In questo articolo, scritto nel 2017, quando ancora studiava in Cina, la testimonianza di Yuika Aurora Uchiyama, della sua appartenenza “per metà” al Giappone e “per metà” all’Italia, e del suo percorso per acquisire, invece di due metà, quella che lei definisce una “doppia interezza”.
Dopo la laurea in Italia in Lingue e civiltà orientali, ha conseguito in Cina la laurea in Antropologia. Ora Yuika vive in Giappone, a Osaka, dove nel 2020 ha fondato “Bridge Project”. Attraverso metodi di educazione non formale, tratta temi quali inclusione sociale, diritti umani e accettazione della diversità.
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Divisa, doppia, mezza qui e mezza lí. In una società convinta che gli esseri umani nascano con delle radici invece che con dei piedi, a una bambina viene richiesto fin da piccola di identificarsi in un dato luogo, una data lingua o una data cultura, di mettere radici nel suolo. Ma io, di fatto, non mi trovavo in nessun luogo percepibile ad altri, ero sospesa tra due universi, confusa dalla dissonanza tra il mio doppio registro culturale e l’aspettativa sociale che tentava di inquadrarmi in una cornice definita e monolitica.
L’identità è una questione complessa, è una dialettica lunga una vita tra noi, gli altri e la società. Come Fredrik Barth ci insegna, l’identità è un atto in divenire, non conosce stabilità. Bisogna però riconoscere che non in molti si pongono la questione di quale sia l’essenza dell’identità, e venti anni fa, quando io ero piccola, quando le persone non avevano una realtà ampliata da internet, i biglietti aerei erano ancora troppo costosi, non esisteva il volo diretto per Tokyo e la globalizzazione era un argomento trattato solo in ambienti accademici, pochi avevano la sensibilità per interrogarsi sulla natura delle identità complesse, sulle implicazioni del vivere a cavallo tra piú culture e nazioni.
Io, bambina-donna italo-giapponese, ho frequentato a Roma asilo ed elementari giapponesi, per poi proseguire con medie, superiori e università italiane. La mia è stata una vita divisa a metà, tanto diacronicamente quanto sincronicamente. La mia divisione diacronica è stata segnata dal trasferimento dalla scuola giapponese alla scuola italiana; quella sincronica marcata dall’immagine che il mondo aveva di me, per tutti ero sempre solo metà: metà italiana e metà giapponese.
Half (Hãfu) è la parola giapponese per indicare i bambini nati da matrimoni misti, i Metà. I Metà non sono puri giapponesi, sono esseri rari, da studiare, a volte anche da invidiare o da tenere sotto stretta sorveglianza. O almeno, quando ero piccola e i Metà erano ancora pochi, sembrava che noi Metà mettessimo a disagio gli inesperti reduci della modernità ormai terminata, smarriti nel nuovo e nascente marasma globale della postmodernità.
Ma la verità è che essere Metà per me era una condanna: lo sguardo altrui mi riempiva di senso di incompletezza, come se mi fosse mancata una Metà per non essere piú Metà. Durante il corso delle elementari adoravo il mio mondo giapponese, coltivavamo l’orto, curavamo gli animali, recitavamo, facevamo volontariato, ogni iniziativa veniva incoraggiata. La mia passione era folle al punto che se avevo la febbre, lo nascondevo a mia madre pur di non perdere una giornata di scuola. Mi sentivo giapponese, percepivo piena assonanza con quel piccolo universo.
Ma come è spesso capitato nella mia vita, la mia percezione interiore si scontrava contro uno specchio distorto, l’immagine che gli altri avevano di me. In quella scuola elementare, io ero la prima bambina italo-giapponese, tutti gli altri alunni erano bambini “puramente” giapponesi, trasferitisi in Italia per brevi periodi. Le mamme giapponesi creavano un circolo chiuso, poche erano aperte all’estraneo. Quindi tra loro e me, figlia di una madre italiana, si ergeva un muro. Ho deciso, allora, di percorrere un percorso verso l’oscuramento della mia Metà italica, la stessa che vedevo rifiutata dal mondo esterno, e cercavo di stirare, allungare, diluire la Metà nipponica per farne un’interezza. Ma era inutile: per gli altri rimanevo sempre e solo Metà.
Invece per la società italiana, fino a pochi anni fu, ero cinese. Sembrava che nessun italiano credesse che i giapponesi esistessero veramente fuori dai manga. Camminando per strada mi sentivo chiamare “ehi, cinesina”, alle medie i bulli di turno si dilettavano nel chiamarmi “cinese”. Lí ha avuto inizio il mio rapporto conflittuale con la Cina, diviso tra sete di conoscenza e allergia, o forse sarebbe meglio dire un fastidio, come un prurito sulla schiena. Ma solo dopo avrei capito che non ero infastidita né dai cinesi né dalla Cina, affatto. Ciò che mi pungeva, invece, era l’usurpazione della mia identità attuata da alcuni italiani, causata dallo stereotipo che tutti gli asiatici con un volto affine ai parametri fisiologici dell’Asia Orientale fossero cinesi. Ma le dinamiche emotive inconsce, come quelle identitarie, non sono lineari, e questo prurito che non abbandonava il mio animo si rivolgeva a chi subiva egli stesso stereotipi e marginalizzazioni. La nostra mente sociale, se non portata a coscienza, tende sempre a scagliarsi contro il piú debole, e un adolescente difficilmente ha la forza e la personalità per lottare contro gli stereotipi sociali. La nostra pigra mente ci spinge sempre a cedere alle semplificazioni. Per fortuna noi esseri umani siamo dotati di coscienza, che, come è accaduto nella mia vita, al suo fiorire porta un’ondata di consapevolezza e una ritrovata determinazione a combattere stereotipi interni ed esterni a noi.
