Dopo essermi preso la libertà di parlare della natura e dell’atteggiamento della Scienza dello Spirito in generale nelle prime tre conferenze di questa serie, nelle discussioni che seguono vorrei discutere di argomenti specifici di questa scienza spirituale; faccio notare fin dall’inizio che questa conferenza di oggi e quella della prossima settimana, dal titolo “Il significato dell’immortalità dell’anima umana”, che insieme formano un tutto, tratteranno le questioni della vita dell’anima umana che sono connesse con la morte e con quello che per l’essere umano deriva da essa, e che in sintesi vorrei formulare con la frase: il significato dell’immortalità dell’essere umano.
Deve subito essere rilevato che, in generale, alla nostra epoca non è facile parlare del tema di questa sera, perché ai giorni nostri ci sono molti ostacoli esteriori e interiori alla comprensione di ciò che è connesso con la parola “morte”. Per evitare che le riflessioni di questa sera ci inducano a dei malintesi, è soprattutto necessario sottolineare che la Scienza dello Spirito non ha le stesse opportunità di molti altri campi scientifici contemporanei. La Scienza dello Spirito deve analizzare le tematiche di cui parla in senso stretto, considerandole come logicamente indipendenti da quelle vicine. Questo va detto perché le discussioni che si terranno oggi e la prossima volta hanno un significato solo per l’esperienza umana, e perché la scienza piú naturalistica del presente sarà molto incline a estendere ciò che si intende per morte a tutto ciò che vive. Ora, è proprio attraverso la Scienza dello Spirito che si dimostra che ciò che è esteriormente uguale per le diverse specie di esseri può essere interiormente molto diverso; nel corso delle conferenze di questo inverno ci sarà probabilmente anche l’occasione di richiamare l’attenzione su ciò che la morte significa nel regno vegetale e su ciò che significa nel regno animale. In questa riflessione c’è inizialmente solo l’intenzione di parlare della morte in relazione all’uomo. Ma quando si tratta di discutere il nostro tema dal punto di vista delle scienze umane, ci troviamo di fronte anche ad altri ostacoli. Senza entrare in una caratterizzazione generale, vorrei mostrare proprio dal punto di vista della Scienza dello Spirito come questi ostacoli siano costituiti da fattori specifici.
Potremmo dire che questi ostacoli risiedono in una paura di fronte al problema della morte, che non emerge chiaramente nella coscienza umana. Basta vedere come questa paura si manifesti proprio tra gli spiriti piú illuminati del giorno d’oggi. Si potrebbero menzionare molte, molte delle personalità piú illuminate dei giorni nostri: si troverebbe la stessa cosa. Oggi voglio farlo nei confronti del grande studioso di religione e orientalista Max Müller. Se si guarda qua e là nei suoi scritti a ciò che ha detto sulla morte, si noterà soprattutto in lui ciò che incontriamo in molte personalità contemporanee: la reticenza anche solo a pensare alla possibilità di poter indagare qualcosa sulla morte. Ciò che ha portato l’eminente Max Müller a dire: «Tutti i pensieri umani che vagano oltre la vita dell’uomo, situata tra la nascita e la morte, anche se espressi da un poeta come Dante nella Divina Commedia, tutti questi pensieri non sono altro che fantasia infantile».
«Sí – dice Max Müller – se un angelo scendesse sulla Terra dall’alto dei cieli e volesse dire all’uomo qualcosa sulle condizioni della vita umana nel mondo dopo la morte, allora l’uomo capirebbe queste affermazioni dell’angelo come un bambino appena nato capirebbe se gli si facesse una lezione in qualsiasi lingua umana sulle condizioni della vita presente».
Per questo motivo, anche tra le menti piú illuminate del giorno d’oggi c’è una certa riluttanza a parlare di queste cose. In questo, Max Müller non è uno spirito negativo rispetto alle tematiche dell’immortalità umana; è di per sé impregnato di una certa sicurezza nella fede nella vita dopo la morte. Solo non vuole concedere all’uomo la possibilità di conoscere ciò che si trova oltre la morte. In un certo senso, egli vuole sottolineare ancora una volta che l’uomo non solo non può sapere nulla dei regni che si trovano oltre la morte, ma non deve nemmeno saperlo.
