Le regole del puzzle

Considerazioni

Le regole del puzzle

L’imbarcazione a vela “Luna Rossa”

L’imbarcazione a vela “Luna Rossa”

 

Ogni gioco ha le sue regole, altrimenti sarebbe impossibile giocarlo. Immaginiamoci la faccia di Karpov, costretto a cimentarsi su una scacchiera com­posta da 128 quadretti, o quella di Tiger Woods, se ad ogni suo lancio fosse abbinato un “ferro” estratto a sorte; oppure le espressioni di Bruni e Spithill quan­do, per un bizantinismo del regolamento di gara, le vele issate del “Luna Rossa” dovessero rimanere “in piena” non oltre dieci minuti.

 

Gli uomini, anche nello svolgere attività da di­porto, possono distrarsi, ed essere a volte superficiali, tuttavia dispongono di uno strano meccanismo interiore per cui lasciano correre situazioni in cui ci sarebbe materia di reazione contrastante anche forte; in altre occasioni invece, anziché procedere, s’in­caponiscono per quisquilie e ci restano legati a lungo, con notevole dispendio di risorse e di energie.

 

È giusto cosí, dato che in base a carattere e formazione, ognuno deve reagire da par suo. Ma sia il dotto acculturato che l’illetterato habitué d’osteria, sono sempre concordi ad inviperirsi e a scattare come molle, quando durante una partita di briscola un giocatore inesperto e un po’ svampito butta giú un asso ritenendolo uno scartino.

 

Il che sta a significare che le regole, almeno quelle che ci siamo inventati noi, devono valere per tutti; nessuno escluso. E se qualcuno vuol fare il furbo, mendicando venia per il pressapochismo di­mostrato o chiamando in causa “dèi ed eroi dell’Olimpo”, dev’essere messo a tacere immediatamen­te, perché i giochi possano continuare senza screanzati e disturbatori inopportuni.

 

Con molta fatica e innumerevoli tortuosità, ci siamo procurati una Scienza ed un Sapere, che non sono esattamente la medesima cosa, anche se a prima vista molti li prendono per gemelli. La prima (Scienza) è ufficiale, il secondo (Sapere) è ufficioso; una afferma l’universalità, l’altro sban­diera il campanilismo e la saggezza del tempo e del territorio; quella si prova a conquistare il mondo intero, questo tende a credere d’averlo già fatto da un bel po’.

 

Bisogna trovare un punto d’incontro che abbia la capacità di rivelarsi superiore ad entrambe le concezioni di partenza: ma come generare un dinamismo entropico all’interno di un sistema pre­cluso sia all’eterno che all’infinito? Sarebbe pretendere d’indicare all’ego la strada per congiun­gersi all’Io superiore: indicazione certamente benevola, ma di sicuro inaudibile per chi abita le zone depresse della interiorità umana.

 

Non è bello da raccontare, ma siamo giunti ad un punto evolutivo tale, che chi vive nei piani bassi di un palazzo non ha molte altre occasioni di gioire oltre a quella di vedere il cartello “Guasto” affisso all’ascensore. Perciò prima di sputar sentenze, è necessario focalizzare ben bene il pro­blema e poi metterlo a cottura (si raccomanda fuoco lento e fiamma bassa) sulla griglia del razio­cinio, fintanto che la fase ottimale non sarà raggiunta.

 

Abbiamo cominciato il nostro discorso con delle scenette di fantasia dalle quali si evince lo sbi­gottimento di chi, avvezzo ai campi consolidati del già visto, si trova messo di colpo di fronte a qualcosa d’inimmaginabile. In uno dei primi film sull’Odissea – visto da ragazzo, era il 1956 – andai in visibilio per il modo in cui Ulisse riuscí a placare lo sgomento dei suoi compagni, in un momento drammatico del loro girovagare sui mari; vedendo nella sabbia le orme gigantesche di un piede umano, avevano dedotto che l’isola, alla quale erano approdati, fosse abitata da un gigante e ne erano rimasti sconvolti.

 

Ulisse e Polifemo

Ulisse e Polifemo

 

La risposta dell’eroe fu una vera e propria americanata, ma a quei tempi ero di bocca buona e digerivo tutto, pure la battuta di Kirk Douglas: «Ehi ragazzi, un momento! Chi vi dice che sia un gigante? Potrebbe essere semplicemente un uomo dai piedi grandi!».

 

Oggi, credo che neppure Riccardino, mio nipote di sei anni, si sarebbe lasciato incantare da quel tipo di risposta. Ma questo non sminuisce l’efficacia della boutade.

