Angoscia e speranza nella relazione col bambino

Pedagogia

 

Angoscia e speranza nella relazione col bambino

 

Alberi capovolti, cavoli e cicogne

 

L’angoscia dei bambini è l’angoscia del mondo: per curare questa angoscia dobbiamo innanzitutto curare noi stessi e il mondo: non i bambini. E con “curare” intendo prendersi cura: l’atteggiamento terapeutico fondamentale. Dobbiamo metterci alla ricerca del nostro bambino interiore, del nostro fanciullino, come l’avrebbe chiamato Pascoli. Non è un’espressione retorica: di solito, però, cerchiamo il fanciullino dove ci piacerebbe trovarlo: vorremmo ritrovarci “piccoli” nella sfera delle brame, degli istinti, delle passioni. E cosí il fanciullino ci aiuterebbe a soddisfare le nostre voluttà. Ma in questo compiacimento non ci agganciamo piú al territorio dell’infanzia quanto alla puerilità: «Voglio torna’ bambino!» diceva il comico.

 

Il “fanciullino” vive in una regione intima, spirituale: occorre trovarlo. Occorre mettersi alla ricerca dei bambini che siamo stati, prima di prenderci cura dei bambini che ci vengono affidati. Gli adulti che lavorano con i bambini (maestri, educatori) hanno però un grande vantaggio in questo cammino. Nella misura in cui ci riveliamo buone guide per loro, i bambini diventeranno buone guide per noi, per il nostro cammino, e ci condurranno all’Incontro. Ecco perché – in questa sfera di interrelazione – i migliori educatori dei maestri sono i bambini: quelli considerati problematici diventano poi le nostre guide specialistiche. Quanti sforzi per avvicinarsi alla loro regalità, quanti sforzi per vedere tutto l’oro che portano qui sulla terra!

 

L’infanzia non è un’età ma una dimensione celeste che si manifesta sulla Terra. Forse qualcuno obietterà che c’è poco di pedagogico in questa affermazione. Eppure quando osserviamo la comunità infantile, ci riconnettiamo con ciò che siamo stati intravvedendo altresí quello che l’umanità potrà divenire evolvendo.

 

Albero rovesciato

 

Platone parlava di un mondo iperuranio (ὑπερουράνιος); ed allora potremmo pensare, guardando a un bambino, come a quel­l’essere che ci porta incontro una dimensione puramente ideale che viene dall’alto, da questo mondo delle idee, da una direzione del tempo che ci raggiunge dal futuro. Nella dimensione dell’infanzia passato e futuro convergono: ci troviamo quindi di fronte a qualcosa che dovremmo evitare di considerare esclusivamente come un fatto temporale, evolutivo. James Hillman ci esorta a rovesciare la pro­spettiva legata al pensiero di Johann Heinrich Pestalozzi, secondo cui il bambino è simile a un seme che lentamente si schiude al cielo divenendo albero; proviamo, con Hillman, a considerare il bambino come un “albero capovolto”, con le radici nel cielo e che poco a poco conquisterà la capacità di stare al mondo, di “toccare terra”.

 

In realtà i pensieri di Pestalozzi e Hillman non sono contra­stanti: necessitano di essere integrati nello stesso sistema di ri­flessione.

 

La corrente che muove dal basso verso l’alto è stata pienamente descritta dalla psicologia evolutiva contemporanea. L’altra corrente, quella che dall’alto muove verso il basso, è ancora semi-inesplorata. Rudolf Steiner è stato il primo ad individuarla, mentre tra gli psicologi contemporanei troviamo Thomas Armstrong. Armstrong, psicologo, docente universitario e specialista dell’apprendimento in età scolare, ha individuato una linea evolutiva che dal corpo muove verso l’alto, ed un’altra, quella dell’essere, che dall’alto muove verso il basso.

 

Le precedenti generazioni conoscevano queste due correnti del tempo, conoscevano queste due strade percorse dai nascituri. Per rappresentare la corrente che dal basso sale verso l’alto parlavano del “bambino nato sotto a un cavolo”, mentre per l’altra, quella che dal cielo scende verso la terra, utilizzavano l’immagine del “bambino portato dalla cicogna”. Oggi è considerato stupido parlare di queste cose, offrire ai bambini immagini con cui chiarificare la vastità del mistero della nascita, dell’esserci.

