Le virtú nascoste del paradosso

Considerazioni

 

Le virtú nascoste del paradosso

 

Grazie agli sviluppi imprevedibili di cui sono intrecciati i rapporti umani, specie se ricchi di cordiali e reciproci interessi, ho di recente acquisito un nuovo amico; tanto per cominciare, mi ha rivolto una domanda un po’ sui generis, che al momento mi ha lasciato perplesso, perché, devo ammetterlo, alquanto impreparato: «Cos’è un “paradosso” dal punto di vista dello Spirito?».

 

In un primo tempo ho creduto di cavarmela in quattro e quattr’otto, senza approfondire il tema con particolare attenzione; pertanto la mia risposta è stata tanto banale quanto perentoria: secondo me, un paradosso è un espediente della dialettica discorsiva, una specie di prova per assurdo che, appunto nella sua abnormità, rende palese, o tenta almeno di far risaltare quel che si vorrebbe dimostrare, ma che per le vie ordinarie non si riesce. Non vedo quindi riferimenti allo Spirito, a meno che non si sostenga che anche l’esercizio dell’argomentazione dialettica sia in qualche modo collegabile allo Spirito. Ho cercato cosí di esaudire la richiesta del neo amico.

 

Fila al Comune

 

Tuttavia, nel rifletterci sopra a posteriori, in uno di quei momenti di rinforzata lucidità, che tutti possiamo avere se gli agevoliamo il passaggio, scoprii di essere insoddisfatto delle opinioni espresse. Suonavano defatigatorie, stonate, approssimative. Ero pure dispiaciuto di aver chiuso la questione sollevata in un modo cosí sbrigativo; mi sentivo responsabile di un torto; per un attimo mi vidi nei panni di un impiegato della pubblica amministrazione che non cura lo sportello e la fila degli utenti in paziente attesa, perché occu­pato a gustare un buon caffè (ov­viamente questo nella pratica non succede, era solo per dare un toc­co teatrale all’esempio).

 

Perciò sono andato a riprende­re il mio vecchio Rocci (diziona­rio di greco che conservo dai tempi del liceo, con molta cura e tanto nastro adesivo, e che in piú occasioni mi ha offerto rivelazioni importanti sugli etimi e sulla fonologia di numerose parole) e ho cominciato ad esaminare la voce “paradosso”.

 

Dopo un po’ sono arrivato a due conclusioni, apparentemente disgiunte; entrambe però hanno riattivato il mio interesse: da esse proveniva una traccia meritevole di essere seguita: la parola “paradosso”, tra le varie possibilità d’impiego, può significare “oltre all’evidenza”, oppure “contro l’aspettativa”. Il che per me valeva quanto l’odore del miele per un orso affamato.

 

Anzitutto ragioniamo: vediamo un po’: perché la locuzione oltre l’evidenza dovrebbe stare in con­nessione con l’altra, che di primo acchito, sembrerebbe avere un significato diverso? Infatti contro l’aspettativa risveglia echi di sorpresa, forse di rammarico, o forse anche no, ma non si combina con la prima, se non per quell’“oltre” che magari sta a suggerire un cambio nella direzione di marcia….

 

È risaputo: nemmeno a parole è facile quadrare il circolo; ma spesso i significati sono molto piú duttili delle forme verbali nelle quali cerchiamo d’imprigionarli, anche se poi ci scappano da tutte le parti. E questo, mi pare, i Greci d’un tempo, lo avevano capito bene.

 

Oltre l’evidenza, penetriamo infatti nel campo della fantasia immaginativa e a questo punto ci si può imbattere in cose che non ci aspettavamo d’incontrare. Cosí è piú semplice, e la connessione diventa lineare.

 

Il che dovrebbe metterci sull’avviso: l’evidente contiene solo l’evidente, ovvero il percepibile. Nulla di piú. E qui l’umanità si divide in due. A qualcuno basta un mondo finito composto da cose percepibili, mentre altri non si accontentano e, almeno col sentimento, avvertono che questo mondo non sarebbe completo se non ci aggiungessimo tutto quello che produciamo, e che proviene da una nostra ben precisa attività interiore.

