Le moderne scienze, nella loro ricerca, sia essa antropologica, sociologica, storica, letteraria o piú strettamente fisico-chimica, ci mostrano un uomo omogeneo, che sostanzialmente non è variato dall’antichità ai giorni nostri.
Sono, sí, accettate le mutate le condizioni di vita, le conoscenze, le abitudini, ma ci viene prospettato un tipo umano sostanzialmente identico, quanto a struttura interiore, col passare delle ère, cosí che il neolitico venga immaginato sulla falsa riga di un individuo odierno, solo forse meno intelligente e dall’aspetto piú scimmiesco.
Piú oltre, in epoca storica, l’antico asceta indiano o l’egizio o il caldeo, sono visti come uomini comuni, solo con stili di vita differenti e soprattutto con il grave deficit dell’ignoranza scientifica.
Fuori da una impostazione dogmatica o faziosa, semplicemente leggendo i testi delle antiche tradizioni, si ravvisa un diverso rapporto, rispetto ad oggi, con se stessi, con la natura e con l’elemento spirituale. Questo rapporto viene declinato in vario modo a seconda del periodo, ma si può affermare che piú ci spostiamo in antico e piú il diaframma che separa Spirito e natura tende a cadere.
Piú indietro si va e piú non era percepita una reale separazione del sensibile dal sovrasensibile, e laddove iniziò a sentirsi, tale separazione conteneva ancora in sé le chiavi del legame.
Le religioni precristiane parlano in questo senso di deità che abitano la natura, in modo che nel vedere il Sole si potesse scorgere la manifestazione di un dio, come Ra, Apollo, Aura Mazda ecc.
Si tratta di una struttura interiore differente, che permetteva una coscienza diversa e di conseguenza una percezione altra dei fenomeni del mondo.
Quando veniva associata la folgore a Zeus (Grecia) o Indra (India) o Thor (Scandinavia) o Perun (mondo slavo) non va banalmente intesa come la razionalizzazione di un fenomeno naturale, invero impossibile all’uomo di allora, in quanto mancante delle strutture razionali come le conosciamo oggi. Ne è testimonianza proprio l’ipostatizzazione di quei fenomeni, ovvero il fatto che non venissero per nulla percepiti come meri fenomeni, ma che il naturale significasse contemporaneamente Divino, e che ogni fatto della Natura fosse manifestazione di una potenza Cosmica, da cui l’attribuzione dei Pianeti agli Dei. L’antico uomo percepiva il mondo diversamente.
Perciò l’uomo era costituzionalmente diverso nel suo apparato interiore.
Lo si può vedere anche nello Yoga e nelle tecniche affini. Nella concezione antico-indiana il corpo materiale (prakriti) e quello spirituale (purusha) sono una unità, lo Yoga (che significa “legame”) serve a rendersi consapevoli dell’unità di Spirito e materia, piú precisamente una ricongiunzione col proprio Sé, o Atman, che non era individuale, non abitando il mentale, ma oltre questo. La tecnica specifica consiste nell’immergere la coscienza nel corpo, o in un punto del corpo, o concentrare l’attenzione sul respiro, fino a risalirne la corrente metafisica.
Nel prana scorreva infatti l’essenza spirituale del cosmo e per ricongiungersi con tale essenza era sufficiente immergere la coscienza nell’aria che permea il corpo e ritmizzarla (pranayama).
Si capisce che le tecniche yogiche fanno capo ad un tipo di uomo sostanzialmente diverso da quello di oggi, un uomo non cerebralizzato o logicizzato, che aveva un rapporto spontaneo e diretto con le forze spirituali-cosmiche che permeavano la sua corporeità.
O scendendo nel corpo si trovava lo Spirito, o uscendo dal corpo si realizzava l’estasi (samadhi). Veicolo di questa spiritualità era il sangue, da cui le antiche tradizioni che vedono nel sangue l’abitazione dell’elemento spirituale, dallo shen cinese all’Io sono (YHWH) ebraico.
In riferimento al popolo ebraico, ad esempio, si può affermare che abbiano sempre sentito che la vera casa del loro Dio YHWH fosse il popolo stesso, ed il recinto di questa casa la parentela, cioè la consanguineità. Il concetto stesso di perdono, amore e fratellanza era sviluppato sull’affinità del sangue, per cui, chi non era ebreo, era escluso dall’elezione e non era obbligato alla Legge.
