La Divina Commedia
Due volte designò questa sua opera con il nome di «Commedia», altre volte dette ad essa il nome di «Poema sacro» per rilevarne il carattere mistico insieme a quello artistico. Soltanto in un’edizione del 1555 il poema recò per la prima volta il titolo di «Divina Commedia».
Nella famosa epistola indirizzata a Can Grande della Scala, Dante, illustrando le caratteristiche fondamentali della sua opera, spiega di averle dato il nome di Commedia, in quanto essa presenta, cosí come l’azione drammatica che ha questo nome, un principio torbido e travagliato, l’Inferno, e una conclusione serena e luminosa, il Paradiso. Inoltre chiarisce perché la lingua adottata nella concezione delle cantiche non sia la latina ma quella volgare la quale piú si addice alla commedia.
Nell’intento di creare un’opera che dimostrasse come l’uomo nella libera determinazione dei suoi atti deve attendersi dalla Legge Superiore un compenso alla sua virtú e una punizione alle sue azioni riprovevoli, Dante Alighieri adottò la forma della visione per rappresentare, attraverso una sensibilizzazione dello stato delle anime dopo la morte, il grande ciclo dello Spirito umano e nobilitare cosí il senso stesso della sua missione nella vita terrena.
Da questa fondamentale concezione è comprensibile sia il significato letterale del poema che descrive le pene dell’Inferno, le sofferenze del Purgatorio e la felicità ineffabile del Paradiso; sia quello allegorico in cui è evidente come l’uomo possa anche nel breve giro della sua vita umana trascendere lo stato di immedesimazione nella miseria e nell’errore, attraverso le opere della virtú e della carità.
Inoltre Dante annetteva alla sua opera una straordinaria portata sociale e politica. Infatti con essa non si rivolgeva ad individui o a particolari gruppi, ma essenzialmente a tutta l’umanità, allo scopo di far conoscere l’unica via attraverso la quale si può giungere alla realizzazione del benessere collettivo, sorretto dalla autorità gerarchica che ripete nell’Impero terreno la mirabile struttura dell’Impero celeste.
La mirabile visione
La scelta della forma di “visione” per rappresentare piú efficacemente la sua concezione è facilmente spiegabile se si pensa alla mentalità degli uomini di quel tempo, tra i quali, grazie al sopravvivere della Tradizione spirituale, erano diffuse idee ben precise circa le possibilità trascendenti dell’uomo e dei suoi rapporti con il mondo divino. La forma della visione che è usata largamente anche nella Vita Nova è familiare agli uomini dell’epoca e specialmente a poeti e rimatori del “Dolce Stil Novo” e a tutti i «Fedeli d’Amore».
Dante immagina che tale visione si inizi nel periodo del Giubileo, mentre egli compie il suo trentacinquesimo anno e si ritrova smarrito, dopo la morte di Beatrice, nella tetra selva degli errori e delle degradanti abitudini: gli va incontro Virgilio, il poeta che aveva narrato la discesa di Enea nell’Inferno e che in una delle sue egloghe aveva quasi vaticinato l’avvento di un “ordine nuovo” per virtú del Cristo.
Virgilio, la cui figura simboleggia lo sviluppo della coscienza e della dottrina conformemente alla saggezza del ciclo antico, guida il Poeta attraverso l’Inferno e il Purgatorio, per condurlo là dove lo attende Beatrice la quale è simbolo della rivelazione celeste e della Sapienza teologica: la sublime creatura accompagnerà Dante lungo il viaggio ultraterreno, per un ciclo ancora piú luminoso, sino alla beatitudine superiore del Paradiso.
I tre mondi
La visione di Dante è resa suggestiva da una ricchezza di immagini ben differenziate: egli infatti ci rappresenta l’abisso oscuro e lamentoso dell’Inferno, la lieta e serena montagna del Purgatorio e le aeree sfere soffuse di luce e di grazia del Paradiso: egli conduce il lettore, con una potenza avvincente di poeta immaginifico e di ragionatore profondo, per ogni contrada di questi tre mondi popolati di colpevoli definitivamente dannati, di colpevoli in stato di penitenza e di beati nella luce divina. Passa cosí gradatamente dal primo in cui si agita il complesso delle piú oscure passioni, al secondo dove l’aspetto tragico è sostituito da quello della purificazione dolorosa e gioiosa ad un tempo, che prepara alla comprensione del terzo la cui altezza e la cui perfezione sono difficilmente concepibili da un punto di vista semplicemente umano.