 

Ne conosco un’altra che voglio riproporre (e lo faccio con molto piacere perché mi diverte sempre ripeterla).

 

Dal momento che stavo avviando il tema di Scienza e Sapere e cominciavo a tirare qualche primo distinguo, que­sta nuova citazione (ma neppure tanto nuova perché risale al 1930) viene a mettere in risalto una differenza fondamen­tale tra le due grandi categorie dello scibile, e nel con­tempo, come spesso succede in casi simili, crea nuovi spazi argomentativi sui quali inoltrarci.

 

Prendiamola con le pinzette da laboratorio, perché fino ad oggi l’asserzione è stata rivisitata molte volte; se n’è ora­mai scoperta l’intima infondatezza; ma ciò non m’induce a ritrattarla, perché essa mostra una volta in piú che nel procedere da livello a livello, quel che prima sembrava bianco, dopo, se non del tutto nero, butta al grigetto; e a tutti gli uomini (di buona volontà) viene richiesto lo sforzo progressivo di adeguare menti e cuori alle nuove posizioni avanzate, conservando tuttavia lo sguardo critico, che in molti casi, è stato determinante per l’avanzamento.

 

La frase da recepire dice cosí:

 

Parte 1a: «È scientificamente provato che, dato il suo peso corporeo, le ali del calabrone sono del tutto insufficienti a mantenerlo in volo».

 

Parte 2a: «Ma questo il calabrone non lo sa, e perciò vola lo stesso».

 

A prescindere dal fatto che studi successivi hanno ribaltato la questione dimostrando matematica­mente che l’insetto vola grazie ad una velocità di battito alare dieci volte superiore a quella del colibrí, io punto l’attenzione sul fondo psicologico che divide in due l’affermazione e ne crea un contrasto, direi quasi pungente, tra l’esternazione iniziale e la battuta di rimando.

 

Qui la scienza, o meglio lo scienziato di turno, si presenta antipatico e implacabile; sostiene con la sicumera del saccente che le cose stanno cosí e cosí. Punto e basta. Ipse dixit. In effetti quanti stanno fuori dall’ambito scientifico, odono il dogma e avvertono quel che cova sotto, ma non sono in grado di contestare, perciò saltano il fosso e reagiscono d’istinto gridando: «Questa è dittatura scientifica!».

 

Esiste nei popoli una saggezza, ruvida, selvatica, acerba quanto vuoi, capace tuttavia di ribattere colpo su colpo agli imperativi degli “scientòfili”, specie quando il sapere raggiunto da questi li ammanta di superiorità e di arroganza.

 

E quindi l’uomo di strada, nella sua schietta semplicità, ribadisce papale papale: «Ah sí? E com’è che il calabrone invece vola comunque?».

 

Ribadisco quanto detto in precedenza; la disputa non è di per sé importante, ma diventa utilissima se andiamo a controllare da vicino le situazioni animiche dei contendenti: vedremo subito che qua­lunque affermazione di tipo cattedratico imposta, o fatta cadere dall’alto, offende in qualche modo chi se ne sta al di sotto, perché non tiene conto del di lui pensiero sul predicato. Non tiene conto della sua naturale tendenza a volersi e sentirsi libero. Quanto meno a parole. Ciò vale per le imposizioni dogmatiche. Fintanto che lo avvoltoli nella moda, nell’estetica, nella pubblicità, negli aggeggi del­l’informatica, nel marasma delle comunicazioni social, e in tutto ciò che, dicono, faccia tendenza, l’improvvido non si accorge di nulla, inghiotte tutte le manipolazioni come fossero caramelle; se invece gli vai a toccare le corde intime dei recessi ipersensibili, acuiti dal senso di un pericolo im­minente, allora apriti cielo! Gli pare d’aver subito un torto irreparabile, sente violata quella parità di posizioni umane che sono alla base del quieto vivere e della pacifica coesistenza. Cosí di fatto egli crede, e forse un giorno una nuova scienza saprà spiegarcene il motivo.

 

Dall’altra parte, la risposta (reale e concreta) di chi subisce, si erge come sfida all’imperativo cultu­rale della Scienza (anche se, come si è detto, l’obiettivo da contestare non è tanto il contenuto scien­tifico in sé, ma il modo con il quale è stato presentato) colpendo là dove fa piú male: «Tu credi di poter sfoggiare la dottrina e far traballare le mie convinzioni ed io invece ti dimostro, in quattro e quattr’otto, che hai enunciato una solenne stupidaggine! A questo punto non puoi pre­tendere di continuare ad essere credibile!».