Anche nelle tecniche meditative orientali, in generale, il tentativo era di raggiungere lo spirituale tramite il contatto col sangue, dove era la sede della vita e dello spirito. Vi era anche l’Origine: fisica, come marchio dell’ereditarietà, e spirituale, come espressione del calore che fu il primo abbozzo dell’uomo fisico.
Meditare era perciò sempre un “tornare indietro”, tornare allo Spirito che ci generò, tornare agli avi, agli antenati, alla memoria di popolo; tanto che un grado iniziatico era proprio raggiungere questa memoria comune al popolo, in modo da divenirne un fedele rappresentante (si pensi al quinto grado dell’iniziazione di Mitra, che, nel popolo dell’antica Persia, prende il nome di “Persiano”).
Possiamo dire quindi che l’uomo di allora aveva una costituzione tale da permettergli di entrare in contatto con il mondo superiore immergendosi nella propria struttura fisica, portando la coscienza nel proprio corpo, in realtà fuggendo da questo, in quanto illusorio, per ricongiungersi col proprio Sé, che era parimenti immanente al sangue-respiro e trascendente nel Brahman.
Le forze interiori che gli permettevano questo erano il Sentimento e la Volontà, da cui muovono le varie vie di devozione o piú propriamente ascetico-volitive della tradizione indú.
In tutto questo, il pensiero, la mente, era di ostacolo. In un dato periodo, le nascenti forze razionali erano sentite di intralcio al conseguimento della meditazione. La mente era vista come ingannevole ed illusoria, in quanto separativa e duale. Il cervello, con i suoi due emisferi, portava un pensiero dicotomico, e la logica era espressione di questa dicotomia, dovendo sempre leggere l’unica realtà attraverso opposti (caldo-freddo, umido-secco, bello-brutto ecc.).
Le antiche vie sapevano però, per esperienza diretta, come abbiamo detto, che non c’è dualità, e che la realtà è una. Nella percezione vivente del Tao tutti gli opposti concorrono all’unità. Questa unità però non era vista come trascendente, posta in un qualche “lassú”, ma era interna alla Natura. Altro indizio che Spirito e materia fossero percepiti come non separati.
È allora la mente, o il pensiero, che ce li presenta nella loro scissione. Nella tradizione qabbalistica questo è chiamata la “caduta”, per cui si perde, ad esempio, la colonna centrale dell’Albero della Vita, divenendo l’Albero della Conoscenza del Bene e del Male, appunto una categoria dualista. La prima e piú grave scissione della mente razionale consiste nella separazione Soggetto e Oggetto, che contrappone un Io ad un mondo e ci allontana dall’unità o “legame” che lo Yoga intendeva conseguire.
L’Atman è allora una scintilla del Braman, dal momento che il nostro Sé altro non è che il tessuto stesso del mondo e della Divinità. I Veda si esprimono con l’immagine di una goccia d’acqua nel mare, della stessa sostanza: ricongiunta con l’Oceano, non ha piú distinzione. La parola che Shankara utilizzò per descrivere questo stato fu Advaita: non-dualità.
Tutto ciò per dire che per l’uomo antico la mente va evitata, o superata, essendo il vero nemico, la fonte dei cinque veleni per il Buddhismo, la generatrice della maya, della illusione, che impediva di percepire la realtà. Il superamento del mentale era possibile tramite un fuggire via, o “tornare indietro” alle origini, immergendosi nelle forze che sorreggono le strutture corporee, come loro basali energie creatrici, superando l’illusorietà della Materia. Nel sangue, nel respiro, nel sistema metabolico, incontravano le forze strutturanti del Volere e del Sentire cosmici; nella mente, nel pensiero razionale, trovavano l’inciampo verso tale mèta, da superare.
Quindi anche le tecniche che sembrano implicare il mentale, facendo iniziale leva sull’immaginazione o sul pensiero, come il Raja Yoga, in realtà tendono a escluderlo, non volendolo afferrare nel suo stesso movimento, ma cercando di evaderlo, per tornare alle forme istintive e spontanee pre-mentali o sopra-mentali. Tecniche statiche, di immobilità di fronte ai moti della mente, che implicano un rifiuto di essa, non dinamiche, cioè facenti leva sul mentale.
