Mi piacciono le connessioni: che siano però belle, forti, pregnanti. Le piccole, sempliciotte o graciline, non mi interessano piú di tanto; già sono costretto comunque a produrle e lavorarci ogni giorno assieme. Invece quelle che dico io, eh! quelle sí, che gratificano, anche se nessuno saprà mai che ne sono l’autore e che i relativi diritti (sempre che esistano i diritti pure per le connessioni concettuali, dato che di queste sto parlando) mi spetterebbero.
Di tanto in tanto, capitano le occasioni per cui mi trovo a girare un po’ fra i vialetti e le tombe del cimitero comunale; ho notato che non c’è neppure una lapide o una scrittura funebre del tipo: «Qui giace un uomo che in vita fece delle connessioni importanti». Ci sono molte svariate motivazioni, dediche, epitaffi, per lo piú intonati a dedizione, famiglia, impegno, patria, lavoro, ma alle connessioni, niente, neanche l’ombra (tranne, se vogliamo, quella dei cipressi).
Tuttavia vien da sperare bene; viviamo nell’epoca del Network, la Grande Rete; la cosa si può prendere anche con ottimismo; prima o dopo salterà fuori qualche inno dedicato alle connessioni, magari accompagnato da un’appropriata musichina di sottofondo (stavo per dire di “sottosuolo”, ma mi sono trattenuto) suonata dalla Banda Larga.
Mi pare giusto però, prima di aggiungere altre facezie, chiarire cosa intendo per connessione; quali siano quelle piccole, banali comuni, alla portata di chiunque; quali siano quelle medie, riservate ai “solutori piú abili”, ed infine quali siano quelle toste, extralarge, performanti direi, che, rielaborate, ampliate e usate in modo corretto, potrebbero cambiare radicalmente alcuni aspetti del genere umano in fatto d’esistenza e dei rapporti con la terra che ci ospita, sopra e sotto.
Una connessione, un legame, un vincolo, una valenza, sono collegamenti intuitivi che possono venir svolti da una mente pensante o quasi, la quale sia partita esclusivamente da alcuni dati percepiti; almeno un paio. Ad esempio: percezione n. 1) mentre sto al telefono in corridoio, dal tavolo della cucina scompare una fetta di prosciutto; percezione n. 2) ora il gatto è sulla sua poltrona in salotto e si lecca i baffi: la connessione mi svela il rapporto tra i due fondamentali. Il ragionamento connesso a ciò che è accaduto non è detto debba essere d’oro colato, ma ha delle ottime probabilità di avvicinarsi al vero.
Chiamerò invece “media” una connessione formata da qualcosa di piú complesso: esco da casa, voglio salire in macchina e mi accorgo di non avere le chiavi. Eppure le tengo sempre con me! Dove sono finite? Ricordo allora che ieri ho dovuto cambiare la giacca perché un piccione, ex viaggiatore, ed ora aviatore, l’aveva centrata dall’alto e cosí l’ho dovuta portare in lavanderia. Corro fin là e infatti mi dicono che hanno recuperato un paio di chiavi d’auto: le mie. Tutto risolto, tempo perduto un’ora e mezzo circa. Qui l’esempio è maggiormente evoluto; il mio pensiero ha viaggiato nel tempo e nello spazio (il pensiero lo fa senza problemi, soprattutto senza che me ne accorga); ha individuato tra i mille atti da me compiuti nel lasso di 18 ore circa, quelli convenienti alla ricerca, li ha sistemati in sequenza crono+logica, et voilà, il gioco è fatto.
Qualcuno potrebbe opinare che in questo caso il mio pensiero è stato aiutato dalla memoria; io non lo credo; la memoria è un grande archivio, ma al di là dell’ordine e della catalogazione non si prefigge altri compiti. Il pensiero detiene la password (anzi è lui stesso a trasformarsi ogni volta in parola d’ordine) per entrare nel memo-archivio; è tutta sua l’attività di ricerca che può svolgere là dentro, fino a sintetizzarla, come nel caso appena esposto, in un comunicato lampo formato da poche parole, dirette alla mia coscienza indispettita e avida di sintesi esplicativa: “Ieri + piccione + lavanderia = Cretino”.
Veniamo ora a casi maggiormente significativi, escludo pertanto a priori il mio sperimentare diretto: funziona bene solo ai livelli ordinari o poco piú. Prendo quindi a prestito alcune azioni portate a termine da uomini che prima d’eseguirle devono averle ponderate intellettivamente in lungo e in largo, e con notevoli sforzi.
