Quando ci troviamo di fronte a fenomeni per i quali non troviamo una spiegazione plausibile tra quelle da cui è derivata la nostra esperienza, siamo indotti a ritenere il fatto ascrivibile al Caso, o al Caos , che – guarda caso – si lascia scrivere con le medesime quattro lettere (e forse non a caso). Difficilmente qualcuno ammetterà che possa trattarsi di manifestazioni appartenenti ad un ordine superiore a quello ordinario cui siamo abituati e per le quali non abbiamo ancora saputo formare idee e pensieri sufficientemente chiari. Le nostre scienze, e con esse i ricercatori dell’infinito, in questi casi, preferiscono “dilatare” le conoscenze già acquisite in passato, consolidate e codificate, tentando di dare una spiegazione, commettendo tuttavia un errore di logica pura, la quale raccomanda vivamente di non avvalersi mai d’ una “parte” per determinare il “tutto”; non è raro che finiscano cosí nello scrivere racconti di fantascienza, o peggio ancora, proporre teoremi che rasentano l’astrusità. Nascono da qui le ipotesi sugli universi paralleli, sulle vibrazioni spazio-temporali, sulle stringhe, sul “bosone di Dio”, e. per chi non s’accontenta, pure quella sullo “spazio quantico”, che nessuno, tranne forse il suo ideatore, ha ancora capito di cosa tratti.
Dall’altra parte della barricata, tanto per fare da contrappeso al mondo elitario di una intellighentia in sé conclusa, troviamo una moltitudine ingenua, primitiva, dotata a volte di buon senso, la cui conoscenza elementare del mondo si basa però sulla superstizione e su una notevole facilità a lasciarsi convincere da tutto quello che, per carattere personale, avrebbe già potuto convincerla, se non ci fosse stato il bisogno irrinunciabile di un’autorità garante, che (la) rassicuri in merito, (le) favoleggi il pieno successo, e si assuma (in proprio) la responsabilità di un eventuale fallimento. Enunciato, questo, di grande forza e impatto sulla pubblica opinione, ma la cui consistenza disgraziatamente è pari a quella dell’energia nucleare pulita.
Riassumendo: la teoricità della scienza sta schierata da una parte e la praticità della (s)partitocrazia ideologica (forte di un numero rilevante di adesioni) si pone sull’altro capo della barricata: nel mezzo stiamo noi, con le nostre vite, tenute in una sospensione non del tutto ortodossa dal punto di vista sperimentale.
Possiamo fare qualcosa? Intendo qualcosa di personale, di intimo; un rimedio domestico contro un andamento mondiale che ci vorrebbe o schiavi degli “illuminati impazziti” o servi degli “oscurati misticanti”. Qualcosa di nostro: completamente nostro. Tra il CERN e l’Oracolo di Delfi, ci sarà pure una via di mezzo per quanti non sono disposti ad aggrapparsi a mirabolanti teoremi né a vivere d’incantesimi sognanti!
La mia compagna, con la quale vivo questi ultimi decenni, si chiama Marina. Come me è nata a Trieste, ha lavorato a lungo negli uffici regionali, mentre la mia esperienza operativa si è svolta prevalentemente in campo assicurativo. Alcuni anni fa, ha contratto una malattia neurologica degenerativa; tra i numerosi disturbi capitati (vertigini, instabilità, afasia ecc.) due mi sono sembrati utili ai fini d’illustrare al meglio il tema di questo scritto il cui senso si specchia nel titolo. Quando andiamo a fare la spesa in qualche mercato (normalmente un paio di volte alla settimana) la vista dei prodotti di ogni tipo, forma e colore, esposti nei vari reparti, le creano una sensazione di smarrimento e di confusione mentale; inoltre, nel leggere un quotidiano, prova un turbamento analogo, in quanto si sente “aggredita” (cosí mi ha confidato) dai titoli, dalle foto e dal tono degli articoli.