Non hanno altro senso i Koan dello Zen giapponese, dove una affermazione paradossale detta dal Maestro serviva proprio a rendere consapevole il discepolo dell’ostacolo mentale e dell’inutilità della mente razionale, impotente ad afferrare il reale.
Cosí deve dominare la spontaneità (Wu Wei taoista) che il pensiero continuamente ostacola.
Questa è, sommariamente, la visione che l’uomo antico-orientale aveva di sé e del mondo. C’è però un punto di svolta, una Inversione delle Forze o un cambio di polarità nell’uomo. A partire dal VI sec. a.C. in Occidente si presenta un fenomeno unico che viene ricordato nei testi come la nascita della Filosofia. Per la prima volta il pensiero razionale diviene l’arma e lo strumento della verità e non il suo limite. La differenza con le filosofie orientali precedenti è proprio questa: il ruolo del mentale razionale nell’indagine della realtà. Perciò non si dovrebbe parlare propriamente di filosofie orientali pre-greche: perché per quanto si ravvisi un utilizzo della ragione in quei testi, non si fa fulcro sulla razionalità per afferrare la realtà, ma si utilizza il mentale per spiegare al lettore come eluderlo. Si usa la logica per denunciarne i limiti. Nella filosofia greca nasce invece il Concetto, come potere sintetico del pensiero.
Da parte dei primi filosofi della Magna Grecia si utilizza dapprima il pensiero per indagare l’origine di tutto, o Arché, quell’Origine che era precedentemente indagata con strumenti ascetici-operativi è ora cercata con l’intelletto, cioè con la mente. I filosofi pre-socratici identificano l’origine nell’Acqua, nell’Aria, nel Fuoco, e negli elementi della Natura.
Con Socrate si ha la svolta, in quanto l’origine, o Arché, di ogni cosa viene ravvisata nell’uomo stesso, come produttore del vero. È il Concetto che, partorito, genera la Verità. Per questo il pensiero di Socrate viene definito Intellettualismo Etico, proprio perché coinvolge le forze del mentale interne all’uomo. Socrate era però stato iniziato ai Misteri di Eleusi.
L’idea che l’uomo è l’artefice della verità sarà ripresa dai Sofisti, che la porteranno alle estreme conseguenze, fino al soggettivismo piú relativizzante, dove ognuno è chiuso nella sua verità, di fatto dichiarando l’inesistenza del falso. Protagora, un sofista, diceva: «L’uomo è la misura di tutte le cose», proprio perché riteneva che ogni fatto da noi immaginato fuori di noi fosse in realtà percepito grazie alla coscienza pensante, e che il concetto stesso di “misura” fosse interno al pensiero, e senza di esso nulla avrebbe il significato che gli attribuiamo. Il pensiero è latore di significazione, conferisce senso, non si limita a riconoscerlo.
Le nascenti forze razionali iniziano nel periodo che astrologicamente corrisponde alla costellazione dell’Ariete, che rappresenta il capo umano, e con i giri delle sue corna richiama le volute cerebrali, indicando una caduta dello spirituale nella testa, di contro alla ormai passata epoca del Toro, esprimente invece la vitalità immediata, naturale e spontanea del corpo e connesso anche alle forze della Parola Cosmica, che si esprime direttamente nella Natura.
L’epoca dell’Ariete è l’inizio del pensiero razionale: la caduta nella cerebralità. Da quel momento immergersi nel corpo non è piú ritrovare lo Spirito, perché la appena nata razionalità ha fatto sí che l’elemento spirituale coincidesse col mentale, non essendo piú oltre questo ma interno ad esso, in questo modo estromettendo la Forza dal circuito corporeo, o meglio, essendo ancora la Forza alla base dei processi fisiologici ma non piú raggiungibile tramite questi, per l’impossibilità delle forze dell’anima di riconnettersi allo spirituale con l’immersione nel sangue o nel respiro, essendosi lo Spirito ritirato da questi e portato, fruibile, solo al livello del mentale: proprio là dove tutti avevano appreso non vi potesse essere.
La sfida del mondo moderno è stata proprio dover avvertire una perdita del mondo spirituale, con una conseguente immersione nel mondo dei sensi. L’Umanesimo nel XV sec. indica proprio il passaggio ad una visione in cui l’individuo è sempre piú forte e gli antichi sistemi religiosi vengono messi in discussione. Nessuno percepisce piú i mondi superiori, come invece avveniva anticamente.