Si potrebbe dire in modo sintomatico che se questo fatto mostra quali sono le difficoltà presenti al giorno d’oggi riguardo al nostro argomento, si può anche dire che il modo di pensare scientifico del giorno d’oggi, piú volte menzionato nelle lezioni precedenti, e che ha raggiunto una grandezza cosí significativa, distoglie l’uomo dal pensare di acquisire una qualsiasi conoscenza su ciò che si trova oltre la morte. Nelle tre conferenze precedenti è stato parlato con tanto apprezzamento di questo modo di pensare scientifico e con tanta considerazione per ciò che ha portato alla luce – se solo rimane nei suoi limiti – che non sarò frainteso se oggi introdurrò brevemente il motivo per cui, con il modo di pensare scientifico, è difficile ammettere la possibilità di penetrare nel regno oltre la morte. Qual è la base di questo modo di pensare scientifico? Come è maturato? È diventato cosí grande stabilendo il principio di osservazione da parte dei sensi umani e dell’applicazione dell’attività di comprensione dell’intelletto a questa osservazione sensoriale nel senso piú stretto del termine. Ecco come è diventato cosí grande…
Ora è facile capire una cosa. Se si fa del principio dell’osservazione dei sensi il principio della ricerca di tutto ciò che l’intelletto può ottenere mediante essa, se questo diventa il principio esclusivo della ricerca, allora si vuole senza dubbio ricercare ciò che l’essere umano percepisce con la sua formazione corporea sviluppata con la sua nascita nella vita fisica. Ciò che si potrebbe definire “immortale”, che ha una vita spirituale al di là della nascita, del concepimento e della morte, non può ovviamente rientrare nell’ambito dell’osservazione sensoriale e della ricerca della comprensione che si lega ai sensi. Con il suo corpo l’uomo riceve certamente nel suo essere ciò che organizza i suoi sensi e ciò che organizza l’intelletto che si lega ai sensi. Ciò che ricerca, nel senso piú eminente nel modo scientifico naturale del nostro tempo, l’uomo lo acquista senza dubbio nel campo della temporalità; appartiene all’area in cui il nostro essere si dissolve quando attraversiamo la porta della morte.
Quindi, la scienza naturale nel senso del presente lavora senza dubbio con strumenti che, cosí come si formano con la nascita, scompaiono con la morte. E come non riconoscere facilmente che, se si fa del lavoro con questi strumenti, secondo il principio esclusivo della ricerca, non si può ricercare ciò che questi strumenti non possono certo raggiungere. Per questo motivo non c’è nulla di piú sciocco che supporre che con i mezzi di ricerca della scienza naturale si riesca a penetrare nelle misteriose regioni che si trovano oltre la morte. Per questo è vero che non sono state le peggiori menti del XIX secolo a negare la vita oltre la morte dal punto di vista del pensiero scientifico. In verità, non erano i peggiori pensatori! Infatti, tra i tanti elogi che si devono fare al modo di pensare scientifico, cosí come si è sviluppato da tre, quattro secoli e come domina oggi l’educazione e il pensiero generali in misura molto piú estesa di quanto alcuni vogliano ammettere, tra tutti gli elogi che si devono fare a questo modo di pensare e di fare ricerca scientifica, si ha senza dubbio anche il diritto di dire: questo modo di pensare scientifico ha educato l’uomo a non lasciare che i suoi pregiudizi, i suoi desideri, ciò che vive nella sua soggettività, abbiano voce in capitolo quando si tratta di determinare scientificamente qualcosa. Si ottiene proprio quel grande rispetto che si può avere per il modo di pensare scientifico quando si vedono davvero i suoi sforzi e li si affronta con esso nella sperimentazione: procedere nell’osservazione in modo rigorosamente oggettivo, in modo tale che tutto ciò che l’uomo vorrebbe che fosse, che venisse dal soggetto umano, non abbia davvero alcun ruolo nella ricerca. E come dovrebbe essere altrimenti nei confronti della questione della morte? Ma non è forse sempre accaduto che nelle risposte che l’uomo si dà su ciò che dura oltre la morte, i suoi affetti, i suoi desideri e le sue volontà giocano il ruolo piú importante? Perdendo l’abitudine di lasciare che queste cose avessero un ruolo nella ricerca scientifica, furono proprio le personalità non eticamente peggiori del XIX secolo che arrivarono a rifiutare la vita dopo la morte.
