Dunque, se non vado errato, la formula che allo stato attuale caratterizza nel modo migliore il concetto di “energia”, è quella che Albert Einstein volle scrivere cosí: E = mc2.
Per l’attuale ricerca scientifica, essa costituisce un principio inderogabile, un fondamento per ogni implicazione successiva. Tale principio viene riconosciuto universalmente ed è considerato inattaccabile sotto qualsiasi punto di vista.
Di recente ho avuto però dei pensieri che mi hanno prospettato delle ipotesi diverse se non addirittura contrastanti. Al che mi son detto: “O sono diventato matto, oppure il mondo da quasi un secolo è impazzito accogliendo come oro colato un qualche cosa che non esiste, proprio non esiste. Neppure sotto l’aspetto prettamente scientifico”.
Ma andiamoci cauti, non sarebbe il primo abbaglio che prendo, e l’idea di mettermi in conflitto scientifico con un personaggio del calibro di Einstein, mi crea una certa apprensione. Mi sento come Davide davanti a Golia e senza la fionda.
Eppure desidero provarci; tutt’al piú sarà un’ennesima figuraccia, ma la scienza e la verità ogni tanto si meritano il sacrificio di qualche sprovveduto a caccia di gratifiche.
L’enunciato di Einstein si regge perfettamente bene: è sobrio, limpido, anche elegante nella sua concisione; lega tre elementi (energia, massa e velocità della luce) mettendoli in una relazione indiscutibilmente precisa.
Se vedo scritto 6 = 3 x 2 io non ho dubbi; colgo in pieno il senso dell’equivalenza. Ma qui, in questo celebre E = mc2, al di là della sua agile estetica, non mi riesce di ricavare un bel niente.
Dicono: «Questo è perché ti mancano le basi; con i numeri primi te la cavi bene, ma quando sei di fronte ai concetti piú alti della scienza, beh, allora… casca l’asino».
Benissimo, sono d’accordo. Ma dopo essere caduto, l’asino si rialza, pensa e desidera fare delle precisazioni: da molto tempo (diciamo 7, 8 anni) mi sto documentando presso amici, conoscenti, esperti in materia, sul significato dei termini con i quali Einstein ha costruito la sua formula, e devo dire che i risultati sono stati poco lusinghieri se non deludenti.
Il docente piú aperto e incisivo ha affermato che allo stato attuale della nostra scienza non siamo in grado di definire cosa sia veramente l’energia.
Per quel che riguarda la massa, mi è stato spiegato che ce ne sono di molti tipi; a seconda di quel che si vuol applicare nel ragionamento, la massa viene considerata come una proprietà della materia; oppure come un effetto della forza gravitazionale; o potrebbe essere una semplice manifestazione volumetrica di sostanza; ci sono poi le masse inerziali e quelle newtoniane, che tuttavia sono cadute in disuso ma in alcuni casi vengono ancora adoperate nella ricerca.
E per finire, nella formula appare anche la velocità della luce, magari al quadrato, ma sempre velocità della luce resta; questa, a quanto pare, sembrerebbe disposta a lasciarsi capire meglio delle altre; partendo da una qualsiasi sorgente, la luce deve impiegare un po’ di tempo per arrivare ad una destinazione. Questo tempo non solo è misurabile, secondo il fisico di Ulm, ma – ove si consideri la luce viaggiante nel vuoto – raggiunge la velocità massima conoscibile per l’esperienza umana: 300.000 km al secondo.
Un concetto davvero grandioso: peccato che da piú parti, docenti, analisti e personalità del mestiere, mi hanno garantito che quello che noi crediamo essere lo spazio dell’universo, il cosí detto “vuoto”, non lo è. Udite, udite: il “vuoto assoluto” è assolutamente inesistente; da per tutto ci sono gas, pulviscolo cosmico e quant’altro, che non permettono al vuoto di essere fedele al suo nome.
Allora, dopo questa tiratura, tutti i miei dubbi sulla relazione perfetta tra energia, massa e velocità della luce, sia pur elevata a potenza, forse non nascono soltanto dalla mia ignoranza, ma anche dal vago sospetto che, per lo meno in determinati casi, alcune verità scientifiche mi vengano propinate come fossi uno dei prigionieri della Caverna di Platone.