Quando mi trovai di fronte alla Teoria della Relatività Generale, rifinita da Einstein quindici anni dopo quella Ristretta, non sapevo proprio che pesci pigliare. Avevo capito, eppure non avevo capito, perché mi mancava il supporto interno. L’ho già detto piú volte, tale sostegno non è un fatto esclusivo della mente, né della coltura, ma per funzionare deve avvalersi anche dalla volontà e da sentimenti concordi e positivi.
Un giorno, la mia vecchia professoressa di matematica e fisica del liceo (con la quale intrattengo ancora un rapporto di cordialissima amicizia) mi disse queste parole: «Stai attento: la gravità è lo spazio. È tutta qui la Relatività Generale, non c’è altro; la spazialità è soggettivamente relativa. Come pure la gravità. Il binomio “spazio/gravità” è invece del tutto oggettivo. Però lo devi prima realizzare dentro di te».
Non so se ci sono riuscito, cosí ad occhio direi di no. Ma l’affermazione è potente, e mi costringe a lavorarci sopra ancora oggi. Soprattutto per la ragione che mi ricorda un’altra connessione, estremamente importante, operata dal Dott. Rudolf Steiner nella Filosofia della Libertà, precisamente quando egli dimostra, tramite accurata indagine, che tutte le rappresentazioni portano in sé un qualcosa di soggettivo. Questo ci ha indotto a credere che la soggettività regni ovunque, percezione compresa. Eppure, ove togliessimo a questa (o meglio, alla nostra attività percettiva) ogni autoreferenzialità, rimarrebbe comunque sullo sfondo un elemento, il dato sensibile, che non può in alcun modo venir ascritto alla categoria del soggettivismo. Esiste quindi una dimensione presensoriale, oggettivamente presente, che sostiene ogni nostra esperienza psicofisica. Il fatto di non riuscire a coglierla con i sensi ordinari, non può né deve indurci a negarla o a cancellarla.
Quando la scienza astrofisica piú recente mi racconta del Buco Nero, e rivela che al suo interno la forza della gravità è talmente intensa che il tempo si riduce a zero, cosa dovrei pensare? Che da qualche altra parte, esisterà un Buco Bianco, in cui la gravità sarà talmente rarefatta, se non assente, per cui il tempo si dilata al punto di coincidere con l’eternità? E forse il Buco Bianco altro non è che quello Nero, visto dal punto d’osservazione contrapposto…
In tutti i casi, nulla io so dell’uno e dell’altro, e devo organizzare la mia esistenza proprio come se non ci fossero Tuttavia il non tenerne conto non mi sarebbe di alcun aiuto se fossi un pensatore spirituale, scientifico, o filosofico, o un semplice ricercatore della verità.
Ad ogni buon conto, io ho riferito qui questi pensieri in quanto li ritengo interessanti per promuovere una connessione di serie A. Manca ovviamente l’altra sponda su cui gettare il ponte, ma sono convinto che prima o dopo questa possibilità si verificherà e avremo accesso alla sperimentazione completa.
Un altro esempio, sempre per illustrare meglio le connessioni superiori, è quello che riguarda la Terra Piatta. Non mi interessano le diatribe e le contrarietà immancabilmente insorte sul tema, fa parte della dinamica del gioco evolutivo, anche se nelle sue prime fasi questo gioco passa attraverso la prova degli scontri e delle discriminazioni. Piuttosto che parteggiare per l’uno o per l’altro, chiedo a me stesso, se nella mia organizzazione psico-corporea esiste la possibilità di effettuare un collegamento tra l’attuale visione scientifica e ufficiale della conformazione planetaria e quella che invece è convinta della sua piattezza.
Ogni forma si presenta sempre in senso relativo a chi la osserva, ma esiste anche una forma in sé che è libera da ogni condizionamento percettivo e soggettivo. Noi la chiamiamo forma astratta. Ad esempio, il cerchio o il triangolo come simbolo della categoria di riferimento è astratto, sí, ma non dobbiamo dimenticare che partendo da questa astrazione ne abbiamo fatto discendere un vastissimo settore della geometria, come pure può dirsi del metro. Da un punto di vista strettamente scientifico, il metro è impossibile a realizzarsi in un oggetto, proprio perché la Terra (ci insegnano) è curva e dunque noi, disegnando una linea retta, non avremo mai la garanzia ch’essa sia davvero retta. Quindi l’uso del metro non ha un criterio di stabilità regolamentare che giustifichi al 100% il suo impiego. Eppure, sia coloro che affermano o negano vigorosamente che la Terra abbia la forma di un geoide schiacciato ai poli, impiegano il metro, costruiscono case, strade, ponti e città, senza batter ciglio.