Intanto, nel corso degli anni, qualcosa è cambiato. Internet, la televisione e la globalizzazione almeno questo servizio all’umanità lo devono aver fatto: ora le persone mi chiedono che origini asiatiche io abbia e spesso addirittura indovinano l’origine nipponica del mio nome. I miracoli avvengono, basta crederci.
Ma sapete qual è la nuova? Che li ho fregati di nuovo, proprio ora che la maggioranza inizia a percepire “normali” i cosiddetti ragazzi “misti”. Io muto con moto perpetuo, non amo i luoghi comuni e la staticità, amo la meravigliosa duttilità dell’essere umano. Ora, infatti, sono una italo-giapponese che vive e studia in Cina, e naturalmente la domanda che sorge spontanea a tutti è: perché una italo-giapponese è finita in Cina e non in Giappone? E la meravigliosa apoteosi della favola è che qui, in Cina, mi scambiano per cinese. Ma la novità piú preziosa è questa: non mi sento piú Metà e non ho piú bisogno di diluire la mia identità per sentirmi completa, Oggi io mi sento doppia: non una doppia Metà, ma una doppia interezza, costituita da entrambe le mie culture d’origine, con una spolverata delle esperienze multietniche incontrate lungo il cammino. Questa ardua conquista l’ho ottenuta studiando e viaggiando, sia nel mondo sia dentro me stessa. Ho sempre speso tutti i miei guadagni e risparmi in biglietti aerei e libri, ritrovandomi con un conto in banca semivuoto ma con una rinata ricchezza interiore, un computer pieno di foto e una casa a Xiamen di 35 metri quadri dove i libri occupano la maggior parte dello spazio.
Ho visto la Tunisia, la Grecia, Parigi, Berlino, Londra, Istanbul, mi sono fermata per qualche mese a New York, torno periodicamente in Giappone, ma l’esperienza piú forte, in ogni senso, è stata la Cina. Vivo in Cina da quasi due anni, qui ho sperimentato in poco tempo il crollare degli stereotipi riguardo agli altri ma soprattutto riguardo a me stessa, mi sono liberata dalla rigida scocca di protezione che mi ero costruita intorno alla mia duttile identità interiore, ho ritrovato la naturalezza.
Viaggiare ci pone faccia a faccia con la relatività culturale, da cui gli occhi attenti riescono a cogliere l’insensatezza dei dogmi, delle tensioni interiori nate dalle pressioni sociali, dell’insoddisfazione causata da influenze familiari. Solo l’emancipazione da queste catene interiori può aprirci la strada alla comprensione di noi stessi, di ciò che vogliamo essere. Anche se io ho fatto solo il primo passo lungo la via della naturalezza, so che la mia volontà, la mia identità e null’altro continueranno a illuminarmi il sentiero.
Sono grata anche all’antropologia per le opportunità e gli spunti che mi dona ogni giorno. La semplicità dei sorrisi perlati dei bambini Yi nei villaggi dello Yunnan cinese, felici del poco che possiedono, del poco tempo che possono trascorrere con i genitori, della natura che li circonda; la volontà, la positività e la forza interiore dei migranti con cui sono stata a contatto a Roma, tutto ciò mi ha nutrito l’anima. Il semplice contatto con loro mi ha mostrato come le differenze culturali possano essere valorizzate e come le identità possano essere rispettate nella loro interezza.
Proprio come scrisse il poeta Thomas Stearns Eliot: «We shall not cease from exploration / and the end of all our exploring / will be to arrive where we started / and know the place for the fírst time».
Vivere all’estero, viaggiare, studiare antropologia, fare ricerca sul campo, tutto ciò mi ha portata lontana per farmi scoprire ciò che possedevo, sin dalla nascita, nel mio intimo: la ricchezza di una identità multietnica. Ho scoperto che io posso essere un mosaico composto da elementi provenienti dalle mie culture e dalle mie lingue, un ponte di comunicazione tra universi, un viaggio intercontinentale istantaneo e gratuito.
Adesso, in un’epoca di globalizzazione e in una situazione di urgente necessità di accoglienza dei migranti giunti in Europa, la mia speranza è di poter assistere a un’apertura sociale alla diversità, a una sincera comunicazione corale, a un’integrazione senza distinzione, e di continuare a smuovere i pensieri stagnanti delle stesse persone che anni fa avrebbero trovato strano che una ragazza nata in Italia, con accento romano, si sentisse giapponese.
Yuika Aurora Uchiyama
Tratto da: Lingua Madre – Duemiladiciassette, Edizioni SEB 27, Torino 2017