Però, data la situazione curiosa, paradossale e tutto sommato anche buffa, ho deciso di rivelare queste mie perplessità descrivendone lo sviluppo e gli effetti.
Devo tuttavia cominciare da alcune premesse che ritengo indispensabili per creare una tessitura logica al racconto.
[Sarà utile tenere fin d’ora presente un altro principio caro alle scienze esatte: si tratta qui di una semplice regola matematica, in base alla quale, senza deroga alcuna, è stabilito che ogni moltiplicazione, dato zero uno dei fattori, si azzera anch’essa].
Premessa n. 1
Nel rivedere l’ ultimo articolo scritto per l’Archetipo, ho colto una mia imprecisione cui cerco ora brevemente di porre riparo. Si tratta della posizione (se cosí si può dire) che il Cristo Gesú assume di fronte alla nostra capacità di scelta, quindi di prendere le decisioni, che prima o dopo faremo diventare azioni. Ho sostenuto che in tali casi, l’uomo è in grado di prendere la decisione che maggiormente gli piace o lo attrae; dipenderà dal suo temperamento, dalla sua educazione, dalla formazione culturale, mista ad elementi psichici, quali sentimenti, passioni, simpatie e antipatie.
Ho pure affermato che per Lui, il Salvatore, sarà indifferente la via umana intrapresa dal soggetto in esame; comporti un bene oppure un male, in entrambi i casi, il Cristo resterà sempre accanto a colui che dovrà sopportare, nello svolgersi del karma, le conseguenze dell’azione compiuta.
La differenza da rilevare è tutta qui: nell’azione cosciente e ben ponderata fra quelle possibili, l’uomo ha l’occasione di sentire il Cristo in sé (interiorizzato); può rivolgersi a Lui, non certo per un consiglio o per ottenere un favore personale, ma per attivare nelle forze dell’umano, messo alle strette, quel quid d’intensità spirituale che lo aiuti a reggere il confronto col momento difficile.
Nella diretta Tv sulla Via Crucis del Venerdí Santo è stato detto: «Dio non chiama chi è capace, ma rende capace chi chiama». Secondo me la frase non è esplicita quanto avrei voluto, ma ad un primo impatto è sonora e avvincente. Rimane nell’ombra il soggetto di quel “chi chiama chi” finale.
Quelli capaci di tanto, portano il Cristo in sé; quelli che non vogliono, ignoreranno un simile apporto; dovranno cavarsela da soli; o meglio, si auto-condanneranno a sconoscere il conforto e quel misterioso rinvigorimento dell’anima e del corpo, che il Rappresentante dell’Umanità dispensa a qualsiasi uomo (ateo, credente, materialista, osservante o pagano) in grado di evocarLo con limpida lealtà e con un interesse particolarmente spersonalizzato (o meno egoico possibile, che non è proprio la medesima cosa, ma ci si avvicina abbastanza). Almeno questo è, per ora, il mio punto di vista.
Ciò non toglie, tuttavia, che resta un ulteriore problema da chiarire, e non è da poco. Infatti dal momento che, grazie al Cristo Gesú, possiamo ottenere un aumento di quelle facoltà psicofisiche che sono virtualmente comuni a tutti i mortali, ma che non possiamo (e non vogliamo) adoperare finalizzandole ai nostri scopi personali, a quale parte di noi dobbiamo allora appellarci per compiere una scelta sperabilmente favorevole?
La nostra conoscenza è limitata, la nostra moralità pure; e il problema esistenziale quando si presenta nella sua forma piú incisiva, ci appare sempre come invalicabile, molto spesso urgente. Che fare? Ci affidiamo alla sorte e buttiamo la monetina?
No, esiste un modo, del tutto umano, che in sostanza attinge sia alle forze che riconosciamo come nostre, sia a quelle che ancora non conosciamo, ma, nel profondo del cuore, intuiamo potrebbero diventare nostre. È sperimentabile come una specie di “via di mezzo”, ma non lo è. È invece un punto di ottimo, la cui individuazione diviene problematica solo nella misura in cui si cerchi il risultato pieno secondo le logiche dell’egoismo.