 

Si crea quindi uno stallo sociale, di categoria, di casta e di regime; tutto diventa pericoloso e problematico. Perché?

 

Bombo in volo

 

Perché sopraffatti dal risultato roboante del paradosso (il calabrone, o il bombo, tenuto in volo dall’ignoranza scientifica) abbiamo perso di vista l’unica opportunità positiva che, nella causa in esame, avrebbe giovato a vincitori e vinti; e che cioè, tanto una Scienza altezzosa e dominatrice quanto un Sapere obiettivo ma artigia­nale, ultrapermaloso e ritorsista, non serve a nessuno. Men che meno all’evoluzione della specie umana.

 

Potrei adoperare qui, in paradigma, la replica di prima, aggiungendo «ma questo gli uomini non lo sanno e continuano imperterriti a sollevare obiezioni su qualunque cosa si pensi, si dica e si faccia».

 

Però, anche se il fatto potrebbe stupire, sono personalmente convinto che noi tutti, esseri terre­stri, siamo qui per costruire e non per distruggere (il verbo “costruire” va ovviamente inteso nel suo significato piú vasto).

 

La storia mostra una varietà di casi in cui le dispute, iniziatesi sotto un profilo strettamente teorico da una parte e pratico dall’altra, raggiungono livelli incredibili di violenza, dapprima verbale, ma poi pure “manuense”, e deflagrano quindi in contese che si autoalimentano in progressione, si estendono a macchia d’olio su una marea di animi ribaldeggianti già pronti alla contestazione tout court. Di qualunque argomento o questione si tratti. Omnia immunda immundis.

 

Nel paradosso del calabrone, alla prima obiezione dell’osservatore, che con voce steineriana po­tremmo indicare appartenente al “realismo primitivo”, l’uomo delle scienze (o idealista critico, per completare il pendant) potrà sempre opporre una giustificazione inoppugnabile: «È vero; qui la Scienza ha inciampato. Ma come se n’è tratta fuori? Attingendo alla forza di una Scienza ancora piú sottile e approfondita della prima! Quindi è sempre grazie alla Scienza che troviamo il modo di uscire dall’impasse». Al che gli amici realisti primitivi possono comunque ribadire: «Se non fosse stato per noi, che alla vostra enunciazione sbagliata vi abbiamo immediatamente dato la baia, sareste ancora lí a studiare l’inconcepibile volo del calabrone!».

 

E via dicendo. Come si può capire, i dialoghi e le dispute mostrano carattere positivo quando i contenuti sono realizzabili; ma se da una parte abbiamo un esercito di sordi e dall’altra uno schieramento di muti, a chi ascolta resta soltanto la triste impressione di non aver capito un’acca di quel che (forse) avrebbero voluto dire.

 

litigi in tv

 

Potrebbe sembrare un ulteriore paradosso, ma il trompeloeil si rileva con facilità nel corso del quotidiano: basta assistere ad uno dei mille talk show televisivi sugli argomenti piú caldi del giorno. Non solo non si giunge ad alcuna meta ponderata­mente condivisibile, ma addirittura i giornalisti/con­duttori fanno a gara per aizzare i contendenti l’uno contro l’altro, inscenando feroci risse di sopraffa­zione verbale, nell’unica mira di aumentare gli indi­ci di ascolto e di conseguenza far sborsare maggior pecunia agli sponsor che vogliono inserire le loro pubblicità nei programmi piú seguiti dal pubblico.

 

Abbiamo visto, d’altra parte, che per le regole del gioco e i regolamenti relativi vi è una una­nimità d’intenti abbastanza stabilizzata, ove altri fattori di crisi e di emergenza collettiva non intervengano. Ma questo vale, sarà bene sottolinearlo ancora, esclusivamente per quei giochi che abbiamo creato noi, con la nostra fantasia, con l’ingegno, con l’abilità manuale o no.

 

Messi davanti ad un rompicapo ideato da un intelletto extraumano, non sappiamo piú quali pesci pigliare. In tali casi la Scienza, brancolando nei tentativi, li vende come fossero frutti di rigorose cer­tezze; per contro, il Sapere, indignato e impaziente, va a rifugiarsi là dove si sente meglio compreso: nella rassegnazione della Fede, nei mal di pancia della Superstizione, e nella ribellione dilettantesca all’Ordine Costituito. Nulla che l’occhio della storia umana non abbia già contemplato piú volte.

