Aprirsi alla Forza

Attività spirituale

Aprirsi alla Forza

 

È semplice concepire l’esistenza come la serie potenziale di opportunità e scelte che, come in vendita, si offrono all’individuo, isolato in se stesso e continuamente potenziato dai suoi impulsi e desideri, tendenti momento per momento a farsi atto in quella quotidianità che chiamiamo realtà.

 

Questa quotidianità di fatto non esiste, non è reale, eppure viene reificata, concretizzata, dal pensiero troppo debole per riconoscere il suo concorso: una quotidianità idealizzata e a volte addirittura misticizzata, come valore a se stesso, o addirittura come meta della vita spirituale, come ad esempio avviene in una certa sensibilità cattolica, dove si offre a Dio il quotidiano.

 

Il Pane quotidiano

Il “pane” quotidiano

 

Un quotidiano che non può essere vissuto, o accolto, perché in realtà non è conosciuto per quello che è. Quindi non può neppure essere offerto, come in una passione delle pazienze perché non si può offrire ciò che non si ha.

 

Il quotidiano sarebbe reale se fosse alimentato, come da un cibo, da una realtà che ha piú sostanza della mera e astratta quotidianità: da un elemento sopra-sostanziale che ogni giorno ci riconnetta al reale. Questo il senso della frase: «ton arton emon ton epiousion dos emin semeron», cioè: «il pane nostro, quello sopra-sostanziale, dà a noi oggi».

 

Ciò che sta sopra governa ciò che sta sotto, ma la maya terrestre consiste nel contrario, che ciò che sta sotto governi illecitamente ciò che sta sopra.

 

Lo Spirito sta sopra, la materia sotto. Lo Spirito si dà, anche se invertito ed esanime, nel pensiero ordinario. L’ordinarietà del pensiero non può guarire l’ordinarietà del quotidiano. Solo un pensiero che si abbeveri alla sua fonte sopra-sostanziale può restituire senso alla vita ordinaria, trasformandola.

 

Armonia cosmica

Armonia cosmica

 

Facile è concepire la vita come serie di fatti che ci accadono. Difficile è concepirla secondo un punto di vista superiore: il destino dell’uomo, la cui presente vita è una nota di una incommensurabile armonia cosmica; ma per farlo occorre un pensiero straordinario.

 

Questa è la sfida, che il quotidiano, con le sue esaltazioni e conquiste, e col suo dolore ed i suoi epifenomeni depressivi, siano soltanto l’appello al quale rispondere. Ignorare l’aspetto esaltante o deprimente, divenire invulnerabili ai sentimenti pendolari, che a quel livello sono sempre involutivi, per aprire l’anima al sentire vero, che è un vibrare in accordo con le potenze che sorreggono il destino, anche il proprio destino individuale. È il linguaggio del karma, che parla attraverso i nostri cari, i quali, come in un gioco, alternano ruoli nei nostri confronti, ora come portatori di gioia, ora come fonti di minaccia. Va capito che questo è solo un linguaggio, vero nella misura in cui si scopre chi parla.

 

Non ha senso trovare scappatoie umane-troppo-umane. Le viuzze della menzogna, del compromesso con se stessi, della strategia relazionale, sono destinate a riconfermare il limite che tentano scavalcare. Il dolore torna, peggiorato. Il pendolo oscilla e l’anima subisce strappi.

 

Si deve avere un grande coraggio per dedicarsi alla risoluzione del proprio karma, che è anche quello altrui. Il mio Io è l’Io degli altri.

 

È una via per pochi, non perché pochi siano i chiamati, ma perché molti sono i chiamati e pochi gli eletti: il Christo lo preannunciò. La via è tutta tracciata, serve solo il coraggio di agire.

 

Come agire? Come uscirne?

 

Finché vorremo agire per uscirne, non ne usciremo: è il capriccio dell’ego. La situazione esteriore vuole richiamare forze piú radicali della volontà, che siano cosí eroiche da superare il limite del proprio tornaconto naturale, non avendo senso immaginare un eroe che vinca solo per se stesso.

 

L’ego vuole sopravvivere per come è, non patisce evoluzione reale, perciò è disposto a fingere una evoluzione simulata, pur di preservare se stesso: inganno veramente ben escogitato.

 

Noi dobbiamo uccidere l’ego, secondo il detto del Buddha: «Se incontri il Buddha, uccidilo!» perché il maestro non è fuori di noi. L’uccisione dell’ego però, in quanto la personalità vi si identifica, è dall’io inferiore sentita come la propria morte. Ecco perché si continua a fare esercizi e a leggere testi dello Spirito, senza che la vita risponda ad un cambiamento reale.

 

Dobbiamo morire, ma questo morire è il sacrificio quotidiano, oltre l’ego. È la vita per essere l’Io che si è senza saperlo e senza volerlo.

 

La porta del Maestro

La porta del Maestro

 

Sulla porta dello studio di un Maestro ho letto questa frase: «All’antico asceta era chiesto di morire per il Logos, al nuovo molto di piú: vivere per esso».

 

Si arriva cosí ad un punto del percorso in cui si avverte con sufficiente chiarezza che vi sono due soggetti: uno siamo noi, l’altro è il nostro Io superiore. In alcuni momenti, specialmente durante gli esercizi e qualche tempo dopo, possiamo sentire come si rimanga in due: uno siamo noi, l’altro è il nostro io inferiore.

 

Si tratta di traslare in questo nuovo nucleo di sé, per connessione con la Forza.

 

Allora i cosiddetti problemi dell’io inferiore sono assunti da un punto di vista superiore, capace di leggere il senso reale del nostro agire, e cosí di intuire, per fantasia morale, l’azione da intraprendere.