 

È indimenticabile per me il monito di Rudolf Steiner: «Con che diritto considerate voi completo il mondo senza il vostro pensare? Non produce forse il mondo, con la stessa necessità, il pensare nella testa dell’uomo e i fiori sulla pianta?» (Filosofia della Libertà, Ed. Antroposofica, O.O. N° 4).

 

Lo dichiaro “un monito”, in quanto l’interrogativo posto dal Dottore è risuonato, alla mia prima lettura, come una vera e propria accusa (se si pensa a fondo, una domanda del genere non può non ridestare un dramma sempre presente nell’anima) e mi sono sentito letteralmente sprofondare sotto il peso della mia inavvedutezza.

 

Fiore e mente

 

Ora posso dirlo con tranquillità; fu quello forse il mio primo incontro/scontro con la regola del Paradosso. Pur essendo trascorsi cinquant’anni da quel momento, devo ammettere che ancora al tempo presente l’idea che vi sia un’unica forza che da una parte operi nella mia testa fa­cendole fiorire un pensiero e dall’altra insista, nel mondo esterno, sulle forze della pianta, facendole sbocciare un fiore, tende a rimanere un fatto incomprensibile, inaspet­tato, inimmaginabile; per l’appunto, paradossale.

 

Ma c’è di piú: nel termine stesso di Paradosso, abbiamo la parola greca Doxa, che in quanto a significati è straordinariamente generosa. Ne ho scelti due non a caso; mi sembrano in armonia con il senso del Paradosso: il primo è la credenza, l’opinione e quindi anche l’aspettativa; il secondo, piú filosoficheggiante, sta per onore, gloria, fama. maestà divina, splendore celeste.

 

Tenuto conto quindi che il prefisso Para- ha valore sia per un quasi che per un contro, possiamo ora dedurne che il Paradosso non solo va oltre l’evidenza e contro l’aspettativa, ma pone l’accento in modo perentorio sul fatto che oltre (e contro) l’evidenza dei prodotti del pensiero, si può reperire in esso pensiero (inteso come potenzialità pensante) quella Luce della Conoscenza che lo congiunge intimamente alla sua fonte superumana, e quindi divina.

 

Mi pare che il nostro Paradosso abbia pertanto tutte le carte in regola per meritarsi un esame specifico e dedicato alla sua natura costituente.

 

Mesi fa, ho avuto modo di assistere ad un telefilm in cui il formatore di un corso avanzato per broker dell’alta finanza, voleva spiegare all’aula, cosa deve essere inteso per ricchezza e dove fosse possibile reperirla. Raccontò loro la seguente storiella: «Due pesci nuotano nel mare, incontrano un altro pesce che li saluta: “Buongiorno signori, freddina l’acqua stamattina, vero?”. E se ne va. I due pesci si scambiano un’occhiata e poi uno dei due sbotta: “E che diavolo sarebbe st’acqua?»!

 

È solo un tentativo maldestro di Paradosso, usato in questo caso a fini puramente speculativi. Ma mi è stato utile. Se si sostituisce la parola acqua con la parola Spirito, o Provvidenza Divina, o Pensiero Vivente, ci accorgiamo subito del contraccolpo ricevuto: siamo costantemente immersi in un qualche cosa di talmente ovvio, talmente scontato, che non ci diamo piú la pena di studiarlo, definirlo, rispettarlo. C’è, esiste da sempre, e dal momento che cosí è, a che scopo disturbarsi per tentare di capirlo meglio?

 

Ecco qui il potere del Paradosso. Ci fa saltare oltre l’evidente e ci pone in una situazione che prima non sarebbe stata rappresentabile neppure attraverso la fantasia sbrigliata di Tolkien.

