di prima, e anziché portare nel mondo la luce della Spiritualità umana, continueremo a frequentare i Luna Park degli Ostacolatori, convinti che lo spasso sia il nostro.
Cerchiamo, almeno io qui ci sto provando, di capire co-me tutto questo sia potuto accadere e quali ne siano stati i motivi. O comprendiamo una buona volta chi veramente siamo e che cosa siamo venuti a fare sulla terra, oppure il divenire dell’universo si avvarrà di scelte diverse, nelle quali l’essere umano non avrà il ruolo che oggi gli spetta. Che questo possa venir considerato un tradimento non consola nessuno; i giudizi, le definizioni, i bizantinismi della dialettica scompaiono di fronte all’urgenza di un nostro radicale intervento sul piano conoscitivo.
Chi una volta ha afferrato che due piú due fa quattro, non se lo dimentica piú. Cosí pure noi, riandando a frugare tra i nostri testi e consultando le comunicazioni lasciateci dai Maestri dello Spirito, potremo recuperare, stavolta in via definitiva, certe verità, senza le quali – bisogna ammettere – non siamo capaci di procedere oltre sul piano evolutivo. Il non andare oltre su una strada che s’allunga sempre piú, significa restare indietro fino a scomparire nel nulla.
L’attenta, accurata analisi svolta dalla Scienza dello Spirito, sotto la guida di Rudolf Steiner, ci viene in aiuto; possa chiarire, una volta per tutte, le ragioni dei nostri spropositi e debellare l’equivoco di fondo, perché – onestamente parlando – temo che attualmente non si diano altre possibilità.
È necessario quindi armarsi di santa pazienza e porre alla luce della nostra attenzione ben desta tre parole chiave: immaginazione, facoltà pensante e pensiero astratto.
Quanto abbiamo fin qui imparato tramite educatori e cultura ufficiale, ci dice subito che le potenzialità suindicate sono attribuibili all’essere umano d’ogni ordine ed epoca. Ma non è cosí, assolutamente no. L’uomo antico disponeva di un potere immaginativo ben piú potente di quello attuale, L’immaginazione gli veniva per via naturale come retaggio del Mondo spirituale divino dal quale la sua anima era discesa per incarnarsi.
Risulterà, forse poco dalla storia, ma analizzando con criterio l’arte e la filosofia degli antichi, appare evidente che in essi c’era ancora un contatto con le forze che governano l’universo, ed essi istintivamente regolavano la loro vita secondo queste. Tale rapporto oggi è scomparso; chi volesse restauralo verrebbe preso in giro dai contemporanei, e giustamente. Perché percorriamo una strada dalla quale non si torna indietro; si può eventualmente restare indietro, ma dipende dalla volontà o dalla cecità dei singoli.
Eppure, abbiamo di fronte a noi il mondo dei fanciulli, che sa darci delle grosse conferme in merito. I bambini domandano mille cose, sono curiosi, vogliono sapere; chiediamoci come mai per loro è molto piú convincente una spiegazione magari poco logico-razionale, ma vivacizzata nel racconto e colorita da sentimenti e sensazioni.
L’antico contadino egizio che inginocchiato sulla sponda del Nilo, poneva una semente di papiro nella fanghiglia, necessitava forse di sapere le formule della fotosintesi clorofilliana, per riconoscere nella luce del Sole la possanza del Dio Ra che tutto faceva nascere e germogliare?
O pensiamo seriamente che, divenendo esperti in fitobotanica, potremo seminare e piantare senza avere ulteriore bisogno di un ammasso di gas incandescenti che se ne sta lí nel cielo da millenni, a illuminare e riscaldare metà delle nostre giornate, e che, forse, lo farà per qualche altro tempo ancora?
Abbiamo perduto il potere immaginativo, dobbiamo dircelo; e con esso abbiamo perduto la percezione dello Spirito che ci parlava nell’immaginare, come ci parlava attraverso gli atti e i processi della natura.