Il punto di ottimo, cosí come lo vedo io, è il massimo risultato relativo di quel che sono e di quel che – volendo – potrei diventare. È in equilibrio, è in armonia con tutto il mio universo interiore; sento di potermi fidare in modo naturale di questa particolarità intermediata da forze che mi appartengono e da altre che mi attraversano, ma con le quali incomincio ad avere un rapporto.
Quando nella sua Filosofia il Dottor Steiner ci parla della libertà, e in particolare dell’azione umana libera, Egli rimarca con grande cura il fatto che non esiste una moralità a priori, sulla quale conformare le nostre decisioni, ma le nostre decisioni possono (grazie ad un pensare volente ed esercitato) attingere al mondo delle Idee Morali, e trarre a sé quegli impulsi che potranno illuminare la situazione contingente.
Il Divino non risponde all’Anima dell’Uomo solo perché immersa in uno stato di necessità; ma l’Anima che ha scoperto il Divino oltre lo stato delle necessità, sa che la risposta c’è sempre. E quando appare, essa appartiene allo Spirito umano quanto a quello cosmico.
Premessa n. 2
Porto un esempio tratto dalla mia vita personale; ne avrei alcuni anche maggiormente significativi e vagamente drammatici che forse incornicerebbero meglio il problema, ma ho preferito scegliere questo, tutto sommato, di piccolo taglio, perché a volte voler fare chiarezza con una cosa di poco conto, è ancora piú difficile che non risolvere un problemone pesante che lega mani e piedi, e non concede spazi all’impiego del buon senso.
Piú di una volta alcuni amici mi hanno fatto osservare, con gentile e gradita insistenza, che potrei scrivere un libro. In fondo – dicono – basterebbe raccogliere quelli che credi essere i migliori articoli che hai scritto per l’Archetipo in tutti questi anni, e – oplà! – il libro sarebbe già un fatto compiuto.
Non dico di no; ci ho pensato e sono stato tentato. Ma il pensiero mi ha anche fatto capire una cosa, che ora arriva a proposito per l’argomento introdotto poc’anzi: il punto di ottimo.
Ho scritto e scrivo sui temi che suscitano di volta in volta il mio interesse; quasi sempre si tratta di temi della vita, del mondo, dell’attualità, attorno ai quali mi è difficile, lí per lí, fare un pronunciamento, una valutazione, o come vuole la frase fatta, “dire la mia”. Intendiamoci, ogni essere umano è portato a dire la sua e talvolta è perfino arduo fermarlo, specie quando il dire è lontano dal fare e si possono sostenere cosí delle tesi pazzesche, mantenendo una specie di aplomb moralistico, molto caro ai convenzionalismi del tempo.
Io scrivo perché ignoro; scrivendo devo pensare, e pensando, l’ignoranza mi sembra diminuire; fino al punto in cui mi trovo preparato a sostenere una discussione, certamente non da esperto, ma confezionata in modo sufficiente per venir ascolta senza interruzioni per qualche minuto (il che oggi è tutto dire). Ho creato (o si è creato) in me quello che in termini tecnici viene chiamato “modello standard”, ovvero un abbozzo concettuale. Il che comporta per me un’esperienza positiva e gratificante.
Con ciò non intendo sostenere di non voler cambiare o modificare l’idea del modello; se avrò in seguito dei pensieri migliorativi, o se qualcuno gentilmente me li fornirà, sono pronto ad aggiustare e a variare il mio castelletto ideale (la dicitura modello standard mi sta un pochino sullo stomaco). Ma di solito, ho visto che, almeno nelle sue fondamenta, la mia costruzione regge bene e accetta tranquillamente tutto quello che vi si può apporre di rimedio, di stabilità e – perché no? – pure d’abbellimento.
Ho potuto cosí formare un pensiero chiaro e limpido sulla questione del libro: il fatto è semplice: io, il libro, l’ho già scritto. Un articolo al mese, di circa sette pagine, formato A4, per diciassette anni, mi dà un totale di 1.428 pagine. Sarebbe un librone. Basterebbe stamparle, raccoglierle in fascicoli e rilegarle. Ma a quale scopo? Per me è stato dilettevole ed istruttivo pensare e scrivere quelle pagine e l’ho fatto. Lo facevo per me, per tentare di colmare le mie lacune, sapendo tuttavia che qualcuno avrebbe potuto leggermi e questo dava al mio impegno una connotazione del tutto particolare.