In effetto, anche se raramente, ho provato anch’io una sensazione simile; però in condizioni diverse; quando, per esempio, da notevole altezza, mi sono affacciato sull’orlo di un baratro e ho guardato in basso, la miriade frastagliata delle cose visibili ha cominciato a ruotare lentamente nella mia testa, poi sempre piú veloce, è diventata una giostra che non si può fermare, un vortice che vuole attirarti giú, e, come se non bastasse, allo stordimento si accompagna un senso di nausea. È un effetto al quale è difficile resistere, pur partendo da condizioni psicologiche normali. Figuriamoci quando poi entra in gioco una delle tante varianti depressive che sconvolgono l’equilibrio interiore.
Ora, trovandomi accanto, per cosí dire, a questo fenomeno invasivo sofferto dalla persona che amo, ho cercato di studiarlo e di capirlo meglio. In effetti, ho scoperto che in qualunque situazione possiamo trovarci, le percezioni sensoriali coprono una funzione di enorme importanza. Prima di tutto ai fini conoscitivi, in quanto costringono il nostro pensiero a cimentarsi con esse; poi, attraverso l’archivio dei ricordi, diventano il nostro bagaglio culturale, il data base esperienziale sul quale confrontiamo tutto ciò che sorge all’orizzonte percettivo.
Forse non ce ne siamo mai resi conto completamente, ma se col pensiero decidiamo di rivivere certe situazioni, anche di tipo ordinario, assolutamente non particolari, né implicanti stati emotivi di forte intensità, vedremo subito che la nostra interiorità, nel ricordare, è in grado di rilevare delle differenze notevoli; l’aver partecipato a quel matrimonio, o a quell’altro funerale, oppure alla festa di laurea della figlia di un amico carissimo; o di quella volta in cui siamo andati a ritirare la macchina nuova dal concessionario, o quando, sotto un violento acquazzone, abbiamo aiutato un signore (piuttosto pesante) che per tragico errore aveva infilato la gamba in un tombino e non gli riusciva di estrarla: ogni volta, puntuali, le percezioni ci hanno trasmesso segnali diversi, molto differenziati. Anche al solo rammentarli, si distinguono nettamente i gradi dell’intensità subita, nella quale siamo stati implicati. Da parte nostra, non abbiamo potuto né opporci, né attenuarli; hanno risuonato in noi e ci siamo convinti che incontrare e vivere gli avvenimenti consista proprio in questo.
È bene a questo punto fare una riflessione piuttosto semplice, da non dimenticare: quello che ha risuonato in noi, è sorto sí dalla presenza di una percezione, ma prima di risuonare (o di farci vibrare) si è totalmente mischiato a tutto l’apparato sensorio e animico; quel che risulta ora non è piú la percezione colta nel suo darsi, ma la nostra intima rielaborazione di essa. Pensare che siano la medesima cosa è stato l’abbaglio di svariati illustri pensatori e filosofi, che sono caduti in questa trappola e non ne sono usciti. Tale trappola è cosí tenace, che oggi ancora, nonostante il potente intervento di Rudolf Steiner, sul piano di una logica umana connessa con la vita dell’anima, l’idea di considerare questa distinzione è tutt’altro che diffusa; anzi, è ostacolata e impedita dalle moderne correnti di pensiero, per ragioni che ad alcuni sono note.
Le percezioni, in fondo, noi, le abbiamo sempre sapute risolvere; ma come? Trasformandole in atti conoscitivi. Una volta colte nel loro primo apparire, vi abbiamo aggiunto un nostro pensiero (giusto o sbagliato che sia) e, oplà!, abbiamo costruito una rappresentazione, che – ricordiamolo – è il ricongiungimento del dato sensibile con il pensiero umano. Un incontro tra ciò che ci è apparso fuori di noi e un’attività che invece si è svolta fulmineamente dentro di noi. Con ciò è sempre sembrato normale che ogni percepito, accompagnato da un quid pensante, con lo stamparsi nella nostra anima, vi lasciasse delle modifiche; i primi rudimenti, le nozioni, il sapere, la cultura, si generano cosí: dall’ equilibrio di due correnti, o intensità: quella percettiva esterna e quella interiore riflessiva. Quindi tutto bene: l’organizzazione umana sembra fatta apposta per acquisire conoscenze grazie alla stimolazione continua delle percezioni.