Cosa vuol dire tutto ciò? Chi ammette la contraddizione finge di non vederla? O chi ignorandola in buona fede, la fa passare per genuina? Adesso, dopo esserci momentaneamente rinfrescati le idee, ed aver accettato il controsenso in base al quale non sempre il nostro agire pratico rispetta la teoria che ci siamo costruiti idealmente, arriviamo ad un punto in cui o ci confessiamo che la mano destra non sa quel che fa la sinistra, o che il nostro mondo di pensieri non è capace di connettersi con precisione a ciò che ingegno e progresso escogitano nei campi di ricerca, lavoro e produzione.
Manchevole dei minimi requisiti conoscitivi per affrontare l’argomento, mi appello alla fantasia e presento una visione piuttosto singolare di come considerare in parallelo le due inconciliabili istanze.
Noi abbiamo sempre ritenuto di camminare sulla superficie della terra, e da questa posizione abbiamo preso atto di molte cose: il corso del sole, della luna e delle stelle, gli oggetti che allontanandosi spariscono all’orizzonte e via dicendo. Una tale abitudine ha alimentato per secoli le nostre credenze e la nostra scienza fisica. Siamo immersi e circondati da un universo apparentemente infinito.
Quando una nave si dilegua ai bordi della distesa d’acqua (nave che scompare all’orizzonte) e per ultima cosa io ne vedo i camini ed il fumo che fuoriesce da questi, potrei supporre la rotondità del globo terraqueo.
Però, allo stesso modo, basato cioè sulla semplice, direi quasi passiva, osservazione del fenomeno, dovrei sentirmi altrettanto autorizzato a ritenere che la sagoma di un uomo il quale stia allontanandosi da me, diventi via via piú piccola, in proporzione al tragitto percorso. In effetti è quel che accade; solo che nel primo caso il mio giudizio viene convinto dalla parvenza con la quale la nave è scomparsa alla mia percezione; nel secondo, l’essermi assuefatto alle figure che aumentano o rimpiccoliscono secondo distanza, non mi impedisce di andare oltre col pensiero e di comprendere che ogni volta c’è una connessione da svolgere tra la posizione spaziale di un oggetto rispetto a me, e le reali proporzioni dell’oggetto medesimo.
L’importante da rilevare è che, nel primo esempio citato, il mio pensiero non è intervenuto con sufficiente energia, nel secondo invece lo ha fatto, e di conseguenza mi ha ribaltato il risultato percettivo. È proprio cosí: non lavorando intensamente col pensare, sono stato connesso ad un certo tipo di relazione; meditando e insistendo, invece, sono io ad averla creata. E guarda caso, qui la connessione eseguita mi indica qualcosa di estremamente diverso.
Ora, se da un bel po’ di tempo in qua, anziché concentrarci verso il basso, laddove mettiamo i piedi, ci fossimo rivolti verso l’alto, nulla ci avrebbe vietato di considerarci abitatori di una gigantesca sfera cava: l’universo per l’appunto, e di svolgere i nostri percorsi al di dentro di essa, simili a scoiattolini in gabbia (chiedo licenza per il paragone, simpatico ma poco edificante) che correndo sulla ruota, provano la sensazione di potersi muovere in tutta libertà, anche se in proiezione unidirezionale. Se gli scoiattolini non vivacizzano il paragone, possiamo sempre tornare ai prigionieri della Caverna platonica: vedere e capire d’essere in una fase evolutiva dove dietro ad una supposta realtà, ce n’è sempre pronta un’altra che la integra e la spiega.
Un’esperienza di tal genere, protratta per generazioni e generazioni, porterebbe ad una scienza della natura in cui determinare il formato della Terra non avrebbe piú alcun significato, in quanto prevarrebbe di gran lunga la visione di un universo rotondeggiante ma concavo, espanso all’infinito, o quanto meno in modo smisurato per i parametri umani, nel quale gli uomini si muovono per l’appunto lungo le pareti ricurve, senza riconoscerle tali, ma scambiando addirittura l’incurvatura delle medesime per estensioni pianeggianti.