Se si cercano le ragioni per cui questi spiriti sono arrivati a rifiutare la vita dopo la morte, si scopre che si trattava di motivazioni fondamentalmente nobili. Questo deve essere ammesso senza ulteriori indugi. Molti pensatori materialisti del secolo scorso hanno detto che fa parte dell’egoismo umano, degli impulsi dell’egoismo umano, desiderare che il proprio piccolo Io, con tutto ciò che si sperimenta come essere umano tra la nascita e la morte, arrivi oltre la morte; secondo molte menti materialiste, soprattutto di valore morale, per l’essere umano è piú nobile che ciò per cui ha lavorato, ciò che ha acquisito tra la nascita e la morte, venga assorbito nella vita umana generale, nel flusso del divenire storico e si doni al tutto, di deporre nella tomba ciò che ha portato il proprio ego, ma di lasciare che ciò che si è vissuto spiritualmente fluisca nella vita umana generale sapendo che questo Io non si conserva, ma si sacrifica sull’altare dell’umanità generale. Alcune persone non proprio moralmente profonde e scientificamente preparate hanno visto cosa può essere detto sulla morte dell’uomo in questo sacrificio, in questa rinuncia a ciò che si è acquisito nella vita.
Ora, ci sono certamente molte cose all’interno della vita umana, degli affetti, dei desideri, che si ribellano a un simile passaggio nel flusso generale dell’umanità. In una risposta veramente esplicita alla nostra domanda, nulla di tutto questo dovrebbe avere un ruolo. Ma c’è una cosa che può indurre l’uomo, se non a una risposta, almeno a un corretto interrogarsi sulla morte e sul passaggio dell’essere umano attraverso questa morte. Anche se ci si astiene da tutti i desideri, da tutte le paure che l’uomo ha nei confronti della morte, se ci si astiene da tutto ciò che si vorrebbe avere come risposta sull’aldilà e se si guarda effettivamente solo a ciò che è giustificato guardare, cioè all’economia dell’universo – e all’inizio voglio sollevare solo una domanda – allora la risposta è la seguente: se guardiamo a ciò che l’uomo acquisisce interiormente nella vita come il piú prezioso, il piú significativo, ciò che nasce nell’anima come il nostro bene piú intimo e come bene in relazione a ciò che possiamo fare per noi stessi e per l’ambiente circostante per amore, devozione e altri impulsi e ci chiediamo: qual è la cosa piú preziosa? Questa è qualcosa di cosí intimo, di cosí individuale per ogni anima umana, che, a causa del suo carattere intimo, non può essere abbandonata alla corrente dell’esistenza generale.
In verità, per quanto possiamo dare (dare in modo che ciò che abbiamo da dare venga ulteriormente elaborato nel flusso generale dell’esistenza) ciò che è piú prezioso è cosí strettamente connesso con la nostra anima, che non lo daremmo, che dovrebbe necessariamente sprofondare nella tomba generale del nulla, se non passassimo attraverso la porta della morte in quanto “qualcosa”. Infatti, se la vita umana finisse con la morte, ciò che andrebbe indubbiamente perso per l’economia dell’universo sarebbe ciò che viene guadagnato e lavorato dall’anima umana come la cosa piú preziosa. Ma questo contraddirebbe ciò di cui siamo altrimenti consapevoli ovunque nell’universo. In nessun luogo dell’universo ci accorgiamo che delle forze si sviluppano fino ad un’altezza, fino alla massima altezza alla quale possono svilupparsi e poi si dissolvono nel nulla; ma ovunque le forze si generano solo in modo tale da trasformarsi, da continuare a lavorare nel mondo. Sarebbe dunque solo l’essere umano a essere chiamato a elaborare qualcosa che non verrebbe ulteriormente elaborato nell’universo, ma dovrebbe dissolversi nel nulla?