Qui, però, ci troviamo di fronte ad un altro problema, un serio problema. Cosa succede quando questo processo si scoordina e perde il suo equilibrio? Cosa accade quando le percezioni diventano molto piú forti dell’attività riflessiva con la quale siamo in grado di incontrarle? Oppure quando la forza del pensiero umano è talmente soverchiante che “schiaccia” le percezioni, le ingoia, le fagocita senza neppure rendersene conto? In pratica le ritiene risolte, estratte dal loro anonimato di base, non appena accolte dal pensare.
Con la sua Filosofia della Libertà, Rudolf Steiner ci ha fatto intendere che da parte di un soggetto conoscitore, sarebbe davvero una grande presunzione, pretendere di aver afferrato una percezione nella sua totalità, di primo acchito. Il passaggio dal dato sensibile percepito alla rappresentazione è solo il momento iniziale di un processo conoscitivo che potrebbe anche durare a lungo, fintanto che la percezione non sveli la sua essenza. Non basta quindi dire che una pianta è una pianta; se cosí fosse non sarebbero sorte la botanica, le scienze di nutrizione vegetariane e neppure l’arte dell’ikebana. Ma l’essere umano è fatto cosí; c’è chi tenendo in mano un fiore, ne odora il profumo e si riempie l’anima di poesia e di sentimenti delicatissimi, ma c’è anche chi si mette il fiore in bocca e lo mastica per sapere se il sapore è buono quanto il profumo.
Due moti opposti, due moti diversi, che rappresentano caratteri ben distanti fra loro; ma i caratteri degli esseri umani sono a loro volta sollecitati dalla medesima percezione, per cui la bellezza e la fragranza del fiore suggeriscono all’uno un’ispirazione romantica e all’altro uno scopo esclusivamente degustativo.
Secondo la Scienza dello Spirito (e si deve ammettere che tutta l’Antroposofia pone in grande evidenza questo fatto) l’atto conoscitivo è perfetto quando si svolge in una atmosfera di equilibrio armonioso tra l’oggetto percepito e l’interiorità del soggetto conoscitore.
Mi ricorda da vicino quel gioco straordinario nel quale si può vedere una pallina da ping pong stare a galla, in equilibrio, sopra uno zampillo d’acqua, senza cadere né scivolare di lato. Basterebbe una minima variazione nell’intensità del getto d’acqua, o una turbolenza qualunque riguardante la pallina (per esempio un alito di vento) e lo spettacolo finirebbe, chiudendosi su se stesso.