Tuttavia ciò va inteso in modo molto graduale ed eterogeneo, come i vagoni di un treno, che procedono tutti in una stessa direzione ma a velocità diverse, cosí che qualcosa resti indietro mentre la testa guida. Cosí l’Oriente ebbe un ruolo fondamentale nella guida della spiritualità antica. La costituzione dell’uomo orientale, diversa nell’espressione dei rapporti interiori e nella potenza dell’immediatezza di tale espressione nella compagine del suo essere, fu d’aiuto per l’elaborazione dei sistemi spirituali e delle tecniche del passato pre-cristiano. Con l’inversione di polarità, preparata dalla Filosofia greca e manifestata pienamente in seguito alla manifestazione terrena del Cristo, l’Oriente ha proseguito una via autonoma, che andò lentamente a staccarsi dalla linea evolutiva che la Terra stava prendendo, con qualche eccezione, ravvisabile nella corrente del Logos, che silenziosamente proseguí in un filone aureo di alcune scuole (ad esempio lo Shivaismo del Kashmir) come negli insegnamenti di alcuni isolati asceti adamantini (si pensi al Mahamudra di Tilopa). Il senso di questi insegnamenti era appunto traghettare l’Oriente verso l’impulso che non aveva accolto, e che l’Occidente possedeva non cosciente. Quell’impulso è il Logos, cioè la Forza che discese sulla Terra, come nel mentale umano, e che sempre si dona nel pensare, se volitivamente ripercorso.
L’Oriente e l’Occidente perciò ebbero evoluzioni a velocità diverse, ed oggi l’uomo orientale possiede quasi sempre una costituzione spirituale diversa. Questo va inteso in due sensi: nel primo che l’elemento razionale del Concetto non è stato accolto, e allora abbiamo l’esumazione del cadavere di antichissime pratiche che continuano ad essere applicate pedissequamente, senza tener conto delle trasformazioni epocali avvenute. Il secondo nel senso di un’accettazione dell’elemento concettuale con l’inevitabile perdita concreta della Tradizione d’Oriente.
Quindi l’orientale, sia esso cinese, indiano, giapponese o altro, o si è occidentalizzato, o ha mantenuto il rapporto antico, rimanendo avvinto ad un passato che non esiste piú. La costituzione interiore accennata è complessa, ma può essere intuita nelle leggende cinesi, dove si evince una organizzazione del sistema della testa aperta al Cielo, e non chiusa nel cervello, come nell’occidentale.
È importante pensare alla nascita del Concetto come una Potenza che è entrata nell’umano, non solo come un mero contenuto di pensiero. L’uomo non parla piú di grandi immaginazioni cosmiche come se ne trova nella Mitologia, non vede il mondo come prima, perde il livello della spiritualità, che da quel momento poté pensare, ma non piú sperimentare, a parte chi fosse addestrato a questo. Da allora non vi è piú lo Spirito, ma il ricordo di esso.
A dire il vero, il ricordo dello Spirito era appannaggio delle primissime vie religiose, avendo esse già perduto la percezione diretta. In via istintiva però gli uomini antichi sapevano collegare fatti del mondo a realtà superiori. Fino a tutto il secolo XIX troviamo testi che sembrano echeggiare il linguaggio antico, ed in effetti fino ad allora, si pensi all’Alchimia o alla Magia, vi sono stati insegnamenti occulti. La funzione di quegli insegnamenti è però ormai esaurita, perché non possono piú rispondere all’assunto che li giustifichi, in quanto l’antica Tradizione alla quale fanno appello non è ripercorribile con il pensiero odierno, con il nostro pensare razionale, cosí come oggi lo sperimentiamo. In questo senso gli studiosi parlano del pensiero antico come pre-logico, non-duale, pre-razionale ecc. e associano la caratteristica dell’Amore (come in Paracelso) a questo pensare antico.
Inoltre, è illusorio credere che l’Analogia sia un modo di superare il mentale, o tornare al pre-logico, essendo sempre la mente cerebrale a fondere contrari o mescolare categorie, credendo di superare la dualità ma utilizzando questa in alambicchi intellettuali spesso piú complicati di quelli utilizzati dai veri alchimisti. Il problema è che tali studiosi non si avvedono dell’impossibilità di accedere a quel pensiero pre-logico, essendo loro caduti nella Logica ed essendo altrettanto impossibile eludere la logica per tornare al modo di percepire antico, essendo l’antico appunto pre-logico.