Quello che esporrò non si tratta lontanamente di una risposta, ma piuttosto una domanda posta da un punto di vista completamente indipendente da ciò che l’uomo vorrebbe e da ciò che sono i suoi desideri umani. La domanda da porsi è: nel senso di un’economia generale del mondo, che ovunque ci si presenta cosí chiaramente come esempio di un’osservazione generale della natura, come sarebbe possibile che ciò che l’uomo elabora nella sua anima nella sua vita tra la nascita e la morte debba sprofondare nel nulla? Ma per quanto riguarda questa domanda questo è il massimo che possiamo fare con le risorse di ricerca esteriore. Perché indubbiamente ciò che può essere definito immortale nell’uomo deve essere ricercato di là dall’esperienza esteriore. Il vissuto esteriore si manifesta a noi proprio attraverso i sensi, e una minima esperienza mostra che tutto ciò che può sorgere attraverso l’intelletto appartiene anch’esso al vissuto esteriore e che tutto questo, in quanto si pone nella vita esteriore, può svilupparsi solo all’interno della corporeità che ci viene data con la nascita o il concepimento e che si dissolve con la morte. In tutto ciò che possiamo disporre attraverso la nostra fisicità, non ci sono dati gli strumenti che rendono possibile la riflessione sul problema della morte.
Nelle lezioni introduttive abbiamo già parlato del fatto che attraverso i metodi scientifico-spirituali, l’uomo è effettivamente in grado di sviluppare la propria anima in modo tale da staccarsi dall’esperienza corporea grazie a una chimica spirituale, in modo tale da raggiungere una posizione nella vita in cui può esprimere non solo sotto forma di frase, ma come esperienza interiore immediata: «So cosa significa sviluppare in me un’attività animico-spirituale che non ha come strumento il corpo». Possiamo sperare – come del resto dovrebbe essere se si volesse indagare sulla morte – che si possa dire qualcosa sulla morte attraverso qualcosa di diverso da un’indagine con i mezzi dell’esperienza esteriore, cioè attraverso tali poteri di conoscenza risvegliati nel modo descritto? Soprattutto se si pensa in modo scientifico, si deve dire: ciò che deve essere investigato deve essere sperimentato. Ma con nessuno strumento esterno si può sperimentare la morte, che ci toglie appunto gli strumenti esterni. Quindi uno studio sulla morte può esistere solo a condizione che tale indagine sia possibile con strumenti che non si trovino all’interno della vita corporea.
È stato sottolineato il fatto che attraverso certi esercizi intimi dell’anima l’uomo è in grado di ottenere un tale rafforzamento, un tale rinvigorimento della sua vita animica, che per lui si verifica qualcosa come un distacco dell’anima spirituale dal fisico, in modo simile al distacco dell’ossigeno dall’idrogeno nella decomposizione dell’acqua. Cosí, attraverso gli esercizi indicati nelle conferenze precedenti, l’anima spirituale dell’essere umano si distacca dal fisico e l’essere umano viene portato a sperimentare in seno all’animico-spirituale. Quando l’uomo vive interiormente in questo modo nell’anima spirituale, quando ha una vita svincolata dal corpo ed è arrivato a sentire il proprio corpo come un oggetto esterno a sé, allora si rende conto di ciò che ha significato per i ricercatori spirituali di tutti i tempi l’aver ravvicinato due esperienze: l’esperienza della cosiddetta Iniziazione e l’esperienza della Morte.