Del resto, se abbiamo deliberatamente confuso la linea retta con l’orizzonte terrestre, e le grandezze della realtà continuano ad apparire ai nostri occhi proporzionali alle distanze percepite, non vedo quale incongruenza possa sorgere da quest’altra aberrazione sensoria.
Nella mia ipotesi, del tutto fantasiosa ed arbitraria, con quale immagine un’anima semplice saprebbe descrivere la superficie della sfera-universo che la contiene, assieme a tutto il firmamento? Evidentemente come un’immensa sterminata superficie che non ha bisogno di definirsi né rotonda né sferica, ma si presenterebbe semmai come un insieme di corone circolari concentriche; e solo nel prendere in considerazione una di queste ultime, allora il problema di una sua eventuale sfericità (o non sfericità) potrebbe porsi in modo logico e legittimo, nel senso che, in una visione parziale, sfuma quel quid di connettivo che rappresenta l’unica probabilità di pervenire ad una prospettiva generale definitiva ed omnicomprensiva.
Fintanto che si è nel dubbio, nell’incertezza, e pertanto ci si impaluda nel battibecco delle opposte credenze, non si può essere nella verità; ben che vada, si è appena in marcia verso di essa, sempre che non si sia imbroccata una delle tante deviazioni alternative e surrettizie, con le quali la verità ultima ama proteggersi.
Un ragionare analogo è applicabile anche al tema della gravità. Dal momento che qualsiasi oggetto non sostenuto cade in linea verticale verso terra, si è sempre voluto credere che la terra eserciti una forza di attrazione, proporzionale alla distanza dell’oggetto dal centro del pianeta; di conseguenza, poiché tale legge è applicabile ovunque, la forma della terra deve, a suon di logica, essere tondeggiante.
Tutto bene fino a quando non si cominci a ragionare sul fatto che le piante e le erbe crescono sfidando apertamente tale regola mondiale; che l’uomo, dapprima bimbo gattonante, impara ad ergersi in linea verticale; e che il salire della linfa di alcune piante molto alte, per alimentare le zone periferiche sovrastanti la stessa struttura arborea, contraddice apertamente le leggi fisiche della capillarità, e quindi della gravità.
Dobbiamo allora concepire un universo di forze che da una parte scendono verso il basso, e dall’altra risalgono verso l’alto. A questo punto non è piú troppo difficile concepire che le forze discendenti e quelle ascendenti sono le stesse, e che il loro viaggio verso giú implica evidentemente il compimento di una mutazione sostanziale, solo in virtú della quale potrà effettuarsi la loro riascesa.
Mentre per ogni cosa creata questo si verifica in base ad un tacito armonico accordo (leggi di natura), per l’uomo un tale ciclo non si completa senza la sua libera e volente cooperazione. La crescita, lo sviluppo, l’impronta iniziale della sua configurazione animica, gli vengono conferiti in base ad una connessione (non cosciente) con le forze della vita; ma la riascesa, l’elevazione di tali forze, rielaborate dall’organizzazione psicofisica, non può avvenire senza il preciso deliberato orientamento del soggetto fruitore: adesso è lui che da connesso diventa il virtuale connettore (qui l’aggettivo virtuale non esprime soltanto la possibilità del fatto, ma soprattutto qualifica la determinazione volitiva capace di attuarlo). Il far “risalire” queste forze, appartiene alla redenzione dell’anima, alla resurrezione dello Spirito umano, alla trasformazione completa di quel che è stato il nostro ego ed in cui ci siamo per lungo tempo identificati, senza mai chiedercene il motivo.
Eppure, il motivo c’è, ed è l’adagiamento dell’anima sulle sensazioni di non poter far altro che rassegnarsi a vivere l’esistenza che c’è, ed è quella – si viene indotti a credere mediante un’altra connessione subita – che ci è capitata in sorte; il cui unico senso comprensibile è di venir presa cosí come viene. Ovvero, passivamente, se vuoi con santa o, se preferisci, con agnostica rassegnazione.
Il girasole, infatti, non ha da pensare al senso dei suoi semi; il pollo guarda con totale disinteresse il guscio d’uovo da cui è uscito; e il cangurino non si perita d’apprezzare il marsupio materno, lo usa e basta. Ma l’uomo, diciamo almeno qualche uomo, è in grado di svolgere delle considerazioni importanti attorno al suo nascere, attorno al suo morire e pure su tutto ciò che, entro questi termini, si racchiude.