Allora, a questo punto, dovrei descrivere in qualche modo (spero il piú comprensibile possibile) in che cosa consista l’atto conoscitivo che si dovrebbe compiere quale accordo molto particolare tra l’organizzazione umana (attività senziente e pensante) e la realtà esterna afferrabile con i sensi ordinari (mondo delle percezioni). Credo di averlo già descritto precedentemente, ma repetita iuvant, e in un caso come questo iuvant piú che mai. Nel rivoltare il terreno con la sua vanga, un contadino mette alla luce un piccolo manufatto, una statuetta, alta circa venti centimetri e dal peso apparente di mezzo chilo. Naturalmente è sporca di terriccio, e il nostro contadino, senza avere ancora una chiara idea della scoperta, la porta a casa e la ripulisce con cura. Capisce che in effetti si tratta proprio di una statuina, ma al di là del fatto che potrebbe essere anche molto antica, e forse pure di valore, non riesce a inquadrarla né per la fattura, né per la sembianza e neppure per il materiale di cui è fatta. Perciò chiama un amico, uno che ha studiato e che ne sa piú di lui, e assieme scrutano l’oggetto misterioso. Dopo molte ipotesi, tutte abbastanza vaghe, il consiglio dell’amico sapiente è quello di portare la statuina in città, da un antiquario di sua conoscenza, per cercare di capirne qualcosa di piú. L’antiquario sembra interessato, ma afferma di non poter dire nulla sul momento, in quanto ci vorrebbe un’expertise sul manufatto da parte di qualcuno che abbia una certa esperienza in arte antica e in oggettistica vetero-reperenziale. Per non farla lunga, il nostro agricoltore improvvisatosi Indiana Jones, dovrà far sottostare il suo misterioso ritrovamento all’esame di un professore d’arte, di un docente di fisica e infine di un ricco collezionista di cimeli medioevali, con notevoli aperture anche verso le epoche precedenti.
Poiché questo non vuol essere un racconto, non c’è un finalino a concludere l’avventura, ma l’averla seguita e rielaborata nei vari passaggi può condurci dritti dritti ad una considerazione oggettiva ed unanime, piuttosto interessante: si provi immaginare, per ogni passaggio di mano avvenuto, e cioè dall’inesperienza totale ad un indagare sempre piú specifico, scientifico e interessato, quali possano essere state via via le “risposte” degli uomini di fronte all’oggetto ignoto, e come queste risposte, pur essendo parzialmente giustificate e corrispondenti agli stati d’animo suscitati, appaiono di fronte alla verità totale, tutte incomplete e insufficienti. Il senso del manufatto inizia dal suo aspetto semplice e immediato: una piccola statua; attraversa poi la fase del reperto storico, dell’oggetto d’arte, dell’immagine sacra, del cimelio raro, fino a giungere alla prova del Carbonio 24 e alla risonanza magnetica sulla materia strutturante. Eppure, dopo tali prove, resta sempre il convincimento che ci sia qualcosa d’altro da scoprire. Questo è il senso (e il fine) della Percezione; di tutte le percezioni possibili ed immaginabili: di non essere infinite come numero, bensí rappresentabili all’infinito mediante i pensieri, i sentimenti e le volontà dell’uomo, che, cimentandosi su di esse, scopre piani sempre piú elevati e significativi, non soltanto sulle loro qualità e proprietà, ma soprattutto sulla sua capacità di ritrovarsi in una dimensione ispirativo-intuitiva, dalla quale il pensiero è disceso per offrirsi a noi in un primo tempo come guida pratica della quotidianità, e di seguito come ponte per i Mondi dello Spirito.
Naturalmente qui è sorto un bel problema: del resto c’era da aspettarselo; gli Avversari dell’uomo non stanno mai con le mani in mano, e quando si avvedono che per le coscienze umane si avvicina il momento (uno dei tanti momenti) di risveglio, allora intervengono pesantemente; un po’ come si riproduce, con inquietante analogia, nei fatti storici: popoli che si ritengono liberi, armano quelli che non sono liberi, affinché si scontrino con quegli altri che, si racconta, li hanno privati (o li vogliono privare) della libertà. Come se non bastasse un putiferio del genere, ognuno accampa poi pretesti (piú o meno storici) per rivendicare a sé il ruolo di “liberatore”. Qualcuno potrebbe pensare che una trama di questa fatta sia troppo ingenua per essere realistica e che neppure nei piú sciocchi e fanciulleschi film western, apparsi in Italia nell’immediato dopo guerra, una regia del genere avrebbe potuto riempire le sale dei cinema. Questi “qualcuno” non hanno in fondo torto; soltanto non tengono in debito conto l’opera corrosiva e intossicante degli Ostacolatori, all’interno dell’anima umana, compiutasi dall’epoca antica fino a questi ultimi tempi. Siamo diventati oramai capaci di inghiottire e digerire di tutto, come si dice facciano gli struzzi, ma con la differenza, di farcelo passare per normale, istruttivo, divertente e talvolta interessante, nella sua asintomatica morbosità. Cosa, alla quale, gli struzzi non sono ancora arrivati.