 

Il medico Walter Holtzapfel ci ricorda che: «Maggiore è l’altitudine a cui vive una persona e maggiore è il numero dei suoi globuli rossi. Poco prima della nascita il neonato possiede otto milioni di globuli rossi per millimetro cubo, un numero persino superiore ai globuli rossi di un abitante d’alta montagna. Con la nascita il bambino “scende” improvvisamente dall’“alto” sulla terra, e deve adattare il numero dei suoi globuli rossi alle condizioni terrestri, riducendolo a cinque milioni (Le connessioni spirituali di fegato, polmone, rene, cuore; Natura e Cultura Editrice).

 

E visto che abitano il cielo, concediamo ai bambini la possibilità di “rimanere con la testa tra le nuvole”. Ne hanno bisogno. Ogni bimbo ha una casa tra le stelle che di tanto in tanto ricorda con malinconia.

 

 

Cambio di prospettiva

 

Il processo di comprensione del bambino passa per la comprensione e cura di noi stessi, dell’ambiente in cui viviamo. Permettetemi adesso una disgressione e parlare della relazione con l’angoscia da parte di adolescenti e adulti. Perché? Perché dobbiamo avvicinarci un po’ alla volta al mistero dell’Infanzia e possiamo farlo viaggiando nel nostro ambiente, viaggiando a ritroso nella nostra biografia. Arriviamo a trovare quel fanciullino che siamo stati attraverso un percorso di spoliazione; è una immagine che mi ricorda le matrioske. Per trovare la matrioska piccolina dobbiamo “liberarla” da tutte le altre. E cosí è per noi: siamo professionisti, coniugi, single, artisti, papi, dirigenti… ma solo di tanto in tanto ci ricordiamo di essere umani; eppure è solamente in questa dimensione comunicativa che i processi di comprensione possono inverarsi.

 

I bambini di cui parleremo oggi, siamo noi.

 

Spes ultima Dea

Spes ultima Dea

 

Quando lasciamo un bambino piccolo libero di gattonare in una stanza, cosa facciamo? Creiamo uno spazio adatto a lui, oppure facciamo un sopralluogo in uno spazio preesistente; ci assicuriamo che non ci siano oggetti che possano nuocergli. Ecco: dobbiamo fare lo stesso anche con il nostro ambiente interiore, poiché i bambini esplorano non solo lo spazio fisico circostante ma anche quello spirituale (chiamatelo pure ideale) costituito dai nostri sentimenti, dalle nostre emozioni. Chi ha dei bambini, chi lavora con loro, sa di cosa parlo. Il nostro ambiente interiore, quando siamo alla presenza di bambini, non è affatto “solo” il nostro: loro “gattonano” – concedetemi l’espres­sione – anche nel nostro mondo interiore, e dobbiamo essere accorti affinché questo mondo non gli nuoccia.

 

 

Possibilità offerte dall’angoscia

 

Di fronte alla condizione di soglia offerta dall’angoscia si presentano due possibilità. La prima consiste nel far proprio l’impulso dell’angoscia ed avanzare quindi nella corrente del tempo futuro. È qui che incontriamo la speranza, qui l’angoscia incontra gli impulsi di speranza, diviene speranza. La seconda possi­bilità nasce dall’incapacità di avanzare nella corrente del futuro. È come se si venisse continuamente respinti indietro in un tempo che non è in grado di dive­nire. Cadiamo nel tempo e vi troviamo la paura indefinita. Questa paura può venir introiettata in sé e somatizzare nel corpo («Sto male e non so perché…»), oppure può esteriorizzarsi somatizzando nel mondo (e questo accade generalmente quando accantoniamo e o respingiamo l’angoscia). Non parlo di paura proiettata nel mondo, poiché quando proiettiamo qualcosa (una volta si proiettavano le diapositive… i Super 8…) essa non sconfina nella realtà. Posso guardare un bel film di fantascienza ma non per questo all’uscita dal cinema mi ritroverò i dinosauri in giardino! Voglio ribadire che questa forma d’angoscia ammala il mondo, ammala le relazioni, non è una cosa che riguarda esclusivamente il soggetto percipiente poiché vive entro una dimensione interrelazionale.