La costruzione del poema ha qualche cosa di magicamente architettonico: Dante plasma questa materia cosí difficile e cosí diversa con una precisione, un equilibrio e una forza di rappresentazione che fondono in una mirabile sintesi la realtà e la fantasia. Per questo egli s’ispira ai criteri di una chiara obiettività, osservando sempre la regola della proporzione tra il peccato e la punizione, tra il merito e il premio, immaginando una suggestiva varietà di sofferenze fisiche e di tormenti morali, fingendo che le anime degli estinti acquisiscano nell’Inferno e nel Purgatorio una veste fisica simile a quella lasciata sul piano umano e perciò suscettibile di tutte le sensazioni e le emozioni terrene.
Tradizione spirituale mediterranea
Le cantiche del poema sono tre, ciascuna composta di trentatré canti (considerando il primo come un prologo): il numero nove ricorre con lo stesso valore simbologico che presenta nella Vita Nova: infatti, nove sono i cerchi infernali, nove i cieli del Paradiso e nove le gerarchie dei beati nell’Empireo.
Questa euritmia, in cui si ripete l’essenza dell’antica saggezza pitagorica pervenuta a Dante attraverso la tradizione romano-mediterranea, conferisce a tutta l’opera una compostezza armonica di impareggiabile grazia. In essa si esprime potentemente la personalità del Poeta: infatti egli ha potuto insieme oggettivare l’empito delle sue aspirazioni, delle sue emozioni profonde, dei ricordi della vita drammaticamente vissuta e soprattutto del suo amore. Secondo che osserva il Turri, «anche nelle piú alte sfere del Paradiso risuona la voce del cittadino austero, dell’esule sdegnoso, scoppia la fiera invettiva dell’uomo di parte».
Il senso peculiare della umanità di Dante si esprime peraltro non soltanto negli episodi ben noti dell’Inferno, quali quelli di Paolo e Francesca, di Farinata degli Uberti e del Conte Ugolino, ma anche in quelli del Purgatorio e del Paradiso, in cui veramente la materia trattata presenta una particolare difficoltà nella rappresentazione di personaggi come Casella, Pia Senese, Manfredi, Sapia, Bonconte da Montefeltro, Corrado Malaspina, Oderisi, Forese e Piccarda Donati, Cacciaguida e cosí via.
Anche la vocazione politica di Dante lievita nel profondo di tutta questa superba creazione poetica: il potere politico viene infatti rappresentato simbolicamente nel maestoso seggio sormontato da una corona e destinato all’anima dell’Imperatore Enrico. L’aspirazione nazionalistica e imperiale di Dante si fonde con la rappresentazione di un tipo di saggezza superiore, quale si riscontra nelle figure simboliche del Paradiso.
Sotto questo aspetto, l’opera dantesca riflette l’anima migliore del Medio Evo, ossia quella mistica e cavalleresca. Al tempo stesso essa sintetizza i significati maggiori della cultura e della civiltà del suo tempo: è, secondo l’espressione di Carlyle, la voce di dieci secoli rimasti silenziosi.
Presso Can Grande della Scala
Tornato in Italia fu costretto a cercare nuovamente ospitalità presso i vecchi amici, e piú a lungo si trattenne presso la corte degli Scaligeri a Verona. Can Grande in modo particolare gli dette prova di stima e di cortesia: egli apparteneva a quella eletta schiera di nobili italiani che sino al Rinascimento ed oltre furono protettori della cultura e delle belle arti, dando modo a molti ingegni di affermarsi e di lavorare con tranquillità.
È storico che Can Grande della Scala, capo dei Ghibellini della Lombardia e rappresentante dell’idea e del potere del Sacro Romano Impero in quella regione, fu ospite cortese e munifico per Dante, cosí come per tutti gli esiliati. Tuttavia alla squisita affabilità esteriore e alla sua cavalleresca magnanimità corrispondeva uno spirito intimamente cinico e calcolatore, che vedeva negli uomini non tanto delle personalità dotate di un’anima, quanto delle possibili pedine del suo giuoco politico.