 

Puzzle cielo stellato

 

Perché non proviamo invece a fare una cosa del tutto nuova? A considera­re la Vita come un Puzzle gigantesco? Un Puzzle talmente vasto da perderci la testa (non ci vuole poi tanto) e alla cui nascita – ovviamente – non abbia­mo partecipato neppure di sfuggita? Un Puzzle grande quanto l’intero Univer­so, quanto quel firmamento stellato che a volte ricordiamo d’aver veduto in una notte d’estate in aperta campagna, men­tre, da bimbi spaventati, stringevamo al petto un coniglietto piú spaventato di noi.

 

Cosa ci impedisce di ipotizzare d’essere noi i giocatori chiamati a ricomporre l’Antico Disegno Perduto e farlo diventare il Nuovo Progetto? E che ogni vita che ci è stata concessa di vivere su questa terra rappresenta in definitiva una fase del Grande Gioco, in cui si valuta attentamente quello che ciascuno di noi è capace di fare in mezzo alla confusione ed alla perplessità collettiva, ora mascherate da religiosismi malriposti, ora da mate­rialismi esecrabili se non ridicoli?

 

È strano, eppure coltivando una concezione di questo tipo, diciamolo pure, estremamente fanta­scientifica, non ci verrà in mente nulla da contestare, niente da eccepire, nemmeno una timida pro­testa contro il numero spropositato di stelle che dall’alto ci fissano benevole e magnificenti; solo balbettii incoerenti, solo parole monche, solo una propensione misteriosa a starcene buoni e zitti, quale non l’avevamo mai incontrata prima.

 

Ci sentiamo bloccati; se il dio è morto e il demonio non esiste, perché continuiamo a star qui? L’Universo ci vuol forse proporre altri significati, altre mete, altri compiti, al di fuori di quelli che storia e tradizioni hanno fino ad ora mantenuto rinchiusi tra i limiti del Bene e del Male? Non ci toccherà mica lavorare e far tutto da noi, tipo creare un nuovo futuro per il mondo, o quelle cose lí? Non abbiamo eletto (o quasi eletto) un governo che si occupi di queste cose?

 

Corruzione

 

Se i governi eletti (o quasi eletti) non funzionano bene perché sono composti da gente inetta e corrotta, che colpa ne abbiamo noi? Si sono presentati come persone oneste, ben disposte e con le idee chiare; noi abbiamo creduto.

 

Recitando piú volte dentro di noi le scuse accam­pabili dal tipico uomo dell’epoca, non disonesto ma neppure onesto, non colto ma neppure sprovveduto, non osservante devoto ma neanche mangiacristiani a colazione, non intelligentissimo tuttavia neanche sce­mo, un po’ inebetito ma con l’occhietto ancora scaltro, arriveremmo ad una conclusione abbastanza singolare: l’attuale pandemia, le agitazioni geopolitiche, la questione ecologica, le problematiche sociali del lavoro, della sanità, dell’istruzione, della giustizia e in generale del welfare possibile a tutte le popolazioni di questo mondo, sono una bazzecola rispetto al danno che ci stiamo portando addosso, nella maggioranza dei casi senza averne la benché minima avvertenza. Danno che ci siamo inferti con le nostre stesse mani, decennio dopo decennio, generazione dopo generazione, epoca dopo epoca. Non lo sappiamo? Non vogliamo saperlo? Non ce lo vogliamo dire? Ok. Nessuno ci obbliga. Tra molte altre, abbiamo pure questa libertà.

 

Fintanto però che non diventeremo un pochino piú leali con noi stessi e non cesseremo di vedere le cause dei mali che ci affliggono, riflesse nelle sembianze altrui, non saremo mai padroni della nostra vita e conseguentemente nemmeno delle nostre sparpagliate esistenze.

 

Che ci sta succedendo? Il Puzzle della Vita ci preoccupa? Ci spaventa? Vorremmo ritornare al Gioco dell’Oca, che sentiamo essere maggiormente in linea con le nostre capacità?

 

Alcuni sostengono che la vita sia un gioco. Ovviamente anche qui commettono una comoda misticanza dialettica, ma fuorviante; quello di cui dicono potrà semmai valere per l’esistenza fisica, non certo per la Vita. L’esistere si svolge entro due parentesi ben salde e inamovibili, anche se la Scienza si fa in quattro per spostare l’ultima, piú in là che può; per larghi tratti è ripercorribile, riadattabile e qualche volta è possibile fare dei progetti e portarli pure a compimento. Accade per il motivo che i pezzi del puzzle esistenziale sono in fin dei conti limitati temporalmente; rappre­sentano un numero chiuso, magari da indovinare, ma piú o meno collocabile tra lo zero ed il cento.