Nonostante l’errore, e con esso il male e il dolore, che imperversano sul mondo, rimangono ancora in buon numero quanti non colgono minimamente le vere cause agenti dal retroscena, e ritengono, piú o meno in buona fede, di doversi ogni volta schierare, o da una parte o dall’altra (col diritto sottaciuto di poter cambiare divisa prima, durante e magari anche dopo, lo svolgimento degli eventi conflittuali) perché, si sa: 1) l’esistenza umana è uno struggle for life dal quale non si scappa, e 2) bona fides superveniens non nocet, che tradotto con una certa disinvoltura vale per: “Le idee si possono cambiare gratis”.
Che dire? Mi verrebbe in mente un epitaffio riassuntivo del tipo: “God save the Queen”, ma in questo momento mi pare fuori luogo: un altezzoso nonsense, una manifestazione di sconvenienza simile alla pompa faraonica di un rito funebre che si celebri su una Terra devastata da bombe e intrisa dal sangue di tante guerre.
Quel che il Dottore ha voluto insegnarci circa la formazione dell’atto conoscitivo, viaggia nella direzione opposta a quella percorsa dagli uomini di questa epoca. L’atto vero della conoscenza si dà quando ad una percezione si accompagni un pensiero umano capace di penetrarla fino alla sua intima essenza; e trovarvi colà quel quid divino spirituale (condensato e rappreso, se cosí posso dire) che attendeva di essere liberato proprio dalla virtú di questo pensiero, tanto amante in quanto conoscente. Quando tutto ciò non avviene, quando l’intero processo non sboccia nel risultato finale verso il quale tende ogni conoscenza, ma si arresta invece nel mezzo di essa, allora si ha una rappresentazione, ovvero una mistura ibrida di pensiero e percezione, che sicuramente basterà a formare un sapere e una cultura provvisori e, al momento, utili, ma ove sia sostenuta da un livello morale altrettanto immaturo e vacillante, facilmente verrà scambiata per un definitivo punto d’arrivo, sul quale potersi fermare. Come se l’evoluzione dell’uomo fosse una gita campestre che concede infiniti punti di sosta e ristoro alle coscienze impigrite cui ripugna l’idea dell’andare avanti. Con tale forma di autoinganno, le rappresentazioni mediante le quali ci formiamo le nostre varie concezioni, in tutte le branche dello scibile, non si reggono; come la pallina di ping pong sullo zampillo difetta e decade; né potrebbe essere diversamente, dal momento che adoperiamo l’incompiuto per il definito, l’instabile per il saldo e il fasullo per il genuino.
Se partecipassimo a una scuola di cucina e preparassimo le pietanze assegnate, con l’incosciente svogliatezza della formula citata sopra, credo che ne verremmo cacciati via in malo modo dagli chef-istruttori. Invece noi – per ragioni che ci guardiamo bene dal voler capire – continuiamo ad amare svisceratamente le nostre rappresentazioni, nelle quali, proprio per lo stato di debolezza intrinseca al loro formarsi, abbiamo lasciato penetrare di tutto e di piú: elementi spuri, patogeni, ostili, celati nelle pieghe della facilitazione, delle agevolazioni, della logica dei diritti acquisiti e inalienabili, in base ai quali ognuno trova poi la sua regola per fare quel che gli pare e gli conviene, nel senso piú materialistico della parola, anche a danno di altri.