 

In buona sostanza il Paradosso si pone il compito di creare in noi un risveglio, una catarsi, che, a seconda dei casi, può essere anche brusca, se non sconvolgente.

 

Il Creatore ci ha dotati di una facoltà pensante che, messa in proiezione, ci dà la possibilità di ri­creare l’intero universo sotto forma di pensieri. Cosa che facciamo abitualmente ogni giorno, ma a patto di non supporlo nemmeno. Per cui noi restiamo noi, e l’universo (la terra, gli altri, la vita, il cosmo) rimangono esterni e separati. O almeno cosí sembra, e non sono pochi quelli disposti a giurarlo.

 

Tutto quello che non è roba nostra – si crede – non ci riguarda, sta fuori di noi, è enigmatico, misterioso, forse conoscibile, ma per ora estraneo. Tuttavia questo è il principio dell’alienazione, della follia collettiva! In tal modo stiamo allontanandoci sempre piú dalla verità!

 

L’uomo è in grado di pensare a tutto; come immediata conseguenza, può riempire la sua dimen­sione con pensieri pensati bene e con pensieri pensati male (qui per bene e male si intende pensieri sviluppati in modo completo e pensieri immaturi, superficiali, non portati a termine, ovviamente secondo la fase storica dell’evoluzione umana e le possibilità intellettuali di ciascun soggetto).

 

C’era – e tuttora permane – la seria probabilità che pensando praticamente a casaccio, di tutto e di piú, come infatti avviene correntemente, l’uomo s’imbozzolasse nel proprio equivoco, mischiando bene e male, amore e odio, luce e tenebra, senza capirci nulla e, soprattutto, divenendo rapidamente incapace di distinguere l’essenziale dal fatuo, l’importante dal superfluo, l’emergente dal secondario.

 

Senza la guida delle stelle, anche l’esperto navigatore della notte dei tempi diventa cieco e finisce alla deriva.

 

Cristo

 

Ecco quindi il motivo per cui, nel disegno della Divina Provvidenza, il Signore ci ha mandato il Figlio. Indipendentemente dal grado di matura­zione spirituale raggiunto dall’uomo, Egli è comunque la Direzione, il Riferimento, il Traguardo verso cui l’anima umana, consapevole del pro­prio ruolo, può indirizzare i suoi pensieri, di qualunque contenuto essi siano, facendoli convergere verso quell’Unica particolarissima Meta che, nella storia del mondo, si è presentata a noi con l’uomo chiamato Cristo Gesú.

 

Se vogliamo, tutta la storia terrena e spirituale che circonda la figura del Cristo Gesú è un Paradosso; anzi, è il Paradosso dei Paradossi, per­ché soltanto in Lui possono convergere l’amore e la ragione, l’altruismo e la soggettività dell’ego, il coraggio di vivere e la paura della morte, senza che l’anima si senta lacerata e la mente sconvolta.

 

Cosa dire del Paradosso insito nella frase che ci è stata tramandata da una tradizione cultuale, in cui, quasi a mo’ di saluto e augurio, ci si scambiava un’esortazione di questo tipo: «Fratello: vivi come se dovessi essere eterno, ma ricordati che devi morire».

 

Proprio nella connessione distopica di queste parole, scatta un quid nell’interiorità di chi le ascolta; un quid che in parte è ribellione (ovvero la pronta reazione di protesta dell’ego, che non sopporta lezioni da nessuno) ma è, in buona parte, anche il ricordo, suscitato dal Paradosso, di una verità enorme, sempre presente in noi, e dalla quale ci siamo costantemente mantenuti alla larga.

 

Adesso che abbiamo brevemente illustrato la dimensione in cui si configura il Paradosso, possiamo anche osservare come esso presenti forti analogie con l’Intuizione. In fondo cos’è l’intuizione se non un Paradosso, il quale però si sia verificato saltando a piedi pari la fase del momentaneo ribollimento interiore che ogni Paradosso porta con sé? Si osservi quindi che il Paradosso appare solo alla conclu­sione del suo formarsi, ed è in genere accompagnato da un sentimento di stupore.