Tutto ciò aveva comunque uno scopo preciso; l’affievolirsi della facoltà immaginativa doveva lasciar posto nell’anima degli uomini ad un particolare rapporto con quella pensante; infatti, da alcuni secoli a questa parte, abbiamo ben chiara la nuova condizione che ha dato una particolare svolta al nostro modo di sviluppare la conoscenza del mondo; staccati dal divino e distolti dalla spiritualità della natura, ora tutto ci appare come un immenso mondo di percezioni, diverse da noi, esistenti di per sé, infinitamente grandi o infinitamente piccole; un cosmo pervaso da leggi che dobbiamo in gran parte ancora scoprire, perché quelle imparate fino ad oggi sembrano invalide e inutili nella struttura e nel comportamento del nuovo modello esistenziale.
Il percezionismo fisico-sensibile ci ha condotti al punto di considerare il divino, il soprannaturale, il sacro, come un optional ermetico sul quale, chi lo vuole, può esercitare l’arte cognitiva; ma l’importanza di questo ramo cadetto è valutato, al giorno d’oggi, quanto gli studi sulle lingue morte. Una sorta di abbellimento culturale, da sfoggiare nelle giuste occasioni; niente di piú.
Dal momento che carmina non dant panem, il materialismo conseguentemente, dopo averci privati del companatico, cerca di sottrarci pure il pane; non dobbiamo tuttavia considerarlo come fosse una trappola o una via senza uscita. La maturazione dell’umano prosegue sempre; possiamo tutt’al piú intuire di trovarci insaccati in un momento delicatissimo del nostro divenire. Quel che abbiamo finora ricevuto per Grazia Divina ci è stato dato affinché potessimo reperire in noi le forze di risoluzione che – in questo preciso istante – sono pronte per agire e farci superare, non dico agevolmente ma con determinazione, la temporanea impasse.
Mentre le forze originarie dell’anima si spegnevano, la potenzialità pensante ha cominciato ad esprimersi secondo modalità diverse; prima, un pensiero per diventare azione efficace doveva venir sostenuto con vigore dalle ragioni del cuore, ora, anima e cuore raffreddatisi, non danno al pensare il calore che gli era necessario per sostanziarsi; però in compenso lo lasciano totalmente libero di seguire quella che è la sua naturale indipendenza dalle categorie corporee.
Il pensiero diventa obiettivo: lo era da sempre, ma una volta divenuto pensiero d’uomo e, in epoca moderna, trovandosi circondato da un mondo sconosciuto di atomi, molecole, galassie e nebulose, deve per forza maggiore tuffarsi nella matematica, nella rigorosa obiettività scientifico-razionale-meccanica, per poter leggere ancora le pagine di un universo in cui il Creatore ha smesso di parlargli.
Reperito nella fase dell’astrazione, il potere impersonale dell’oggettività ha addossato al cosmo intero l’aspetto del terzo estraneo; sicché il soggetto umano ritiene per ovvia la sua conseguente estromissione da un mondo che non gli appartiene e che, a tutta prima, lo ricambia, escludendolo.
Tra soggetto e oggetto esiste un unico legame : il possesso, l’acquisto, la vendita.
Per quanto detto, il pensiero astratto deve in qualche modo superare se stesso; trovare nella sua stessa essenza quei poteri che, in epoca remota, ma neppure troppo, gli avevano garantito una iniziale padronanza del mondo.
In apparenza il problema non presenta soluzioni di comodo: se sono andato avanti per millenni in un certo modo, e ora mi trovo sminuito in una delle mie facoltà primarie, è evidente che il pensiero, per quanto acuto, erudito e intuitivo possa essere diventato, non potrà, da solo, offrirmi lo stesso apporto di prima.