 

Valde in vita homnium pretisa spes est, sine spes homines misere vitam agunt

La speranza è preziosa nella vita degli uomini, senza speranza gli uomini conducono una triste vita

 

Non sempre ci si accorge dell’angoscia, di essere angosciati o di vivere in un ambiente angosciante: questa è una condizione diffusa. L’angoscia tendiamo sempre piú a mascherarla, ed uno dei migliori mascheramenti è proprio porre un’attenzione eccessiva nella cura, nell’eccesso di scrupolosità.

 

Quando incontriamo una persona che ci asfissia, che ci angoscia, diciamo: “mi toglie il fiato”, “è asfissiante”. Entriamo nella stessa condizione di fame d’aria del soggetto ansioso, arrivando a volte a sperimentare uno stato di oppressione toracica. É come se questa angoscia si trasmettesse anche a noi.

 

Edvard Munch Urlo

 

Chi vive nell’angoscia non assume gli atteggiamenti con cui Munch ha caratterizzato la sua opera celeberrima: l’angoscia non ci getta necessariamente nel baratro, non ci incupisce, non ci fa urlare.

 

emoji

 

Ne L’urlo di Edward Munch abitano forza e vigore; L’urlo di Munch è una presa di coscienza di fronte all’angoscia, e Munch l’ha urlata cosí forte che il suo urlo è divenuto l’urlo dell’umanità che prova angoscia, l’urlo stesso dell’angoscia. Un urlo sconveniente nell’epoca del politicamente corretto. Cosí come il Requiem di Mozart viene utilizzato per sottolineare in maniera grottesca i momenti in cui i concorrenti di un quiz show perdono i loro premi, l’urlo di Munch è stato castrato e ridotto ad una faccina, ad una emoticon caricaturale non tanto del dipinto quanto del concetto che esso esprime.

 

Qui nescit Martem nescit artem

Qualche parola sull’angoscia giovanile

 

L'attimo fuggente

 

Per parlare di angoscia giovanile dobbiamo usare immagini diverse rispetto a quelle utilizzate finora. Oggi sempre meno adolescenti ‘urlano’ la propria angoscia né la esprimono attraverso l’arte.

 

Il desiderio di fare arte nasce, a quest’età, dal dissidio, dall’attrito con il mondo. Se non c’è questo dissidio non c’è arte, non c’è una vi­sione artistica, poetica. Mi viene in mente La setta dei poeti estinti del film “L’Attimo fug­gente”. Ricordate?

 

I giovani provano sempre piú spesso una for­ma di angoscia silenziosa, raccolta. Un’angoscia che non viene espressa, non viene portata fuori.

 

cuffiette

 

Non viene urlata ma non viene neppure nascosta (come invece fanno gli adulti). Si accetta la realtà, questa realtà, come l’unica possibile: molti ragazzi hanno sempre vissuto in una condizione angosciata, in un tempo “grigio” tanto da trovarlo assolutamente familiare. I ragazzi che rivendicano qualcosa, che cercano il loro spazio a gran voce e che, per cosí dire, urlano la propria angoscia, vengono additati come “strani” o perdigiorno e cosí via. Gli altri, i silenziosi, quelli che passano il tempo davanti allo smartphone con le cuffiette negli orecchi o reclusi nelle proprie stanzette, non ci obbligano al confronto, se non in casi estremi.

 

Oggi la norma sembra essere “non andare in crisi”. Ho incon­trato molti ragazzi iperperformanti, in questi anni, ragazzi sempre “sul pezzo” – come direbbero loro – scrupolosi, diligenti… ma davvero incapaci di concedersi la possibilità di uno sbaglio. Questi ragazzi spesso superano la pubertà e/o l’adolescenza senza crisi. Questo è un campanello d’allarme: non lo è sempre ma, ecco, è un segnale a cui prestare attenzione. Se l’adolescenza non fosse un periodo di crisi non parleremmo infatti di crisi adolescenziale. Sí, questi ragazzi si ritrovano a un certo punto della loro biografia – di solito prima di un evento fondamentale, ad esempio l’esame di maturità – a rinchiudersi in se stessi non riuscendo piú a far nulla: qualcosa in loro si blocca. A volte chiedono aiuto. L’elemento della crisi non vissuta torna e si impone alla loro coscienza. Da questo momento, da questa caduta, diviene piú facile aiutarli a riprendere in mano la propria vita. Sono ragazzi e ragazze di cristallo: meravigliosi, perfetti, fragilissimi. Un piccolo fallimento rischierebbe, però, di mandarli in mille pezzi.