Sono convinto che ci sono ancora altre finalità da tenere in debito conto; con un libro si aumenta la notorietà, si accede ad un pubblico piú vasto, e possono derivarne anche dei benefici.
Disgraziatamente, per mia natura tendo a trastullarmi con un convincimento che ribalta completamente una prospettiva del genere; l’esperienza avuta, e che continuo ad avere, non manca mai di farmi intendere che la capacità di scrivere, cosí come ora la trovo in me, è talmente delicata e precaria, che basterebbe una motivazione in aggiunta a quelle che le sono state congeniali e che hanno fin qui puntellato il suo formarsi (oppure viceversa l’eliminazione di un elemento portante da quest’ultimo) per farla cessare di colpo. Ci sarebbe un “flop” e la piccola magia di una condizione acquisita in pace, libera da obiettivi prefissi, svanirebbe nel nulla come la carrozza di Cenerentola, che ritorna zucca allo scadere della mezzanotte.
Perciò ritengo d’importanza estrema tenere sempre d’occhio quel famoso “punto di ottimo”: saper fin dall’inizio che se si presenta la sua parabola, essa avrà un apogeo ma poi, inevitabilmente dovrà ricadere. Bisogna quindi cercare in tutti i modi (fintanto che l’ascesa c’è) di non appesantirla con supposizioni lusinghiere o seduzioni immaginative, perché sono trappole messe lí da ben noti Bracconieri (li chiamano anche Ostacolatori) in cui è abbastanza facile cadere.
Un bravo cuoco sa sempre qual è il punto giusto di cottura per ogni cibo; sa come levarlo dal fuoco nel momento esatto; e cosa ha fatto per imparare? Ha dovuto pensare, agire, sbagliare e poi ripensare e agire di nuovo. Non mi ritengo un cuoco provetto, ma a casa mia sono riuscito a ridurre al minimo le probabilità di mangiare un cibo semicrudo o bruciato.
Certo, pare semplice; ma se andiamo a riguardare le vicende umane di questi ultimi tempi, ci si può accorgere di quanto siano invece tristemente sprovveduti gli attuali chef del proscenio mondiale, che ci propinano ogni giorno le pietanze sociali, politiche ed economiche di un banchetto epocale alquanto indigeribile.
Ma del resto, quando le responsabilità si ripercuotono in scala lungo tutta la filiera gerarchica, dalla base fino al sommo vertice, il fatto d’essere arrivati al punto di mettersi in fila alla mensa dei poveri per un piatto di pasta, non è di certo il momento ideale per atteggiarsi a gourmet.
Tutto questo per dire che quel punto di ottimo è diventato meno rintracciabile del classico ago nel pagliaio; infatti la sua scoperta richiede tempo, pazienza, e un po’ di perseveranza, con l’aggiunta di un granello di riservatezza; ingredienti questi, piuttosto impensabili per soggetti contemporanei in vena d’esibirsi a microfoni e telecamere, come altrettanto estranei per appassionati di karaoke e di socialnet.
Premessa n. 3
Cos’è, cosa s’intende per “ansia di luce”? La sindrome di chi si è infilato in un tunnel e non trova l’uscita? No, cosí sarebbe soltanto descrittivo. Allora riprendo il termine in quest’altra versione: “ansia di Luce”, dichiarando subito di averlo preso in prestito da un’invocazione usata da Massimo Scaligero in apertura di una Sua opera: «Quiete lontana di Costellazioni / e ansia di Luce sulla Terra / accendono il ritmo dell’Anima / incontro alla Tua Donazione senza fine».
È molto interessante soffermarsi meditativamente su questa “ansia di Luce”: lasciare questo pensiero libero di fluttuare, di creare connessioni, di lavorare dentro di noi, concedendogli tutto lo spazio e il tempo che si merita. Perché risveglia, rinfresca, ci fa uscire (mi ha fatto uscire) da un lungo sonno, in cui spesso ho sognato di me stesso sognante.