Dobbiamo solo constatare che la cosiddetta ricerca spirituale è esistita in tutti i tempi. La ricerca spirituale è stata condotta già nei tempi piú antichi dell’umanità, dello sviluppo storico umano sulla Terra, nei cosiddetti Misteri. Se volete saperne di piú, potete leggere nel mio libro Il cristianesimo quale fatto mistico (O.O. N° 8) ciò che viene detto sui Misteri dell’antichità. Solo che a quel tempo la ricerca spirituale non poteva essere condotta nel senso del nostro tempo. Le persone cambiano notevolmente nel corso dello sviluppo storico; e prima di approfondire questo punto, vorrei sottolineare che nei tempi antichi dell’evoluzione umana si dovevano sviluppare nell’anima forze molto diverse, affinché l’uomo, in contesti che erano per cosí dire intermedi tra arte, scienza e religione, fosse portato al punto in cui, attraverso lo sviluppo delle sue forze animiche, gli si presentasse il mondo spirituale nella sua essenza.
Visto che negli ultimi secoli le anime sono state educate alla scienza naturale, in loro devono adesso essere sviluppate altre forze rispetto a quelle di un tempo. Perciò la Scienza dello Spirito nel nostro tempo, pur rappresentando una continuazione della scienza naturale, deve essere anche qualcosa di diverso da ciò che era nell’antichità. Ma ha sempre procurato alle anime queste due esperienze: lo sviluppo delle facoltà dell’anima, che permettono di sperimentare il mondo spirituale indipendentemente da quello fisico e l’esperienza della morte. Nei vari scritti si trova ripetutamente espresso che nei Misteri l’essere umano è stato portato a sperimentare il mondo spirituale, i suoi processi e i suoi esseri, si è avvicinato alla “porta della morte”; cioè che nelle sue esperienze esso sperimenta qualcosa di cui sa immediatamente che assomiglia all’esperienza della morte, o che è qualcosa che permette di sapere, se lo si riesce a riconoscere, qual è il senso della morte. Colui che viveva l’Iniziazione sapeva di dover arrivare al limite della morte. È sempre stato detto cosí.
Nel mio scritto Un Via per l’Uomo alla conoscenza di Se stesso ho dovuto fare riferimento a un’esperienza, di cui ho già parlato qui, alla quale l’uomo giunge quando lascia che ciò che viene chiamato meditazione, concentrazione e cosí via agisca su di lui in anni di pratica. Ne ho parlato in esso, dicendo che quando l’uomo intraprende quello sviluppo dell’anima che lo porta per un breve periodo a uscire dal corpo e a vivere un’esperienza senza corpo, allora egli arriva a un momento infinitamente significativo, a un momento che si rivela sconvolgente per l’anima quando si verifica per la prima volta. Per il ricercatore spirituale deve poi ripetersi spesso, ma quando si verifica per la prima volta, è un’esperienza che colpisce profondamente la vita dell’anima.
Quando l’attività dell’anima, che nella vita ordinaria si realizza con attenzione e devozione, viene aumentata in misura illimitata, allora i suoi poteri, che sono indipendenti dal corpo, si rafforzano in modo tale che si produce un momento molto particolare nella vita interiore. Se si accede a tale esperienza attraverso uno sviluppo appropriato, come descritto nel libro L’Iniziazione – Come si consegue la conoscenza dei mondi superiori?, essa può verificarsi nel bel mezzo del trambusto della vita quotidiana, ma non deve allora disturbarci e la normale vita del giorno può continuare, oppure questo momento può verificarsi nel profondo dell’esperienza notturna, nel sonno. Improvvisamente, o durante la vita quotidiana, si sente un’ispirazione o un’intuizione affluire nell’esistenza generale. Vorrei descrivervi precisamente quello che si vive. Negli esseri umani può essere cento e cento volte diverso, ma avrà sempre qualcosa di quello che ora vorrei descrivere. Cercherò di esprimerlo a parole, ma nel farlo sono consapevole che può essere espresso solo in modo imperfetto con parole prese in prestito dai sensi.