 

L’Intuizione invece non è un punto d’arrivo; è un procedimento che ci permette di passare da un elemento semplice ad un altro piú complesso, rimanendo tuttavia consapevoli del percorso interiore necessario e dei tempi che gli spettano. In tal caso, nulla vieta che il risultato possa comunque sor­prenderci, ma dal momento che ne abbiamo seguito l’iter formativo, l’effetto riguarda piú un’esul­tanza mentale che non un sobbalzo del cuore.

 

Il processo dell’intuizione si manifesta nel passaggio tra il pensiero (o la sua forma verbalizzata che è la parola) e il Concetto. Anche qui mi pare indispensabile ricordare quanto detto dal Dottore, all’inizio del cap. IV della Filosofia Della Libertà (Parte 1a): «Attraverso il pensare sorgono concetti e idee. Che cosa sia un concetto non può essere detto con parole. Le parole possono sol­tanto rendere attento l’uomo al fatto che egli ha dei concetti».

 

Partiamo allora dalla Parola per arrivare poi al Concetto e di seguito vedere come nel passaggio da un elemento all’altro esiste un reale rapporto di forze sovrasensibili, che genericamente chiamiamo “intuizione” o meglio ancora “atto intuitivo”.

 

Ricordo come premessa doverosa che dietro qualunque parola proferita da bocca umana ci deve essere un pensiero. Detto ciò, come si fa a creare un preciso collegamento tra la parola ed il concetto?

 

Cerco di avvicinarmi per gradi.

 

Piazza Grande

 

Nella mia città, per indicare la piazza del Municipio, si usa dire “Piazza Grande”. Per cui con tale locuzione i triestini non hanno paura di equivocare o indurre altri all’errore. La Piazza Grande è per antonomasia quella lí, aperta sul mare e circondata per tre lati dai maestosi edifici del Municipio, della Prefettura e dell’ex Lloyd Triestino, ora Sede degli Uffici della Regione.

 

Ma a pochi viene in mente l’idea che una piazza si definisce “ Grande “ solo in virtú del fatto che ne esistono altre piú piccole. Se la città avesse un’unica piazza, chiamarla “Grande” non avrebbe piú senso. La cosa principale, o prioritaria, emerge dal confronto con altre cose piú piccole della medesima categoria.

 

Un altro passo d’avvicinamento: quando incontriamo una persona, anche conosciuta da poco, e abbiamo modo di parlare e di discutere su vari argomenti, non possiamo sostenere di conoscerla a fondo. I rapporti umani sono cosí: interessanti, ricchi, pieni di possibilità di sviluppo, ma inevitabil­mente limitati nello spazio e nel tempo; per cui si crede di sapere, si crede di conoscere, ma in realtà l’altro rimane sempre uno sconosciuto, come del resto, se vogliamo essere sinceri, lo siamo pure noi stessi di fronte ad un esame di coscienza, onesto e profondo.

 

Eppure ci sarebbe un’idea, perfettamente scientifica, valida pure sotto un profilo psico-filosofico severo ed esaustivo, capace di far risaltare nitidamente la figura dell’altro in modo consono ad un’esperienza reciproca basata su una verità inconfutabile.

 

Madre padre e figlio

 

Per quanto l’altro o l’altra ci possano apparire sconosciuti, esiste un elemento perenne che ci ricol­lega tutti e che ci unisce con una potenza incredibile: siamo cioè tutti – indiscutibilmente tutti – figli di un padre ed una madre; ossia di un uomo e di una donna che si sono congiunti un giorno per compiere un atto d’amore. Nessuna forza al mondo può negarlo; anzi, per contro, le forze del mondo devono adoperarsi al massimo grado affinché ciò abbia a ripetersi (senza badare a premesse e condizioni).