Alla fine, si capisce (ho capito) di essere una realtà in formazione in mezzo ad una miriade di altre realtà, tutte in divenire, seppure con gradazioni diverse, che fluttuando s’intrecciano in voli vorticosi, allacciandosi e respingendosi, in una sorta di danza cosmico-rituale, con l’unico scopo di propagare la vita dello Spirito, soprattutto là dove essa si estingue per un continuo eterno rinnovo, attraverso la pluralità delle forme, delle grandezze e delle complessità differenziate.
È uno scherzo della fantasia? Non credo; sappiamo dei movimenti di stelle, pianeti, galassie e nebulose; sappiamo dei moti delle particelle subatomiche con tutte le loro evoluzioni; non vedo perché le leggi del creato dovrebbero presentare un panorama diverso per lo sviluppo del mondo umano-terrestre. Che dopo, uno le veda come un folle brulichío vorticoso e privo di senso o un balletto classico di ordine, compostezza e grazia superiori, sono fatti suoi; ma non sono smentibili.
Quando, dopo una siffatta visione contemplativa, ci si ridesta e si ritorna di botto nella solita corporeità quotidiana, ecco, allora, l’“ ansia di Luce”: è l’oggetto di un percepire che riveste di sé ogni altro, consueto o inconsueto che sia.
Perché effettivamente questo mondo, o per dire meglio, questo nostro aggregato di realismi imperfetti, entro il quale si compiono le umane esistenze (almeno cosí come salta fuori attraverso la rassegna di avvenimenti e notizie) che aggredisce le coscienze appena svegliatesi all’odore del caffè, ci imbriglia al punto da indurci a credere che Libertà, Conoscenza e Amore siano soltanto delle belle parole, care agli utopisti e utili ai predicatori.
Credo di aver illustrato con sufficiente efficacia, l’“ansia di Luce”. Come mi ha insegnato un caro amico, recentemente scomparso, non si soffre per quel che c’è, si soffre per quel che manca: e all’uomo manca la Luce: la Luce dello Spirito.
Intendiamoci c’è quella esteriore, quella fisica, c’è il nostro buon vecchio Sole, e guai a noi se venisse a mancare. Ma l’illuminazione dal di fuori, l’illuminazione gratuita, non risolve il problema umano (figuriamoci poi le varie illuminazioni a pagamento).
Manca la Luce interiore, manca l’Io, manca il Cristo Gesú. Ed allora si brancola nelle Tenebre, senza nemmeno sapere di essere immersi nel manto di una oscurità, che per quanto strano, infittisce ogni giorno di piú.
Cosa può essere la nostra libertà se nessuna luce interiore ci pone in evidenza l’Idea a cui si collega per manifestarsi come intuizione? Si riduce ad un mero permessivismo, ad un manuale di comportamento, ad un moralismo cui nessuno piú tiene né segue.
Cosa può essere la nostra conoscenza se non viene sorretta dalla luce del Logos? Avviene quel che di fatto avviene: un sapere, un nozionismo anonimo che vuol spiegare tutto senza spiegare niente, e che finge d’essere vero anche a costo di indossare mascherine e altri paludamenti.
Che cosa accade al nostro sentimento d’amore se non siamo nemmeno in grado di amare noi stessi? Se la nostra vita non è mai pari a quella degli altri? Se cerchiamo di sfruttare ancora il mondo in cui viviamo, distruggendone l’equilibrio in nome di un fabbisogno inventato, e accolto nell’immaginario collettivo, quale imprescindibile necessità?
Siamo nelle tenebre; viviamo nelle tenebre; mangiamo, dormiamo, ci accoppiamo (e ci ac-copiamo) nelle tenebre; i nostri corpi nascono e muoiono nelle tenebre. Nelle tenebre foggiamo le nostre esperienze, studiamo, impariamo; ma le nostre scienze restano scienze delle tenebre. Misuriamo i tempi, i pesi, le distanze delle tenebre; e quando riusciamo a diradarle soltanto di poco, quanto basta a far trapelare un barlume di luce, crediamo d’aver strappato all’universo chissà quale suo gigantesco segreto.
Non ci accorgiamo che stiamo solo misurando le dimensioni, il peso e la velocità di quanto siamo ancora lontani dall’essenza delle cose; Libertà – Conoscenza – Amore, esistono da sempre grazie ad esse la vita continua e la nostra storia viene intessuta nell’evoluzione universale delle anime.