Da un’infinità di secoli, gli abitanti del pianeta Terra sono stati connessi al fattore spazio, al fattore tempo, al fattore gravità, e se ne sono adattati senza eccessivi problemi, impegnati com’erano a sopravvivere e a gustare i piccoli piaceri della quotidianità, forse con la speranza, nel fare cosí, di tenere a bada tristezze, dolori e pericoli. Tuttavia questo pio desiderio, la cui spontaneità è del tutto giustificabile, anche se discutibile, li ha allontanati, per non dire privati, di intuizioni, concetti e idee che contenessero qualcosa di diverso da quella realtà fisico-sensibile che essi andavano via via costruendosi, parzialmente e a tentoni, dall’esperienza del mondo ridotta al loro livello di comprensione. O d’incomprensione.
In altre parole, vincoli, legami e brame terrestri, di ogni ordine e grandezza, hanno derubato le anime umane del significato profondo di essersi volute incarnare e di aver affrontato la nascita fisica sulla Terra per venire a compiervi una missione essenziale, senza la quale nessun esistere fisico sarebbe stato possibile o necessario. Sostanzialmente: il voler credere oggettiva quella che chiamiamo la nostra visione del reale, sta alla sua verità quanto le norme delle leggi umane stanno all’idea di giustizia. Cioè in modo povero, parziale e disomogeneo.
Secondo me (ma è un’illazione non giustificata sul piano logico) piuttosto che sconvolgere ed agitare le anime in schieramenti risibilmente provocatori, faziosi e destabilizzanti – la cui durata vale quanto un refolo di vento, e che altro non fanno se non renderle ancora piú disperate, o furibonde, serrandole nella morsa di temi attualmente non risolvibili – l’uomo, ancorché disorientato e stordito, dovrebbe fermarsi; dovrebbe trovare il coraggio di chiedersi: “Cosa penserò domani o dopodomani, quando sarò piú grande?”, dato che i pensieri attuali sono, nella stragrande maggioranza dei casi, connessioni indotte, tipiche di uno stadio evolutivo ancora immaturo, che non gli appartengono, ma alle quali ormai è lui stesso ad appartenere, essendosene vincolato non per scelta ma per capillarità discendente.
Coloro che hanno avvertenza di quanto esposto, dal momento che lo sperimentano di continuo nel loro piú intimo vissuto, cercano giustamente una soluzione, una via d’uscita dalle condizioni di vita sempre piú astringenti; ma la capacità di produrre un’idea veramente risolutiva sembra essersi smarrita da molto tempo. Al posto di questa, ci dedichiamo con preoccupante assiduità ad intessere ogni sorta di stratagemmi/palliativi/compromessi, i quali non reggeranno mai il peso di una prospettiva onesta e duratura.
Non rientra nelle mie disponibilità l’impiego, neanche estemporaneo, della Lampada di Aladino, eppure credo di aver trovato qualcosa che, compreso ed elaborato in modo corretto, potrebbe rivelarsi come una di quelle connessioni di primo grado (“con fronde di quercia e spade”, come usava dire un caro amico di gioventú), capaci di cambiare la visione e la concezione della realtà.
Non riesco ad essere molto preciso in merito, ma sono sicuro che se qualcuno mappa il nascondiglio di un presunto tesoro, qualcun altro, armato di buona volontà, vanga e badile, andrà a cercarlo e magari lo troverà.
La mappa venne confezionata alcuni decenni dopo l’Evento della Crocifissione, ed è parte integrale del Vangelo di Giovanni: gli strumenti di ricerca e di scavo sono stati offerti a tutti i contemporanei da Rudolf Steiner, grazie alla sua Antroposofia; e la volontà… e beh, la volontà dobbiamo mettercela noi, se vogliamo davvero creare una connessione che ci porti ad un risultato in linea con l’evoluzione umana, che ci aiuti a oltrepassare il guado esistenziale in corso, il quale, nonostante tutte le nostre chiacchiere di critica, di protesta e le indignate esternazioni di rifiuto, continua imperterrito a dominare e a farci fare le connessioni che vuole lui, dandoci mellifluamente la possibilità di cambiare qualche password qua e là, tanto per sostenere al meglio la farsa dell’autodeterminazione dei singoli.