Penso che la rappresentazione supportata da una coscienza umana, in cui il concetto o l’idea non trovino un terreno adatto per attecchire, non si possa definire una “rappresentazione” nel senso steineriano della parola; per Rudolf Steiner. la rappresentazione è un passo, magari ancora timido, verso la conoscenza, ma è un passo; dietro c’è un’entità umana pensante che vuole sapere, che sente d’esser al mondo per sapere, con le proprie forze, con i mezzi che ha e che trova: non per subire o accettare passivamente ciò che pensieri altrui hanno già decretato o quel che le proprie turbolenze intestine gli suggeriscono al momento. Se invece cadiamo nel tranello per cui ci si accontenta di una rappresentazione qualsiasi pur di metter fine ad uno spinoso problema cognitivo, allora vuol dire che ci siamo arrestati alla sensazione; ossia al primo impatto tra la percezione e l’organizzazione fisico-sensibile umana. Momento necessario, tanto quanto è necessario comperare un giornale per leggere le notizie; ma scambiare la condizione di base per l’atto in sé, è una presunzione che rasenta la follia.
Un esempio valido per tutti i casi: lo studio della storia: basta leggere con attenzione come siano stati generalmente definiti i vari conflitti del passato fra le parti contendenti, per capire che da lí a poco sarebbe scoppiata un’altra guerra, peggiore della precedente. Il motivo è lo stesso: abbiamo scambiato la rappresentazione della pace per l’ idea della pace; e abbiamo inscenato una finzione, pur sapendo che nelle anime covavano ancora odi, risentimenti e mugugni di vendetta. Non siamo voluti andare fino in fondo nell’atto conoscitivo; la rappresentazione è durata quel che è durata, ed alla fine è crollata miseramente, rivelando quel che da sempre stava sotto: l’azione dei sensi, o la sens-azione.
Cos’ha di brutto questa sensazione, che non è piú semplice percezione, ma non è ancora una rappresentazione ? Di brutto ha questo: non è difendibile dalla coscienza; pertanto è facilmente manovrabile da forze extra-umane. Lo è in quanto appartenente alla dimensione fisico corporea che normalmente risponde a delle istanze primordiali come la fame, la sete, l’istinto di sopravvivenza ecc. Splendide e necessarie, nei tempi in cui soccorrevano l’esistere fisico, ma deleterie per il prosieguo del cammino umano. Nella dimensione odierna (in cui non si può dire che la coscienza – consapevolezza – sia di casa) avvengono strani fenomeni, provocanti interferenze psichiche, allo stesso modo in cui uno stato di alterazione di normale ricorrenza (per es. un raffreddore) nel suo primo verificarsi, tende a invadere tutti i settori corporei e animici, mediante un’azione latente sul sistema nervoso, di modo che il soggetto, non sentendosi piú nella valenza abituale, inizia a subire un processo, in cui smarrisce se stesso, senza saper riconoscersi pronto e capace di reagire.
Possiamo tentare di farlo con il mal di testa o il mal di denti; una pasticca e via! Lo facciamo fare ai medici, agli specialisti, per un osso fratturato, ma a chi lo facciamo fare quando avvertiamo soltanto un malessere ignoto e incombente, e non riusciamo a formulare la piú pallida idea di come esso abbia potuto originarsi e ricadere su di noi? L’uomo moderno, colto, attivo, disinvolto e spregiudicato quanto basta, non saprà mai dirsi: «Accidenti ! Mi sono fregato con le mie mani! Ho scambiato le sensazioni per percezioni! Ho dato loro un valore oggettivo, solo per non confessarmi d’essere caduto in una trappola! Perché è chiaro che cosí facendo io mi allontano sempre piú da una concezione unitaria di me stesso e del mondo, perdo il mio equilibrio interiore, la mia centralità funzionale. Mentre credo di godere dei privilegi tecnologici e informatici con i quali la scienza mi investe ogni giorno di piú, la verità nuda e cruda è che non ho mai saputo chi veramente sono, né da dove vengo, né verso dove sto andando».