 

Puzzle tessera

 

Nel Puzzle della Vita abbiamo a che fare con un pulviscolo di particelle che è altrettanto spro­positato quanto lo sono le stelle del firmamento; se uno ci riflette soltanto un po’, gli passa ogni voglia di giocare.

 

Già! Perché a questo punto cosa dovrebbe dirsi l’avventuroso player, prendendo in mano la prima tessera che gli capita tra miliardi di altre? Consapevole che per ogni esistenza tra­scorsa, il quadro generale del disegno prima­rio non gli apparirà mai per intero. Solo scor­ci, solo isolotti, quadretti, legati dall’insigni­ficanza e dal dubbio d’aver sbagliato la scelta, il combaciamento, l’incastro.

 

John William Waterhouse «La tela di Penelope»

John William Waterhouse «La tela di Penelope»

 

Una soluzione ci sarebbe; non è facile da realizzare, tuttavia rientra nelle nostre possibilità, tant’è vero che in alcuni casi, sparsi nelle epoche, si è verificata e ha fatto notizia. Bisognerà richiamarci a Penelope, che non solo fu la sposa di Ulisse, ma era anche una donna, una madre, una regina ed una valente tessitrice. Nella nota vicenda dei Proci, si sa che durante la notte, Penelope di­sfaceva l’ordito che aveva intessuto di giorno; ora, la domanda che nessuno si pone (perché priva di senso, fin qui) è questa: come faceva Penelope, all’indomani, a ricostruire la trama che aveva cancellato nottetempo?

 

Semplice: ricordandola. Cosa vuol dire ri­cordare? Vuol dire avere la coscienza di quel che si è fatto in precedenza. Dunque se – qui cambio registro e dal mito mi trasporto nel cam­po dello Spirito – con una tale coscienza, allar­gata ed esercitata, si riesce a passare attraverso la soglia della Morte fisica, allora non ci sarà alcun problema per un bravo giocatore di rom­picapo; potrà “ricordare” il lavoro di composizione svolto nella vita trascorsa, e dalla successiva incarnazione, ricominciare il Grande Gioco partendo proprio da quel punto.

 

Il problema non sta nell’enormità del puzzle, sta nelle lacune della coscienza pensante dell’uo­mo, che ora si crede scientificamente completa, e dètta un assioma dopo l’altro; ora (caso raro, ma c’è stato) in vena di candida astrazione, confessa apertamente di sapere una sola cosa: di non sapere cioè niente.

 

Sembra che ci sia un ostacolo, una barriera, o un confine che tenga perennemente separate le categorie dell’“immensamente grande” da quella dell’“immensamente piccolo”; il rompicapo della Vita Cosmico-Universale da quello di una singola esistenza terrena; la Scienza umana che sta per­dendo i connotati dell’umano, da una volgarizzazione del Sapere, formata da quanti ritengono che l’unico senso da attribuire all’esser vivi, consista nel combinare il pranzo con la cena.

 

A nessuno fa piacere sentirsi dire quel che deve fare; lo capisco. Tanto piú se glielo vai a dire a muso duro, a gambe larghe e i pugni piantati sui fianchi; ma queste macchiette non fanno piú paura. Fa piuttosto paura il fatto che oggi sono molti a provare un risentimento analogo, anche soltanto nel sentirsi consigliare su quel che sarebbe stato meglio fare, per se stessi e per gli altri.

 

Apparecchiato per il virus

 

In genere però questo capita quando è ormai troppo tardi; il ram­mendo quindi – se ci sarà – andrà fatto a posteriori. Il Puzzle della Vita richiede piú riprese, anche se i giocatori ignorano non solo di esserlo stati, ma di esserlo tuttora, e piú che mai, al presente.

 

La butto lí come una provocazione, un po’ scherzosa e un po’ insinuante, ma sostenuta dal fin di bene, che non è mai da buttare: non sarà che il tanto temuto “Corona Virus Disease”, con le sue modulazioni e varianti, sia stato attratto su questo nostro pianeta dal terreno – giudicato favorevolissimo dal morbo stesso – che l’at­tuale situazione interiore dei suoi abitanti gli ha offerto su un piatto, non dico d’argento, ma sicuramente di fine porcellana Rosenthal?

 

 

Angelo Lombroni