Il passo evangelico è ben noto: vedendo i mercanti e i cambiavalute svolgere le loro attività dentro e fuori del Tempio di Gerusalemme, Gesú prese delle corde, le attorcigliò in modo da farne una frusta e le adoperò per cacciar via i mercivendoli. (G. 2, 13-25)
Personalmente ho letto e udito tale racconto almeno una dozzina di volte; il significato mi era sempre apparso sufficientemente chiaro e quindi non avvertivo in me alcuna necessità di approfondimento. Poi attorno all’anno 2000, mi accadde d’incontrare il pensiero di un discepolo del dott. Steiner che, al contrario di me, aveva effettuato notevoli approfondimenti sui Vangeli, sempre mantenendo accesa la luce dell’indagine antroposofica.
Il fatto mi permise di fare a mia volta una scoperta che oggi, affrontando l’argomento delle connessioni indotte contro quelle di libero intuito, ritengo opportuno e doveroso porre in rilievo. La frusta composta da cordicelle viene chiamata anche “nerbo”; ma il significato di nerbo (in questo caso non si tratta piú di cordicelle, ma di pelle di bue essiccata e ridotta a striscioline ) può benissimo venire esteso anche alla capacità tutta umana di “raddrizzare la schiena” e di “prendere una decisione fortemente volitiva”.
Se si pensa a fondo, qui si sta parlando del momento preciso in cui l’anima di un uomo, opportunamente sollecitata dall’indignazione, dallo sdegno, dal disgusto per la vergognosa acquiescenza collettiva all’empietà, al superficialismo e alle brame di guadagno, anche a costo di cadere in un estremismo poco raccomandabile (però mitigato nell’eccipiente del “quando ci vuole, ci vuole”) decide che non è piú possibile proseguire nella finzione, non è piú possibile ignorare quanto sta accadendo sotto i suoi occhi, dentro e fuori di lei, e di conseguenza fa ergere il corpo fisico, tende le nervature rendendole un arco pronto a scattare, e contemporaneamente raddrizza la colonna vertebrale in tutta la sua verticalità.
La connessione è proprio questa: qui la parola “nerbo” vale per “spina dorsale”. È per davvero una connessione eccezionale, di enorme portata; nessuno la può compiere al posto nostro. O ne diventiamo gli autori, gli artefici, i creatori, oppure essa non si attuerà mai.
Se questa “reazione” può sembrare a qualcuno una manifestazione di ira irrefrenabile, uno scatto di rabbia, un raptus di collera o similari, provi a rimeditare il tutto, ricostruendo in sé le condizioni narrate con sobrietà dal passo evangelico, e si troverà di fronte ad una verità che il nostro comune raziocinio, anche spinto al massimo grado, non saprebbe mai vedere, né tanto meno distinguere nel guazzabuglio generale delle pulsioni istintive.
Quando infatti la motivazione animica riesce ad involarsi verso l’alto, e diviene capace di sfiorare la stratosfera della supremazia etico-morale, allora ciò che nel mondo si presenta come azione corrispondente, è avulso da ogni vincolo dell’ego; la finalità perseguita è impersonale, libera dal giogo delle finalità basilari, dal culto degli opportunismi coercitivi, quanto lo è una tempesta che all’improvviso irrompe sulla terra, si abbatte su uomini e cose, a guastare, cosí si crede, l’apparente quiete che la precedeva.
Respingere a priori la furia degli elementi, i danni, le perdite e le sofferenze collegate è molto umano, ma fa parte di un umano ancora cieco nei confronti del beneficio con il quale la natura esige il proprio rinnovo; non vede nella sua completezza l’azione purificatrice dell’acqua, del vento, la trasformazione atmosferica causata dalle scariche elettriche dei fulmini, lo sconvolgimento del terreno, delle zolle e delle pietre che ora assumono un nuovo assetto. Fissando esclusivamente l’accaduto, il demolito, il distrutto, egli guarda solo al temporaneo parziale flagello; connette la rappresentazione “flagello”, al nerbo, alla frusta, ma non alla cura, non al rimedio di cui le fruste e flagelli possono essere soltanto strumenti.
Nella natura vivono le eterne leggi del creato, esse conoscono da sempre le verità delle loro manifestazioni. Noi dobbiamo appena volerle, cercare le giuste connessioni e trovarle, anche battendo vie insolite, spesso impensabili, talvolta misteriose.
Angelo Lombroni