 

Costantin Noica (1909-1987) è uno straordinario filosofo rumeno, davvero poco conosciuto. Nel suo libro intitolato Sei malattie dello spirito contemporaneo ci presenta la todetite, una delle sei malattie spirituali da lui individuate. La todetite rappresenta l’assenza dell’individuale. Noica dice che la todetite è in qualche modo la malattia della perfezione dell’uomo, essendo egli prigioniero di un senso generale che gli impedisce di trovare il proprio senso individuale adeguato. Poi aggiunge: «Noi non siamo nella condizione delle formiche, che continuano a vivere all’infinito solo attraverso il formicaio e le sue leggi. I sensi generali passano, come passano i governi terreni, e noi restiamo; e se anche fossero piú grandi e forti dell’individuo, essi si dimostrano, alla fine, piú illusori. L’uomo vuole essere e vuole vedere un mondo che è. Gli dà sofferenza constatare che, come lui, anche le cose sono entrate nella monotonia del generale, in cui ogni presunta azione o affermazione individuale è imprigionata nella statistica. La todetite è, allo stesso tempo, la malattia spirituale che fa soffrire l’essere umano nell’attimo in cui egli si rende conto di essere schiavo della statistica».

 

Si capirà allora come in un ambiente in cui tutto è pianificato e controllato, in cui il lume della ragione è divenuto lume della razionalizzazione, i giovani sperimentino questo intimo dolore nascente dal confronto col demone della tecnica, della perfezione tecnica. L’uomo è gettato in questo senso generale, vi partecipa, ne è assorbito e ne soffre. Se è vero che questo “senso generale” – nel quale siamo gettati – diviene sempre piú tecnicamente perfetto (la perfezione delle macchine, degli apparati di controllo, i microchip…) è pur vero che i giovani sperimentano intimo dolore nel dissidio nascente tra questa condizione “generale” sempre piú algida (poiché sprovvista di vita, di calore, del battito di un cuore) e il proprio mondo ideale. Questa enorme macchina al servizio della volontà di potenza dell’uomo (Heidegger la chiama Gestell, ovvero essenza della tecnica) può essere vivificata solamente riportando l’esistenza individuale entro l’elemento generale, riportando l’essere umano, secondo la definizione dello stesso Heidegger, al ruolo di “pastore dell’essere”.

 

Marcus Fingerle in una sua conferenza dice: «Viviamo in una società tecnocratica, non tecnologica. Viviamo in una società in cui il potere è in mano alla tecnologia, dunque una società tecnocratica, in cui lo strumento non è piú a servizio dell’uomo, ma è l’uomo al servizio dello strumento».

 

Nell’espressione di questa iperfunzionalità giovanile, di questa apparente perfezione di tanti giovani (e volutamente non parlo di plusdotati, di gifted…) il cui dolore non viene piú neppure ostentato o nascosto, si esprimerebbe quindi la contraddizione dolorosa dell’individuale posto al servaggio del generale.

 

L’angoscia silenziosa di questi ragazzi è al centro della mia attenzione da tempo. Se le cose stanno realmente cosí dovremo prepararci ad aiutarli. Un sempre maggior numero di giovani vivrà una sorta di disturbo da iperfunzionalità assolutamente congeniale al cambiamento dei tempi e che porterà a un rovesciamento del sistema sensorio dei ragazzi.

 

James Hillman sosteneva che le scuole dovessero divenire luoghi di eversione culturale. L’eversione culturale di cui parlava non era collegata a fatti politici bensí a processi artistici. In un taccuino di conversazione di Beethoven è scritto un suo pensiero rivolto ad un interlocutore rimasto sconosciuto: «Per lei agire non è comporre?».

 

 

Angoscia sociale: moneta unica

 

C’è un poeta, Franco Arminio, che in un suo libro scrive:

 

«Alzatevi durante la cena,

ditelo che avete

un dolore che non passa.