 

Sapere, e tener presente una verità di questa portata, facendola vivere nella propria coscienza e sostenendola con i giusti sentimenti, ci rende, forse per la prima volta nella nostra vita interiore, un preciso Concetto: ciascun uomo che cammina, o ha camminato, e camminerà sulla terra, è il frutto di un atto d’amore.

 

Che poi questo amore sia stato bello, buono, duraturo, oppure terribile, tragico e improvviso, che si consumi secondo la naturale ritualità, oppure in maniera del tutto opposta ad essa, non ha qui impor­tanza. Se siamo nati, qualcuno ha amato, o, confondendo il male col bene, ha tentato di farlo; di fronte ad un tale pensiero si aprono orizzonti infiniti.

 

Siamo davanti a Sua Maestà il Concetto: un’Essenza Spirituale uguale per tutti.

 

Com’è potuto sorgere? Pensando e usando le forme verbali del pensiero. Perché nel pensiero è sempre presente il concetto; ma questo noi lo ignoriamo, lo trascuriamo; anche quando adoperiamo pedestremente i concetti, essi sono privi di vita, sono i cadaveri dei concetti, purtroppo anziché essere i frutti di un amore, sono i risultati disastrosi di anime materializzatesi al punto di non riuscire a perce­pire la luce e la vita dei concetti che caratterizza ogni attività volente e pensante.

 

Guardare il cielo di giorno privato della luce del sole e, di notte, senza quella delle stelle, non è ancora un danno irreparabile; in realtà lo diventa quando la cosa comincia a lasciarci indifferenti.

 

Mettiamo di voler meditare il mantra di Massimo Scaligero: «L’oro è la traccia del Sole nella terra»; le parole di cui è composta la frase, prese una ad una, di primo acchito non dicono molto. Sono sufficienti a formare un pensiero compiuto, logicamente comprensibile, anche se ci lascia liberi di aderire sul significato. Ma intanto nel mio meditarci sopra, sorge, sollecitata dal volere, un’attività compositiva che presenta nel tempo delle elaborazioni sempre piú espansive, sempre piú sottili ma anche convincenti, fino ad arrivare al punto di un possibile accordo tra la mia creazione pensata, ora contemplabile, e il senso che Scaligero aveva inteso riporre nel proferimento citato.

 

Non pretendo che il mio disegno uguagli il quadro del Maestro; sarebbe impossibile, ma, osser­vando i due risultati, si capisce che gli autori sono stati ispirati da un’unica fonte.

 

Oro, Sole e Terra sono parole che richiamano i rispettivi concetti; elevando il nostro punto di osservazione iniziale, non possiamo negare di trovarci di fronte ad una affermazione alquanto insolita: come fa il metallo dell’oro ad essere una traccia del Sole nella Terra? Forse perché dap­prima, in un tempo remotissimo, Terra e Sole stavano congiunti assieme fintanto che non è avvenuta una prima scissione? E in questo scindersi, qualcosa di “solare” è poi rimasto “attaccato” a quella parte divenuta Terra?

 

Sole e oro

 

Perché gli uomini hanno fin qui veduto nell’oro soltanto la sua preziosità, il valore materiale del metallo, il potere talismanico, il fascino arcano? Perché l’hanno bramato svisceratamente e per entrarne in possesso hanno combinato ogni sorta di guai, combattendo, depredando e uccidendo?

 

Si potrà pensare che forse al giorno d’oggi le cose non stanno piú cosí, ma non è assolutamente vero. Anzi, sono peggiorate. Se l’oro ha perso nel tempo il suo valore eccezionale, è stato perché altri metalli l’hanno superato in valore, metalli molto meno nobili, ma importanti ai fini della ricerca tecno­logica piú avanzata, e dagli idrocarburi, che alla fin dei conti sarebbero i liquami sotterranei della decomposizione materiale organica, giacenti nel sottosuolo (anch’essi diventati indispensabili per garantire i nostri discutibili rifornimenti energetici).