Paul Gauguin cercò di rispondersi con la pittura; Kafka e Pasolini col tormento di scritti e poesie; Brahms e Chopin attraverso la struggente dolenza delle note; con loro, molti altri ancora, nel prepotente desiderio di afferrare una pace interiore agognata, irraggiungibile.
Ma, come insegna Alessandro Manzoni: «Molto piú avrebbero trovato se invece di cercare lontano, avessero scavato vicino», in questo caso: nella loro anima; intesa non come cassa di risonanza senziente, ma come giardino segreto da amare, conoscere e coltivare.
Le percezioni non elaborate, le sensazioni non risolte (nel senso che mediante la forza del pensiero possono diventare rappresentazioni e quindi formare un basale atto conoscitivo, fino ad espandersi in concetti ed idee) aggrediscono (ho dovuto pensarci parecchio prima di usare questo verbo, ma alla fine sono contento di averlo scelto) l’organizzazione umana, pervadono l’interiorità e riescono a penetrare la sfera psichica, agendo direttamente con subdola violenza sul sistema circolatorio. Cosí trasformate, si chiamano “EMOZIONI”. O almeno noi le chiamiamo cosí . Qui si apre un capitolo interessantissimo: atteso che la loro provenienza e la loro ambiguità, di certo non aiutano l’uomo a procedere con fermezza e dignità nel suo cammino evolutivo, ci si può interrogare sui perché gli esseri umani di questa epoca siano arrivati al punto di credere che le emozioni costituiscano una cosa bella e importante della vita. Sembrerebbe, a sentir dire l’immediato vociare e la girandola delle opinioni da cortile, che senza le emozioni vivremmo di una noia mortale, e che, ergo, diventa un fattore essenziale andare a procurarsele in tutti i modi. Una grande parte della nostra cultura e un’altra parte, quasi totale, dei nostri comportamenti, si sono indirizzate alla conquista quotidiana delle emozioni, che possano far risuonare la grancassa della nostra interiorità fino alla saturazione (o fino a farla scoppiare, che è poi la medesima cosa). Nello sport : il bungee jumping; nella letteratura: sesso e horror; nel gioco: i videogame; nel sentimento religioso: le sette demoniache; nella moda: tattoo e piercing; nella musica: heavy metal; nella medicina: il nutrizionismo masochistico; nei rapporti collettivi: i social network; nella vita politica del paese: la gara di pretendenti smaniosi all’inettitudine governativa; nella scienza: un Dio che gioca (o non gioca) a dadi. Potrei continuare a lungo, ma la cosa non mi diverte, quindi desisto.
Ogni tanto, ci chiediamo perplessi e sgomenti se non sia meglio ricorrere a sciamani, cartomanti e indovini, invece che a psicologi, psichiatri e psicoterapeuti; non tanto per sapere “chi viene a cena”, ma per sapere, prima di tutto, se ci sarà la cena. Forse con la faccenda delle emozioni, abbiamo esagerato un po’. Non ci bastavano quelle semplici, naturali, che facevano parte del corredo umano e che di volta in volta ci aiutavano, correggendo, conformando, creando esperienza e ricordi. Non ci bastavano Flash Gordon, Nembo Kid, Godzilla, Superman, L’Uomo Ragno e Rambo, dopo aver percepito un onesto reddito di cittadinanza, sono andati in pensione. Con loro è tramontata un’era, ma per un po’ di tempo con le loro roboanti avventure ci hanno fatto stare con la bocca aperta. Poi, con i loro successori, Terminator, Resident Evil, Zombi e Dead Man Walking Associati, le cose sono precipitate; qui le emozioni non si accontentano piú di intrattenerci, divertirci e di procurarci qualche ora di svago avvincente e spericolato. Ora le emozioni vogliono invaderci, vogliono possederci, farci diventare di loro proprietà. In sostanza, cancellare dalla faccia della terra l’Uomo, e con lui, la sua missione.