Non misuriamo il tempo, non sappiamo neppure cosa sia. Sappiamo misurare la non eternità, non misuriamo lo spazio, non ne abbiamo neppure la percezione, se non quella della distanza, che è la percezione di due estremità non coincidenti. E neppure misuriamo la velocità della luce, prima di tutto perché la luce percepita fisicamente non è la Luce ma il suo riflettersi spazio-temporale, e in secondo luogo, per il fatto che la Luce, quella in maiuscolo, non necessita di una sua velocità, perché è già da per tutto; splende sempre e comunque.
Al pari delle Idee di Libertà, Conoscenza e Amore, pure la Luce viene incontrata, conosciuta e studiata dalle coscienze umane, nella condizione però di esserne prive, ossia nella condizione della non libertà, della non conoscenza e del non amore; che – se vogliamo essere un tantino severi ma rigorosi – dovremmo sforzarci di descrivere quali status di sottomissione, di ignoranza e di odio.
Conclusione
L’ho già detto, ma è giusto ripeterlo: non possiedo le competenze e l’esperienza scientifica, per pronunciare dei giudizi sulla formula di Einstein. Posso però svolgere, da osservatore indipendente, le mie considerazioni sul come essa sia entrata nella cultura ufficiale e quale ruolo, da allora in poi, abbia assunto nello sviluppo delle coscienze umane.
Dall’Antroposofia di Rudolf Steiner si apprende che qualsiasi strada conoscitiva venga intrapresa, essa è ripartita in quattro grandi linee, o momenti conoscitivi generali: vi è anzitutto la conoscenza materiale, poi quella immaginativa, poi ancora quella ispirativa, ed infine la conoscenza intuitiva, che rappresenta il coronamento del percorso.
Le riflessioni svolte per la presente dissertazione mi hanno condotto ad una certa conclusione; per quanto difficile sia, voglio trovare le parole ed il tono giusto per illustrarla.
Ciò che Albert Einstein ha consegnato all’umanità, quale scoperta scientifica di eccellenza, riuscendo a scolpire i concetti di “energia-massa-velocità della luce” in una lapidaria formula, non proviene, per quel che ho potuto capire, dal grado della conoscenza intuitiva, e neppure da quello ispirativo; si sono arrestati invece a metà strada tra la conoscenza di ordine materiale e quella immaginativa (forse è questo il motivo per cui mi è riuscito di analizzarli).
Benché fortemente valida entro i termini del mondo spazio-temporale, è assolutamente inadeguata per le leggi del mondo extrasensibile, ovvero per il Mondo dello Spirito, dove la Luce regna da sempre, e non avrebbe senso alcuno riferirla ad un supposto moto di velocità.
Tutto questo Albert Einstein non era obbligato a sapere; ma sarebbe stato in grado di capire (almeno cosí mi dice il pensiero) che nel dare al mondo la sua celebre formula, avrebbe ancorato lo scibile umano, non ad una verità di fondo, come la formula pretenderebbe e come è stata fin qui interpretata, ma ad una manchevolezza intrinseca, che, nel caso in questione, sia per le conseguenze dirette, sia per le ripercussioni additive, si è gonfiata al punto da divenire un autentico paradosso.
Scienza, cultura e sapere hanno applaudito, accolto e digerito il teorema, credendo cosí di aver valicato un limite enorme; ma un tale convincimento, conclamato all’unanimità dagli esperti e ancor piú dagli inesperti, ha invece inferto un danno enorme all’intera collettività umana.
L’uomo necessita infatti di stimoli conoscitivi, non di formule su cui adagiare l’inerzia di un apprendimento passivo.
In ciò l’enunciazione di Einstein mi ricorda da vicino quella del filosofo Immanuel Kant: «Il cielo stellato sopra di me e la legge morale in me». Altra bella confezione di concetti, semplice, comprensibile da chiunque e vagamente cattedratica, ma tuttavia contraria a qualunque forma di progresso morale umano, singolo o corale.