 

E se una coscienza umana (scientifica quanto si voglia, oppure culturalmente barbara) con gli occhi della brama vede oggi nell’“oro nero”, qualche cosa di migliore dell’oro giallo, beh, questo non significa che l’oro tradizionale sia decaduto dalla sua priorità; significa solo che è decaduta, e di molto, la coscienza capace di formulare un giudizio del genere.

 

Qualunque libro di storia o di antropologia, ci racconta che nella Grecia classica, le rappresenta­zioni teatrali dei grandi drammaturghi offrivano al pubblico, al di là dello spettacolo, la possibilità della catarsi; ovvero vedendo recitate sulla scena le vicende della tragedia esistenziale umana, avveniva che l’anima degli spettatori subisse un processo piuttosto veloce e anche acuto di autopurificazione.

 

Madame Butterfly

 

Esperienza valida anche venti secoli dopo: ho veduto non poche persone con le lacrime agli occhi davanti all’esecuzione dell’ope­ra Madame Butterfly, o commuoversi profondamente rivivendo le pagine di Pasternak, narranti l’infelice amore di Larissa Antipova e Yuri Zivago.

 

Crediamo che l’anima debba risuonare delle sue emozioni; a vol­te andiamo pure a cercarle con cura, per far vibrare in noi le corde interiori quanto basta a convincerci della nostra ipersensibilità; e tutto finisce lí. Ma la conclusione è povera; la sensibilità fine a se stessa non rivela quel che avrebbe da dirci.

 

Le commozioni, giustificate o no, non sono elementi di purifi­cazione. Come Massimo Scaligero ci ha insegnato, un cartello stra­dale, prima ancora d’indicarci la direzione giusta, rivela (a noi stessi, se ne siamo coscienti) la nostra ignoranza sulla strada da prendere. Per cui, là dove pensiamo ingenuamente di essere percettivi e sensibili alle disgrazie altrui, siamo invece esposti, per una frazione di secondo, al fatto di non poter piú cogliere l’elemento eterno della spiritualità che aleggia nelle (e sulle) vicende umane. Questa è la causa rattristante; questo è ciò che l’anima piange nel profondo. Altre forme di raffinata mestizia, senza ombra di dubbio, sono partecipate ma secondarie. Piangiamo in quanto resi accorti, per un attimo, di essere precipitati in basso e di non saper risalire. Ma preferiamo raccontarci che l’emozione subíta sia il frutto esclusivo della nostra grande capacità affettiva, del nostro altruismo, della nostra generosità, duramente provate dalla vita, e che invece si meriterebbero plausi e consensi.

 

Pochi sanno soffrire come l’uomo d’oggi: seduto nella poltrona preferita, col sacchetto di popcorn sulle ginocchia, segue commosso i crudi avvenimenti di attualità, illustratati secondo i canoni delle TV.

 

Una salita vista dal basso è una discesa. Bisogna però dirlo e non continuare a chiamarla salita. È evidente che la catarsi è quanto ci rimane dal ribaltamento di una prospettiva perduta.

 

Coglie la virtú dell’Oro chi lo possa seguire con lo sguardo interiore fino all’Età del Sole. Allora lo sa; allora capisce cosa sia la traccia del Sole nella terra. E può permettersi di dirlo.

 

Da quel che è stato fin qui esaminato mediante un allineamento di riflessioni piuttosto semplici ma utili e formative, che per loro natura esulano sia dal preteso rigore dello scientismo, sia dall’enfasi di correnti abbondantemente mistiche, abbiamo identificato nel Paradosso un processo analogo a quello dell’Intuizione; caratterizzando il primo come un fenomeno di ebollizione ed il secondo come un fenomeno di evaporazione; in entrambi infatti l’acqua aumenta di calore, ma per vie e tempi diversi.