Con la struttura interiore dell’occidentale di oggi non è possibile riprodurre la percezione che aveva l’uomo di allora, né si può comprendere cosa intendesse senza risvegliare lo stesso potere di visione. Quel potere di visione però all’antico era donato spontaneamente, poiché non era ancora immerso nel mentale-cerebrale; l’uomo odierno deve conquistarlo, ma come può farlo per mezzo delle stesse tecniche antiche che presuppongono già quel potere di visione che s’intende proprio cosí conseguire?
Allo stesso modo vanno intese tutte le dottrine tratte dalla Sapienza Antica, che, come abbiamo detto, poggiava sull’immediatezza del corpo, che era tramite del Cosmo. L’Astrologia lo testimonia, essendo proprio la traccia di quella antica percezione, dove ogni elemento fisico, ogni organo o funzione dell’uomo, è legata ad una potenza cosmica, ravvisabile nella simbolica dello Zodiaco e dei Pianeti.
Cosa l’uomo antico percepisse o sentisse quando parlava di Marte o Mercurio non possiamo comunemente piú saperlo, perché ciò che adesso sentiamo in rapporto a quei nomi è del tutto concettualizzato, ovvero il sentimento, essendo riflesso dal sistema dei nervi, ci rimanda delle sensazioni che non sono piú oggettivamente connesse a quelle energie. Il fatto che il sentire risuoni a vuoto nella soggettività umana dipende dall’adesione del pensare al cervello.
Dal momento che l’encefalo ingabbia il pensare, taglia fuori il sentire dalla sua radice cosmica o spirituale, di modo che abbiamo il sentire solo riflesso dal sistema nervoso, e cioè solo come sensazione soggettiva, perciò incapace di connessione reale con gli Archetipi sottesi ai nomi astrologici, che perciò divengono poco piú che nomi. La riprova di questi fatti è che l’uomo odierno non comprende piú l’antica Astrologia, limitandosi a un intellettuale gioco di corrispondenze, in cui si diventa piú o meno sagaci nel ravvisare nelle persone determinati segni caratteriali, che saranno tout court associati a certi modelli interpretativi, del tutto concettuali (cosa invero mai avvenuta nell’astrologia antica) con relative nomenclature zodiacali e planetarie.
Diverso sarebbe percepire la sfera del mondo superiore da cui emanano quelle entità viventi, che linguisticamente hanno una lontana eco nei nomi Giove, Bilancia, Vergine ecc. Per cui si cercano spiegazioni razionali alle confusioni astrologiche, come l’inversione Venere-Mercurio, perché è perduto il rapporto vivo con le entità di quelle sfere. Non deve meravigliare che un Dante Alighieri ancora collocasse giustamente gli Arcangeli sul primo astro dopo la Terra, fatta eccezione per la Luna, mentre noi chiamiamo Venere quell’astro. Se non abbiamo un’intima relazione vitale con i Principati non potremo avvertire che la loro azione si svolge sul pianeta piú vicino al Sole, e questo perché abbiamo una nozione del tutto astratta di “pianeta”, quando dietro al termine Luna e a quello che per molti è un “satellite” sta una sinfonia pulsante di enti spirituali reali, che poco a nulla hanno a che fare con ciò che si vede con il telescopio. La percezione diretta è andata perduta: va ritrovata, ma non va ricercata nel passato. Si può ottenere una chiara idea della realtà di questa perdita sentendo parlare le principali “autorità” in materia, che dichiarano esse stesse, quando sono oneste, di seguire un modello sperimentale, di cui non hanno piú le chiavi, di cui non intendono piú i codici, ma che mettono alla prova, empiricamente, sulle persone.
L’Astrologia, come suggerisce il nome, è connessa con il mondo spirituale degli astri, e perciò astrale, che corrisponde ad una parte della costituzione umana che non è soggetta a libertà. La parte interiore dell’uomo non libera deve reagire secondo impulsi e passioni, come espressione animale dell’uomo. Chiamato kama-rupa nell’induismo, proprio perché kama significa desiderio-istinto, la tradizione occidentale lo ha chiamato corpo astrale.