Un carattere cosí fatto non poteva non urtarsi piú di una volta con quello fiero e supremamente dignitoso di Dante Alighieri. Si narrano al proposito diversi episodi che possono dare la misura di una schermaglia vera e propria avvenuta tra il signore ghibellino e il divino Poeta.
Arguzia del poeta
«Trovandosi un giorno Dante insieme con molti altri ospiti illustri alla tavola di Messer Cane, questi ordinò di nascosto a un garzone servo di corte di ammucchiare sotto la tavola, ai piedi di Dante, tutti gli ossi spolpati dai convitati. Quando, fatto ciò, il ragazzo se ne fu andato, Messer Cane ordinò di levare le mense e, guardando con simulata meraviglia il mucchio degli ossi, esclamò: «Guarda che divoratore di carne è il nostro Dante!»
Tutti i convitati rivolsero gli sguardi verso il Poeta e si abbandonarono alle risa. Ma, calmo e pronto, guardando fisso negli occhi Can Grande, il Poeta rispose: «Se cane io fossi, tante ossa non lascerei ai miei piedi!».
Colpito da quella risposta cosí arguta, messer Cane, il magnanimo protettore delle Muse, si levò e andò ad abbracciare graziosamente il Poeta.
Contrasti tra Dante e Can Grande
Un altro episodio riferitoci dal Petrarca può dare piú esattamente la misura del graduale raffreddarsi dei rapporti fra Dante e Cane.
«Trovandosi alla corte di Can Grande, Dante fu dapprima tenuto in grande considerazione da lui, ma poi, perdendo a poco a poco la sua grazia, cominciò ad essergli ogni giorno sempre meno gradito. C’erano in quella corte, come si usa, buffoni e istrioni di ogni genere; ed uno di essi, il piú sfrontato, si era cattivato con parole e uscite impudenti il riguardo e il favore di tutti. Vedendo un giorno che Dante ne soffriva molto, Cane chiamò a sé quel buffone e dopo averlo colmato di elogi disse al Poeta: “Non mi sazio di meravigliarmi che quest’uomo, benché sia un imbecille, abbia saputo piacere a tutti noi, mentre tu saggio non hai potuto farlo!”. “Se tu sapessi che la somiglianza dei costumi e l’affinità delle anime è il fondamento dell’amicizia, non te ne stupiresti”, rispose Dante».
Il che voleva significare che solo da un’affinità con il buffone Can Grande poteva trarre il suo diletto.
Tuttavia l’ospitalità che il Poeta ebbe presso la corte dello Scaligero fu confortevole sotto l’aspetto esteriore e materiale; ma non era questo che poteva soddisfare Dante, che soprattutto cercava la calma dello Spirito e la compagnia di coloro che potevano comprendere insieme alle alte doti del suo intelletto anche la tempesta interiore che lo tormentava.
Presso Guido da Polenta
Nel gennaio del 1320, in un solenne consesso di studiosi e di cittadini raccoltisi nella chiesa di Sant’Elena a Verona, Dante sostenne la disputa rimasta famosa dei «Due elementi, la terra e l’acqua», in cui, attraverso argute induzioni dimostra come in nessun punto l’acqua possa elevarsi al disopra della terra emersa.
Nello stesso anno si recava a Ravenna al servizio di Guido Novello da Polenta, signore di quella città, principe di animo nobilissimo, cultore delle lettere e della filosofia, il quale lo accolse con onore, accordandogli tutta la sua protezione. Sembra che a Ravenna finalmente egli si riunisse con la famiglia: certo è pertanto che egli vi poté ritrovare i suoi figli Iacopo e Beatrice, suora domenicana.
L’anno seguente, poiché erano sorte ostilità tra il signore di Ravenna e la Repubblica di Venezia, l’illustre proscritto veniva inviato da Guido da Polenta al Senato della Repubblica, in qualità di ambasciatore, con l’incarico di comporre la contesa e di trattare la pace. Dante accettava di buon animo la missione; ma sembra che non potesse condurla a compimento, non avendo concluso con il Senato veneto gli accordi che si riprometteva. Faceva ritorno a Ravenna infermo per febbri contratte durante il viaggio e dolente di non aver potuto realizzare il desiderio di pace dell’amico cui si sentiva legato da una profonda gratitudine.