 

Come fattore consequenziale ci troviamo davanti al fatto che per passare dal pensiero elementare al Concetto, sono necessari una presenza interiore vigilante l’intero processo e la capacità di attendere il risultato con fiduciosa pazienza. Altrimenti si verifica la legge del Paradosso; ossia un passaggio, di solito brusco, comunque realizzato tra un’immaturità cognitiva e una rivelazione che ne ridesti l’attenzione.

 

In precedenza ho fatto accenno alla figura del Cristo Gesú; sarebbe impossibile per ogni buon cristiano, non abbinare immediatamente a tale figura le storie e i racconti connessi con la Sua Morte e la Sua Resurrezione.

 

Ci si può chiedere a questo punto che cosa vi sia di paradossale (o di intuitivo) tra questi due elementi della storia sacra. Per molti non vi è nulla di tutto ciò; viene accolta l’esegesi ufficiale, peraltro ponderosa e complicata, che insiste sui due termini di Morte e di Resurrezione, ma che si guarda bene dall’indurci a cercare in essi una sintesi capace di cogliere nel Paradosso quel che potrebbe promuovere il varco, maggiormente esplicativo e chiarificatore, all’Intuizione.

 

Eppure, anche se la cosa sembra strana, o addirittura sconveniente data la delicatezza del tema affrontato, qualora nella nostra anima riuniamo con cura ordinata e con armoniosa sensibilità tutte le informazioni fin qui ricevute circa l’evento del Golgota, dobbiamo ammettere che tra le due polarità del problema (Morte e Resurrezione) in apparenza disgiunte, esiste un unico elemento che le possa riunificare e far balzare di colpo al livello di sintesi superiore (quella che per i greci, fu l’epistème).

 

Tra la Morte e la Resurrezione del Cristo Gesú – rivissute nell’anima umana senza alcuna pretesa dottrinale ma alimentate dalla certezza di un avvenimento dell’anima, indipendente dal tempo necessario al verificarsi di questo – si erge, in tutta la sua enormità, il Mistero della Libertà umana.

 

La Croce è un simbolo per tutti; per alcuni, è un Segno, anzi è IL SEGNO. Ma proprio in questo, diventa percepibile in via immediata e diretta, l’infinita misericordia del Dio Padre e Creatore, per gli esseri della Terra, per i Suoi figli: che “tutti” possano accedere là dove hanno trovato accesso “alcuni”.

 

Raffaello «Crofifissione e Resurrezione»

Raffaello «Crocifissione e Resurrezione»

 

La Croce del Cristo s’innalza sovra­stando le macerie morali del mondo; in Essa possiamo vedere la salvezza, la spe­ranza, la soluzione d’ogni odio nella fra­tellanza e nella pace universali; ma que­sta visione è ancora puramente roman­tica, ingenua, passiva; molto lontana da quella fede di cui avremmo bisogno per sostenere decisamente il nostro assunto esistenziale.

 

La fede deve essere una forza di vita che ci fa camminare agili e spediti, non un appoggio per chi crede d’aver per­duto l’equilibrio interiore. Abbiamo ancora la virtú del Paradosso; oppure, con un pensare esercitato nella Scienza dello Spirito, la capacità di seguire l’Intuizione nel suo svolgersi dall’inizio alla fine: allora la Croce ci potrà svelare una nuova conoscenza.

 

La Morte e la Resurrezione non saranno piú un sacro mistero sul quale inginocchiarsi: nel pensare-sentire-volere dell’umano potrà crearsi una sintesi, un lampo di luce cognitiva: un ricordo, un ri­destamento della coscienza, che giunge da molto lontano.

 

Tale consapevolezza coronerà il compito che l’anima nostra, scendendo sulla terra e sperimentando nelle ripetute vite terrene le condizioni tutte dell’esistenza fisico-sensibile, è venuta a realizzare.

 

«…Conoscerete la Verità; e la Verità vi farà Liberi» (Giovanni VIII, 31).

 

 

Angelo Lombroni