È certamente cosí; ma tu devi sapere, caro amico (mi si conceda lo sdoppiamento di persona, ma a volte, nel dialogo con me stesso, tale espediente mi facilita la spontaneità) che il tuo pensiero si trova adesso nelle aride lande del pensiero astratto pensante; è come voler attraversare sul dorso di un cammello un deserto implacabile; o ci entri bene equipaggiato, sia pure con il minimo indispensabile per la sopravvivenza, sai dove arrivare e quale sia il percorso migliore da fare, oppure non hai scampo; la tua storia s’insabbierà con te.
Il problema fondamentale diventa ora l’attraversamento di questo deserto che ho chiamato del pensiero astratto pensante; quel pensiero che invero ha permesso di ridurre ogni cosa studiata in formule matematiche, anche la velocità della luce, il moto e la posizione delle particelle, ma che trovandosi nella sua possibilità di espandersi, senza avere piú nella coscienza umana un’àncora con la quale restare attaccato alle basi della vita sulla Terra, è capace di sciogliere definitivamente il vincolo con il singolo essere umano, del quale era divenuto il compagno (spesso inosservato) di viaggio.
Il che costituisce l’altra faccia di rischio per l’annientamento dell’uomo. Da una parte, la possibilità luciferica di una illimitata espansione intellettiva, perdendo ogni residuo di inibizione morale che regola da sempre la vita interiore e che pone, o poneva, un freno alle brame mentali; dall’altra la schiacciante morsa arimanica, che vorrebbe comprimere le forze centrifughe dell’ego fino a farlo deflagrare definitivamente e quindi concludere la sua provvisoria reggenza, senza avergli permesso di raggiungere il livello di coscienza dell’Io, se non come un vago e preoccupante sentore, normalmente accantonato.
Ovviamente cosí non si va da nessuna parte; questo è chiaro. I passi da fare con urgente premura e con incrollabile fiducia sono due; uno piú essenziale dell’altro. Si tratta di recuperare l’anima bistrattata, sciupata e derelitta, che oramai nulla sa piú di se stessa, della sua origine superumana, della destinazione incredibilmente umana che le spetta; e, contemporaneamente, far sí che il pensiero diventi talmente mobile e leggero da poter superare quanto prima le lande della desolazione, come ci ha mirabilmente raccontato Michael Ende in un realistico capitolo de La Storia Infinita.
I rimedi, per ambedue i casi, non sono da trovare; sono già presenti in ciascuno di noi; il primo, quello che riguarda la vita e la forza dell’anima ci è stato dato duemila anni or sono; evidentemente era tale il tempo necessario per divenirne accorti; la morte fisica che diventa resurrezione dello Spirito individuale e libera l’anima dal suo vincolo al sensibile, credo sia l’impulso piú potente per riaccenderla di quell’ardore che le sarà necessario per affrontare l’ ultimo impegno dell’incarnazione
Secondo, ma soltanto per un semplice fatto di sequenza numerale, quel pensare pensante che oggi noi vogliamo considerare come il punto d’arrivo della modernità filosofico- scientifica, è solo una eventualità, una stazione di passaggio verso quote piú alte, una promessa del divenire; ma è la piú grande, la piú bella, la piú importante che ci sia mai stata concessa, in tutto il nostro cammino attraverso i tempi.
Se l’anima umana fornirà al pensiero ancora astratto, il calore necessario (e non si può che chiamarlo Amore) affinché la sua innata chiarezza albeggi in un modo del tutto nuovo per l’universo; se il Fuoco incontrerà la Sua Luce e le due sorgenti della vita piú antica ed intima dell’uomo si riuniranno al di là dei limiti spaziotemporali e delle terrene contingenze, come già fu nel Principio; allora io penso che questa nostra umanità sarà capace di ritrovare nella propria storia, tutte le ragioni ed i motivi per cui, pur anelando la Libertà, non è stata in grado di capire, per un tempo cosí lungo, in che cosa essa consista e che cosa voglia da noi.
Senza il Cristo nell’anima e senza il Logos nel pensiero, dove crediamo di andare?
Angelo Lombroni