 

Ogni giorno, quale che sia la sconfitta, la delusione o la vittoria umana o la carica esaltatrice e passionale, si deve essere in grado di spegnere la personalità inferiore e dedicare l’anima ad aprirsi alla Forza che al contempo discende e le è insita.

 

È importante questo sentimento di dedizione totale, di volontà di apertura, come consegnare se stessi a quel momento, senza riserve né opposizioni.

 

Questo è un sentiero per pochi. Per i “buoni per eccesso di forza”. Abbiamo però una scelta: possiamo continuare a vivere l’illusione, credendo che la Vita sia la vita; identificarci con ciò che ci capita senza cercare un rapporto cosciente. Oppure possiamo scegliere interiormente, col massimo di ciò che possiamo, ogni giorno, di aprirci al potere.

 

La Forza è lí per donarsi, e se la cerchiamo, la troveremo. Avremo allora l’esperienza della Folgore, al grado in cui potremo sperimentarla.

 

Riconnettersi cosí alla fonte, superando il dolore. Non è in realtà il dolore che va superato, ma l’affezione ad esso, il suo punto d’aggancio nell’anima. L’insopportabilità del dolore dipende dalla sua contaminazione; se fosse puro potrebbe essere accolto.

 

Non è infatti il mondo che ferisce, ma l’anima che non sa come aprirsi al mondo, annettendo al contenuto puro della sofferenza le sue scorie di ribellione. È la reazione istintiva al dolore, e cioè il significarlo, attribuirgli altro da ciò che è e per cui si dà. La paura, la rabbia, l’ansia, sono gli annessi emotivi che l’anima fa affluire come potenziamento del dolore fino ad intronizzarlo nella coscienza, dandogli centralità, destituendo l’Io.

 

Il pensiero asservito incolpa cosí le cause mondane del dolore, ma non c’è giustizia che si possa cercare nell’immediato, non c’è redenzione o sollievo: è il vicolo cieco del limite umano.

 

Il senso di tormento esistenziale può essere tanto forte da staccare i legami dell’anima con le sorgenti della gioia di vita. Il cuore, come sede basale dell’incontro con questa vita, è ottenebrato dall’ignoranza, la piú buia, la portatrice della morte: l’urlo muto del disperato, che non sa uscire da se stesso, né può farsi udire, perché la sua voce è strozzata dalla potestà dell’ego chiuso nella sua ottusità, che soffre di questa e si ribella in ultima istanza a ciò che l’ego strutturalmente è: uno smarrimento del Divino; ma non c’è nulla di smarrito che non possa essere ritrovato.

 

Si sperimenta la solitudine che appare imposta dal mondo e dagli altri, ma è figlia naturale dell’incapacità del cuore di aprirsi alla sua strutturale potenza d’amore.

 

In questo senso non c’è amore che non nasca dal dolore come dal suo fiore, perché sia un frutto dell’avvenire, o un potere di resurrezione.

 

Con l’applicazione alla pratica ascetica si conquistano sí momenti di calma interiore, di contatto con le zone auree dell’anima, di quiete profonda. Questo edificio, tanto faticosamente eretto, poi crolla al primo singhiozzo della psiche, ma non viene infranto dal dolore in sé, quanto dalla sua illegittima sintonia con l’ego, che patteggia con esso in ambiti ciechi dell’anima. In altre parole l’ego permette al dolore di essere piú di ciò che è, diverso da ciò che dovrebbe essere. Dovrebbe essere il linguaggio del karma, diviene invece narrazione drammatica, monologo interiore, conflitto psichico, disperazione, identificazione ahrimanica, tortura psicologica.

 

Non c’è altra soluzione che aprirsi al dolore, come aprirsi alla Forza, come se la Forza vi abitasse dentro. Accogliere la sofferenza con lo stesso slancio volitivo con cui si tende a respingerla, volerla come una inconosciuta irruzione del Logos nell’anima. Farlo meditativamente è il necessario preludio per riuscirci in situazione. Ogni volta che la disperazione attacca, riconoscere, per rinnovate forze di coscienza, che si tratta di un volto del karma: ora è la prova, perché di questo si tratta.

 

La via d’uscita c’è: concepire il linguaggio del dolore come la chiamata del Christo alla redenzione dell’uomo. Lasciare cosí ogni remora, rimpianto, astio, rabbia, ragione, ogni pen­siero, ogni cosa di sé; mollarla, farla cadere, per aggrapparsi con ogni fibra al Logos.

 

Il Logos chiama tutti, con il dolore. Tutti cercano il Logos, soffrendo.

 

Questo Logos però non concede la sua Forza se non nel momento della libertà, come sacrificio del volere immesso nel pensiero. Niente accade da fuori, nessuno Spirito, nessuna salvezza. Va cercata interna al dinamismo del pensiero, nella stessa mente che un istante prima lottava con se stessa per non sentir dolore.

 

 

 

Il dolore a cui ci si può aprire come fosse la salvezza, per un atto non richiesto dal karma, di cui l’Io è il libero offertore.

 

Ora, nel mentale, per averlo crocefisso, per aver immesso un volere che sia oltre noi stessi, si ritrova la scala per superare il male e con esso i suoi psicodrammi: la sua unica presa nell’anima.

 

San Giorgio e il drago

 

Oltre il limite mentale il Logos finalmente parla, gli Ostacolatori tacciono, e con loro il loro discorso, perché il loro punto di presa è forte se si fa discorso interiore.

 

È il silenzio che apre alla calma interiore, che non deve superare niente, né reagire a niente, né lottare, perché abita una zona di estraneità alle questioni che gli sottostanno, come sorvolando un lontano paesaggio, da un cielo terso.

 

Là vige l’ordine dello Spirito, vi è già l’Uomo, e il Drago è stato vinto.

 

Non io, ma il Christo in me.

 

 

Emanuele Tartarini