Morte di Dante
La sua vita era stata una serie di battaglie duramente combattute: delusioni e ingiustizie lo avevano continuamente travagliato anche nei momenti in cui sembrava giusto che la buona sorte dovesse essergli favorevole. Tali sofferenze non avevano tuttavia piegato la sua virile tempra né avevano in alcun momento fiaccato la sua fierezza e la sua dignità. Ma la resistenza del suo corpo soffriva di quei limiti che il suo Spirito non conosceva. E la malattia improvvisamente lo colpí. Dopo pochi brevi giorni di infermità, moriva il 14 settembre del 1321.
Guido da Polenta ordinò per il Poeta magnifiche esequie, onorandolo di una solenne orazione funebre, e ne fece racchiudere il corpo entro un’arca lapidea, presso la Chiesa dei Frati minori. Diversi poeti che riconoscevano in Dante il fratello e il maestro composero per lui un “compianto” per onorarne la grandezza e la memoria. Tra essi furono Cino da Pistoia, Giovanni Quirini e Pieraccio Tedaldi.
Ma Firenze non pianse subito la morte dell’“altissimo poeta”. Dovettero trascorrere diversi anni prima che i Fiorentini riconoscessero il valore, la grandezza e la purezza della figura di Dante. Essi cominciarono col decretare un sussidio alla figliola Beatrice nel 1350; poi nel 1373 chiesero ed ottennero che il Comune facesse iniziare la pubblica lettura del «libro che volgarmente si chiama Il Dante». Nel 1494, infine, Firenze rese giustizia alla memoria di lui e tra l’altro prosciolse dal bando i discendenti «di quel Poeta che è di tanto ornamento a questa città».
Qualche secolo dopo, Firenze si disputerà con Ravenna l’onore di custodire le ossa del Poeta: oltre le contingenze del tempo e di là da ogni odio di parte, infine lo Spirito di Dante aleggerà sul piano di quei valori universali che i suoi contemporanei, nella loro limitatezza, non avevano saputo comprendere.
Il volto del Poeta
Dell’aspetto fisico di Dante ci parla con ricchezza di particolari il Boccaccio: «Fu questo nostro Poeta di mediocre statura e poi che alla matura età fu pervenuto, andò alquanto curvetto, ed era il suo andare grave e mansueto». E aggiunge: «Il suo volto fu lungo e il naso aquilino, e gli occhi anzi grossi che piccioli».
Il volto di Dante presentava le caratteristiche proprie al tipo ario-mediterraneo: sotto questo riguardo, dato il complesso eccezionale dei suoi valori interiori, egli si può considerare un rampollo tipico della razza italiana, essendo l’iniziatore della lingua della Patria e della coscienza nazionale.
L’espressione del suo volto era pensosa e malinconica e talora di una gravità che impressionava chi lo guardasse. Il colorito era bruno e la sua barba ricciuta. Camminando un giorno per le vie di Verona «d’onestissimi panni vestito, in quell’abito che era alla sua maturità convenevole», forse avendo il cappuccio abbassato sul viso, e, «passando egli davanti ad una porta dove piú donne sedevano, una di quelle pianamente, non però tanto che bene da lui e da chi con lui era non fosse udita, disse alle altre donne: “Vedete colui che va nell’Inferno e torna quando gli piace e quassú reca novelle di coloro che laggiú sono?”. Alla quale una delle altre rispose semplicemente: “In verità tu déi dir vero: non vedi tu come egli ha la barba crespa e il color bruno per lo caldo e per lo fumo che è laggiú?”. Le quali parole udendo egli dir dietro a sé e conoscendo che da pura credenza delle donne veníano, piacendogli e quasi contento che esse in cotale opinione fossero, sorridendo alquanto passò avanti».
Questo episodio dà anche la misura della mitezza spirituale del Poeta, il quale veramente non fu cosí scontroso e misantropo come qualcuno ha potuto credere. Il carattere di Dante fu una fierezza esteriore che celava una grande dolcezza interiore. Di lui ben ha pensato Carlyle affermando: «Se mai ci fu un cuore umano, una tenerezza simile alla tenerezza materna, fu senza dubbio nel cuore di Dante».
Massimo Scaligero (6. Fine)
Tratto da: Dante, Domenico Conte Editore, Collana “Vite”, Napoli 1939.