Ci si sente come se si fosse svegliati nel bel mezzo del sonno e si ha la sensazione di sentir dire: cosa mi sta succedendo? È come se il fulmine entrasse nello spazio in cui io stesso mi trovo e come se rompesse il ricettacolo della corporeità esteriore. In un tale momento di elevata consapevolezza, non solo si sente qualcosa che si insinua in noi e che ci annienta in relazione alla corporeità esterna, ma ci si sente proprio permeati e attraversati da questa cosa che distrugge la corporeità esterna. Si sente che ci si può mantenere in questa esperienza solo attraverso le forze animiche interiori rafforzate e ci si dice: ora so tutto quello che può essere presente nel mondo esterno per staccare da me stesso la corporeità in cui sono imprigionato. Da questo momento in poi si sa, attraverso ciò che si è sperimentato in questo modo, che nell’essere umano c’è un’anima spirituale che è in ogni circostanza indipendente dalla corporeità dell’essere umano, per il quale questa corporeità è sviluppata come un recipiente e uno strumento esterno.
Da quel momento in poi, si ha un quadro di cos’è la morte. Certo, all’inizio è una conoscenza, un’esperienza indeterminata; ma essa dà all’anima quell’atteggiamento interiore, quel tono di sentimento, quell’intima percezione di una realtà spirituale, grazie alla quale si diventa capaci di impegnarsi in ciò che permette di penetrare nelle regioni della vita spirituale. È un’esperienza intima di cui ho parlato, ma è un’esperienza di tipo umano piuttosto generale, universale, perché è cosí seria che allontana da ciò che è legato in senso stretto ai desideri e alle volontà personali e fa conoscere ciò che in realtà sta sempre dietro alla vita. E rivela molto chiaramente un’altra cosa: la differenza tra il raggiungimento della conoscenza e della cognizione scientifico-spirituale rispetto a tutte le altre conoscenze e cognizioni.
La scienza esteriore, la conoscenza esteriore, si ottengono imparando questo o quello, impegnandosi in questa o quella ricerca; allora solo si è raggiunto ciò che si desidera imparare. Quello che si vuol sapere si acquisisce lavorando. Questo non è il caso per la conoscenza della Scienza dello Spirito. Ma certo non è il caso di dover credere qualsiasi cosa come: «Sí, la conoscenza scientifico-spirituale si raggiunge in modo tale che, una volta raggiunta l’Illuminazione, l’anima vede l’intero regno dello Spirito». È cosí che alcuni immaginano che la conoscenza della Scienza dello Spirito si raggiunga senza alcuno sforzo. Ma non è cosí. E se qualcuno dicesse: «Nell’ambito della ricerca spirituale si dicono molte cose che lo storico può portare alla luce dai documenti e dalle fonti solo con tutto lo sforzo di un lavoro di anni, e poi arriva il ricercatore scientifico-spirituale e dice qualcosa senza sospettare come una cosa del genere sia possibile dirla solamente dopo anni di ricerca». Allora, a questa presunzione bisogna rispondere: «Il ricercatore spirituale non solo deve fare il lavoro necessario in anni di ricerca e sperimentazione, ma deve anche fare tutto il lavoro necessario su se stesso per anni».
Ma questo lavoro ha, in un certo senso, un obiettivo diverso, un carattere diverso. Ciò che si può fare come ricercatore spirituale non è in realtà ciò che porta alla conoscenza, ma è solo la sua preparazione. E tutto ciò che viene detto nel mio scritto L’Iniziazione – Come si consegue la conoscenza dei mondi superiori? è solo una descrizione di ciò che l’anima deve fare per prepararsi al momento in cui il mondo spirituale le verrà rivelato. La preparazione, non l’elaborazione come nella scienza ufficiale, è ciò che il ricercatore spirituale deve fare per prima cosa. Tuttavia, si impara a riconoscerlo anche quando si riesce a collegare un significato alle parole: “Io vivo me stesso come essere animico-spirituale all’interno del mondo spirituale”.