In entrambi i casi, si è prodotto un grave impedimento per le generazioni a venire, nel senso che le due affermazioni sono state intese come direttive di massima, sulle quali sarebbe stato assurdo svolgere obiezioni, o sollevare critiche che non fossero d’ordine numerico o moraleggiante.
Nel tempo, hanno acquisito il potere dei Dogmi. E quando ci sono di mezzo i dogmi (indifferentemente se i loro autori ne siano consapevoli o meno), tutta l’umanità subisce una lesione sul piano etico, corrispondente ad una contrazione su quello conoscitivo.
Come non è accettabile parlare di una moralità che non tenga conto della libertà individuale, non è altrettanto accettabile parlare di una supposta velocità della luce, lasciando intravedere che dietro a questa, non vi è altra Luce. Comunemente nel linguaggio ordinario, si dice: «Oggi il sole non c’è». Pur sapendo tutti che il sole c’è e splende da dietro la coltre delle nubi, si ricorre ad una formula abbreviata che dia la sensazione del vero. Ma questo potrà farlo una coscienza ancora immatura, primitiva, una coscienza che si accontenta di poco e concede al potere delle scienze quanto invece spetterebbe alla conduzione interiore di ogni singolo individuo.
Una verità incompleta non è una menzogna, ma talvolta, ingrandita a dismisura e spacciata per la scoperta del secolo, può agire in modo ugualmente disastroso.
Gli appunti di questo argomento, possono sembrare denigratori, o quanto meno riduttivi, me ne rendo conto. Ho però ancora un riferimento di riserva, che può – da solo – agire di rincalzo e rendere giustizia sia all’articolo che alle intenzioni che lo sottendono.
“L’ ansia di Luce” di cui ci parla Scaligero nel mantra sopra citato, non riguarda in alcun modo la luce fisica nelle sue varie applicazioni spazio-temporali. Su questo, affermo di non avere dubbi.
Il che sta a significare che, al di là del fenomeno scientifico studiato da Albert Einstein, c’è un’altra Luce. Ad Essa va la proprietà dell’Essere; mentre quella che si limita ad apparire per esistere, senza la Prima, non sarebbe in alcun modo.
Quando cerco di fare un ragionamento un po’ piú complesso del solito, ci metto del tempo.
Da quanto ho appreso, una vera idea non capita di colpo. Non ci sono molti Archimede che corrono nudi per la strada, gridando «Eureka!». Ogni intuizione ha bisogno di lavorare nell’anima dell’uomo, di modificare il suo intelletto e di sistemarsi per bene nella sua interiorità.
Ora: questo iter temporale impiegato dalla Luce dell’idea per penetrare nel profondo della sostanza umana, se non si sa nulla della Luce dello Spirito, o non La si può vedere perché “la scienza senza la religione è cieca”, allora si deve (ovvero: si è costretti) a misurare questo intervallo come fosse “la velocità con cui la luce dell’idea giunge alla coscienza umana pensante” o, se si preferisce, come “quella della luce fisica che giunge alla nostra visuale attraverso il vuoto cosmico”.
Chi invece ha appena appena fatto esperienza dell’ansia di Luce, e la custodisce con gratitudine, è portato spontaneamente a riconoscere valida e lampante una realtà del tutto diversa: la misurazione del percorso di cui sopra, non è, nel modo piú assoluto, attribuibile alla luce, bensí a quello delle tenebre, entro cui l’ anima nostra è avviluppata, quando devono diradarsi per lasciarla passare.
Ha sbagliato Kant? Ha sbagliato Einstein?
Abbiamo sbagliato tutti: la Luce è, splende perenne in ogni dove. Le Tenebre esistono, ma non possono impedirLe di congiungersi alla coscienza di un libero pensatore che La evochi in sé.
Se vi è un tempo d’impiego, se vi è una velocità da rilevare, non è certo quella della Luce, bensí del lento (o rapido) dissolversi della cortina oscura in cui brancola, come un pulcino nel guscio d’uovo, una conoscenza umana ancora debole, ancora embrionale, ma che si sforza, ed è pronta a cercare la via d’uscita.
Da quasi duemila anni, l’evangelista Giovanni prova a farcelo comprendere: «…E la Luce splende nelle Tenebre, ma le Tenebre non L’accolsero» (Giov. I, 1-5).
Angelo Lombroni