Tale corpo astrale andrebbe a sua volta percepito, o quantomeno tale concetto andrebbe avvivato con un pensare desto, perché non ritorni mero nome, tuttavia, a fini esplicativi, si può dire che l’aderire di questa parte al sistema nervoso produce la natura animale nell’uomo, ovvero l’uomo è un animale, non libero ma istintivo, quando vive nel suo kama-rupa.
Esso è tessuto nella zona spirituale corrispondente, da cui proviene la sua sostanza, che gli antichi non a caso associarono agli animali. La Via degli Animali, o Zoo-diakos, è l’espressione del cammino che ha compiuto l’uomo, espellendo da sé le forme dell’animalità fino alla sua forma attuale. Che relazione vi sia tra queste forme animali e la realtà dell’evoluzione umana non può essere piú compreso, se non rivelato da un altissimo Iniziato, che parimenti è in grado di percepire quelle realtà e di spiegarle all’uomo di oggi, cioè adattarle al livello del mentale concettuale. Questo in verità è avvenuto, ma tale insegnamento è stato ridotto a cultura esoterica, non riconoscendo il reale impulso, che è il medesimo che porterebbe lo sperimentatore moderno a ritrovare le chiavi della percezione diretta: non piú l’antica, ma la nuova.
Nuova perché può oggi agire un elemento che anticamente non agiva, ovvero l’Io dell’uomo, potendosi leggere la storia umana come una emancipazione dagli Dei, verso la libertà individuale. L’indipendenza conseguita, anche nella forma negativa della perdita dello spirituale, è però un fattore di novità che l’antica astrologia non poteva avere. La ferrea determinazione degli astri che governano il destino della persona non è piú cosí ferrea, perché la Carta Natale è una lettura del corpo astrale, cioè della zona interiore sottoposta alle leggi animali, fintanto che l’Io non la liberi, idea additata in certe figure zodiacali umanizzate. Che lo Zodiaco indichi un compito di umanizzazione della propria animalità si può leggere nell’immaginazione del Sagittario, che punta la volontà verso un Sé che ancora non è in lui, ma che è prefigurato nella testa, la sede del pensare, che è compiutamente umana.
L’umanizzazione dell’animalità è la via nuova, che è il superamento dello Zodiaco, poiché rappresenta l’uscita dal campo delle leggi astrali, per entrare nel dominio di queste, da uno spazio di libertà superiore, dovuto alle conquistate forze dell’Io. Questo Io liberatore è stato donato ed è ritrovabile nel tessuto stesso della coscienza, non fuori di essa. Perciò non si deve escludere la mente, ma possederne l’intima struttura, averne la sostanza come elemento di percezione. Questo non può essere intuito grazie alla conoscenza del passato. Nel passato nulla ci può aiutare a ritrovare la strada verso lo Spirito.
C’è infatti un filone di Iniziati che in ogni tempo ha aiutato a riconnettersi con la tradizione vivente e perenne, che non è il ricordo morto del passato, ma la connessione reale con lo Spirito. Questa tradizione non è per questo un contenuto, non può esserlo, non consta di nozioni da imparare, ma è un metodo che consente alle nuove forze dell’individualità di ritrovare la strada verso le verità alluse dagli antichi insegnamenti.
Non è nei testi che si trova la verità, come indica San Paolo: «La lettera uccide, lo Spirito vivifica!».
La via percorribile dall’uomo odierno, qualora la sua costituzione interiore sia sana ed in linea con i tempi, deve passare per la resurrezione delle forze latenti del pensiero ordinario, come ultima ravvisabile manifestazione del Logos spirituale. Ogni via che escluda o minimizzi o eluda questo elemento è destinata a portare l’uomo alla regressione, facendolo innamorare di impulsi ormai spenti e ammalandolo della nostalgia verso un tempo che non può piú aiutare.
Dopo queste considerazioni è piú che normale che il lettore si domandi quale sia, dal punto di vista operativo, la strada, o le tecniche, oggi attuali e valide al conseguimento della perduta percezione spirituale. Questo però al momento non lo diciamo, avendo avuto cura, per adesso, di chiarire un poco i nessi tra l’inattualità delle vie antiche e tradizionali e la possibilità dell’uomo di questo tempo di ritrovare realmente lo Spirito.
Emanuele Tartarini