Le cosiddette emozioni costituiscono un problema enorme, che non è risolvibile se prima di tutto non si va a verificare la causa che le ha prodotte ed il processo mediante il quale hanno acquisito sempre maggior potenza e aggressività. Sul piano sociale si notano da tempo i primi sintomi di un preoccupante declino; persino l’ordinamento giuridico e sanitario di molti paesi (pure avanzati in fatto di civiltà e industrializzazione) hanno dovuto in qualche modo piegarsi a considerare alcune evenienze, come accidentalità quasi naturali e quindi non implicanti responsabilità da emendare o perseguire con le leggi in vigore. I gesti insani, inenarrabili, dovuti a dei raptus, sembrano oggi piú giustificabili di ieri; le disposizioni sulle nascite, sulle adozioni, sull’eutanasia, sulla composizione delle famiglie senza discriminazioni di genere, sulle aperture all’eugenetica e sul disinteressamento verso la cultura del passato, con l’ovvio rafforzamento per la nuova tecnologia d’avanguardia, sembrano innovazioni interessanti se non innocenti. Si arriva persino al punto di ritenerle “liberatorie”.
Eppure se si va a guardare col lanternino, si scopre che tutte queste sontuose novità pseudo-liberatorie ci vengono offerte su un piatto d’argento, dagli stessi “mostri” che il mondo delle emozioni incontrollate ha suscitato in noi e che noi passivamente continuiamo ad alimentare con incredibile cecità animica.
Tra uno stucchevole moralismo di facciata, sospinto dal modernismo tout court, e una nostalgica eco di moralità vetero-punitiva, altrettanto penosa e irripetibile, difficilmente potrà nascere la libertà dell’uomo; la quale ha bisogno di individui, non di correnti, partiti, fazioni, squadre e squadrette, clan, parrocchie, target di consumatori, movimenti eversivi o intruppamenti vari.
Recuperare il rapporto giusto con le percezioni, quelle del mondo esterno e quelle interiori, tale il tema condizionante l’immediato futuro: scoprire in esse l’elemento perenne di vita che le fa essere quello che sono; come si offrano a noi per aiutarci a crescere, a capire a comprendere, a conoscere. Abbiamo perduto la strada; rovinato la relazione di base tra l’anima e il mondo; non siamo piú capaci di recuperarla. Esiste ancora una soluzione praticabile? Certamente che esiste! Ci mancherebbe! Ma ci vogliono coraggio, pazienza, abnegazione e perseveranza. La Scienza dello Spirito, tra i molti esercizi che possono corroborare la nostra interiorità e nel contempo disintossicare l’anima dai veleni fin qui ingeriti, ne ha uno che si chiama “esercizio della PERCEZIONE PURA”. Quelli che lo conoscono e lo praticano nel giusto modo, sono i paladini di questa particolare epoca, che sembra lasciarsi inghiottire dal materialismo; quelli che non lo conoscono, hanno la possibilità di rintracciare l’insegnamento originario e di applicarlo a quel che resta delle loro esistenze.
Credo non occorra ricordare altro. Anzi, no; c’è un’ultima cosa che desidero dire prima di concludere il presente scritto, ed è questa breve poesia che, a mio parere, offre uno spunto meditativo pertinente al tema proposto. S’intitola “L’Abisso”:
L’Uomo fissa lo sguardo
nell’Abisso;
nulla egli vi può scorgere
talmente buio e profondo
è l’Abisso.
Però, nel compiere
questa esperienza,
egli avverte qualcosa di nuovo
sorgergli dal segreto dell’anima.
È una forza che cresce,
aumenta in modo
proporzionale
all’azione esercitata dall’Abisso;
gli si oppone; sta alla pari;
lo contrasta: lo contiene.
È questa Forza,
solo questa,
che può fermare l’Abisso.
Angelo Lombroni