Allora si associa un significato a qualcos’altro, cioè a ciò che non sembra cosí importante come la questione della morte perché la coscienza ordinaria vi è abituata e che irrompe ogni giorno nella vita: il sonno. Si impara a riconoscere cos’è il sonno e come l’essere umano, in quanto parte animico-spirituale, esca dall’essere fisico-corporeo ogni volta che si addormenta, proprio come nella decomposizione chimica dell’acqua l’idrogeno esce dall’ossigeno, solo che l’essere umano, quando è fuori dalla corporeità durante il sonno, non è abbastanza rafforzato per la normale vita dell’anima per mantenere la coscienza. Nella vita normale, l’uomo è in grado di mantenere la sua coscienza solo quando si immerge con la sua anima spirituale nel corpo fisico e questo, come in uno specchio, gli riflette la sua esperienza animica. Può fare questa esperienza solo nella sua coscienza psichica, come in un’immagine riflessa.
È come se l’uomo potesse avere la sua coscienza solo passando, per cosí dire, davanti a degli specchi, e guardando in essi arrivasse a sentire, a percepire se stesso. Ma quando nella vita ordinaria l’uomo si vede allo specchio, sa che non è lo specchio la fonte dell’immagine, ma colui che gli sta davanti. È cosí che avviene quando l’essere umano si sottopone a uno sforzo di ricerca spirituale nella sua anima: ciò che immagina, sente e percepisce nella vita ordinaria è come un’immagine speculare, e nell’esperienza spirituale, quando è immerso nel suo corpo, egli è un essere che percepisce se stesso come in una immagine speculare. Il corpo rende l’anima abbastanza forte da permetterle di percepire se stessa, ma se è fuori dal corpo non è abbastanza forte per sapere qualcosa di se stessa. Quando l’uomo arriva, per cosí dire, alla sensazione, alla percezione, alla conoscenza indipendente della sua propria esperienza animico-spirituale, allora sa che la Verità è dietro lo specchio della coscienza ordinaria; allora comincia a sapere, non solo come una formula, ma per esperienza diretta, che dal momento in cui si addormenta fino al risveglio si trova all’interno della sua vera entità animico-spirituale e sperimenta in essa ciò di cui nella normale esperienza umana non può avere coscienza.
Il ricercatore spirituale impara a sperimentare nello stesso modo in cui si vive nel sonno, ma con l’enorme differenza che nella vita normale del sonno si è inconsapevoli, mentre il ricercatore spirituale sperimenta consapevolmente se stesso nel suo essere interiore, preparando e rafforzando l’anima nei confronti dell’esperienza fisico-corporea. Il ricercatore spirituale fa poi le sue scoperte in riferimento a questa esperienza indipendente del nucleo dell’essenza animico-spirituale. Una esperienza è di particolarissima importanza. Si potrebbe definire il “mutamento dell’esperienza dell’Io”. In fondo, è l’Io che dobbiamo portare con noi nella vita, se vogliamo che la vita scorra normalmente. È stato spesso detto che l’Io risplende a partire da un certo momento dell’infanzia. È il punto in cui ci ricordiamo della vita passata. E se possiamo ricordare, allora sappiamo che tutto ciò che abbiamo sperimentato è collegato con l’Io. Ci sediamo, per cosí dire, accanto al nostro Io e ci sentiamo connessi con tutte le nostre esperienze coscienti. Solo in questo modo è garantita la nostra individualità, che ci fa sentire connessi all’Io con tutte le esperienze dell’anima. Quando il ricercatore spirituale raggiunge davvero il punto in cui il suo nucleo animico-spirituale è in grado di emergere dalla corporeità fisica, allora ha luogo una grande trasformazione della sua esperienza dell’Io, una trasformazione alla quale bisogna essere preparati, per non esserne turbati. Buona parte di quanto espresso nel mio scritto L’Iniziazione – Come si consegue la conoscenza dei mondi superiori? ha lo scopo di preparare l’anima a questa esperienza.
Rudolf Steiner (1a parte – continua)
Conferenza tenuta a Berlino il 27 novembre 1913.
O.O. N° 63 – Traduzione di Angiola Lagarde.
Da uno stenoscritto non rivisto dall’Autore.