Guardate negli occhi

i parenti, provate a fondare

davvero una famiglia

una federazione di ferite.

Ora che siete in compagnia

ditela la vostra solitudine,

sicuramente

è la stessa degli altri.

Mettete a tavola la vostra vita».

 

 

Arminio ribadisce le stesse cose che Neruda suggerisce nell’Ode alla Vita:

 

“La famiglia felice”

“La famiglia felice”

 

Lentamente muore

chi non capovolge il tavolo

quando è infelice sul lavoro,

chi non rischia

la certezza per l’incertezza

per inseguire un sogno,

chi non si permette

almeno una volta nella vita,

di fuggire ai consigli sensati.

 

 

Ecco, se la percezione interiore che abbiamo di noi stessi viene silenziata da ciò che ci imponiamo di essere e non siamo, se le qualità performanti che mi richiedono a scuola o sul lavoro alienano la relazione che io ho con me stesso, con la capacità di ascoltarmi, di verificare co­stantemente come vanno le cose dentro me… se il sogno della “famiglia felice” è costruito su questo canone, allora non mi rimane che cadere nell’angoscia.

 

Ma questa angoscia non sarà l’angoscia urlante di Munch, che poi è quella di Neruda, di Van Gogh (e che poi è l’angoscia di chi non ha paura di provare angoscia) ma sarà un’angoscia laccata, perfetta, sottovuoto. Si ha paura in questa condizione perché lentamente (si) muore…

 

I fiori nella cella

 

Questa forma di ango­scia silenziosa, questa im­potenza nell’incontrare la corrente del tempo futuro è magnificamente espressa in un pensiero di Silvano Agosti: «Uno non deve met­tere i fiorellini alla finestra della cella della quale è prigioniero, perché altri­menti anche se un giorno la porta sarà aperta lui non vorrà uscire».

 

L’immagine dell’angoscia gaudente, dell’angoscia ma­scherata, inizia quindi a co­struirsi. Questa angoscia di­viene la maschera da in­dossare ogni giorno, il gas inavvertito in ogni angolo dell’Occidente – per dirla con Noica – o, meglio ancora, la nostra moneta unica.

 

Freud considerava l’angoscia «la moneta unica in cui viene convertita la merce piú svariata, cioè l’unico stato emotivo in cui si traduce, facendosi cosciente, ogni altro stato emotivo rimosso.

 

Quando metto “i fiori nella cella” l’angoscia si somatizza nel corpo sociale, nel mondo a me prossimo. Mettere “i fiori nella cella” vuol dire non riconoscere piú in quel luogo, un luogo di angoscia, di esercizio, di metamorfosi. La mia condizione diviene allora una condizione algida, una prigionia dorata, mentre il problema viene gettato altrove, nel mondo, sugli altri.

 

Questa è la moneta unica dell’angoscia, uno scambio continuo, un veicolo sociale.

 

Come malattia ontica, l’angoscia dall’Io viene spostata al loro, al mondo. L’alibi dell’Io ammala il mondo: ed ecco l’angoscia sociale: quello stato di diffidenza, indifferenza e sospetto continui nei confronti degli altri.

 

La mia diffidenza nei confronti di un altro non è un fatto isolato, non è una proiezione. Acquista un valore comunicativo, concreto, reale. Ecco perché non parlo di proiezioni.

 

Quando metto in guardia qualcuno dalla possibilità di un pericolo, l’interlocutore non si domanda se questo pericolo è vero oppure no. Sto generalizzando, ma sapete che funziona in questo modo. La conosciamo tutti la storia del pastorello che urla «Al lupo, al lupo!».

 

Generalmente non verifichiamo le fonti, soprattutto quando esse sottendono a informazioni turpi e di cui la nostra coscienza sospetta già l’esser nate dal pettegolezzo.

 

Adesso si parla di fake-news e disinformazione, cioè di un sistema di potere che insidia le nostre coscienze propinando notizie mendaci, edulcorate. Quando però la notizia vola di pianerottolo in piane­rottolo e riguarda magari un nostro ignaro vicino, chi la crea?

 

 

Nicola Gelo (2. continua)