L’alternativa dualistica del mondo antico, la cui conoscenza è la chiave per comprendere sia la prospettiva monoteistica sia quella della pluralità degli dèi e delle forze sovrasensibili, è considerata qui dal punto di vista del conflitto tradizionale tra Ormazd e Ahrimane, su quel classico palcoscenico del dualismo che ci offre l’Iran.
Quando Zarathustra parlò agli antichi iraniani delle forze causali che si celano dietro il mondo percepibile ai sensi, mostrò le due polarità che lavorano l’una contro l’altra, nel cosmo come nell’anima dell’uomo, cosí che ciò che sorge e si agita entro l’uomo parrebbe essere al fondo una lotta tra Ormazd e Ahrimane, ad esclusione dell’autoiniziativa dell’individuo.
Questo implicava, infatti, una scelta; ma tale che è stata resa sottilmente obbligatoria. Era questo che si pensava avesse suscitato la necessità per l’uomo interiore di diventare in qualche modo indipendente dalla perenne oscillazione tra luce e oscurità, vita e non-vita, ahura e deva, bene e male, spargendo cosí i semi del monoteismo, anticipando l’indirizzo etico proprio del mondo ellenico-mediterraneo, e quella possibilità di una liberazione interiore posta al centro delle dottrine ermetiche e gnostiche.
Fu qui che il dualismo divenne un cammino verso ciò che doveva sostituirlo ed estinguerlo. Nello zoroastrismo la sua funzione è in un certo modo pratica: quella di spiegare la presenza del male nel mondo, partendo dal presupposto di una concezione etica del teismo che non può ammettere che il male possa provenire da Dio.
Su tale questione l’Autore esamina i rapporti tra la concezione zoroastriana e il significato della misteriosa figura di Zervan Akarana, che finí per essere considerata come ispiratrice di una tendenza piuttosto che come una vera religione, e quando cosí intesa, è vista come molto antecedente a Zoroastro. Il libro si conclude con un ben ponderato saggio sulla nascita, il decadimento e la sopravvivenza del mazdeismo nazionale, che offre una soluzione all’annoso conflitto tra Ahura Mazdāh e Angra Manyu che avrebbe portato il primo a diventare il principio dominante, o l’unico Dio.
Massimo Scaligero
J. Duchesne-Guillemin, Ormazd et Ahriman, Presses Universitaires de France, Collect. «Mythes et Religions». Recensione tratta da East & West, Vol. 5, No. 1, Aprile 1954.
Questo libro offre un quadro dell’attuale aspetto dei molti Stati dell’India e della vita dei loro principi, trattato in uno stile descrittivo ed episodico, con tentativi di interpretazione nei quali si fa sentire un intento controverso.
Indubbiamente, l’aspetto descrittivo e impressionista dell’opera è il piú notevole. Offre informazioni che possono essere utili, particolarmente per il lettore occidentale. Il capitolo sul Rajputana [l’attuale Rajastan], i suoi splendori, le sue corti e le sue tradizioni, se cosí inteso, ha un valore speciale, come anche quello che descrive lo Stato di Travancore e di Cochin.
I Maharaja sono visti come i depositari delle tradizioni di casta e religione, e come tali detengono un potere politico spesso di natura dispotica; ma vengono anche studiati nella fase critica di questa visione tradizionale e di questo potere.
La crisi che stanno attraversando è venuta dal mondo moderno, ma colpisce in modo particolare anche l’India e la sua storia recente che è quella di una nazione che ha acquisito la sua indipendenza e sta prendendo il suo posto nel mondo, consapevole del suo dovere di svolgervi un ruolo importante.
I conflitti esistenti all’interno di questo grande Paese dovrebbero essere superati proprio per la responsabilità che grava su di lei quale depositaria di una tradizione di cui il mondo ha bisogno per beneficiare della luce che essa diffonde e che, proprio per questa stessa ragione, il mondo rifiuta.
Massimo Scaligero
Fabio Merzari, L’India dei Maharaja. Il libro è corredato da una mappa a colori e 12 illustrazioni, Cavallotti Editori, Milano, 1950. Recensione tratta da East & West, Vol. 5, No. 1, Aprile 1954.
Questo libro è una raccolta di punti di vista scambiati tra eminenti rappresentanti della cultura dell’Occidente e dell’Oriente, in un incontro che si è tenuto nel Parlamento di Nuova Delhi nel dicembre 1951, a seguito di un accordo raggiunto alla 5a Sessione della Conferenza Generale dell’UNESCO. Il tema trattato è stato «Umanesimo ed Educazione in Oriente e in Occidente».
Una delle conclusioni che appare di valore positivo è quella che tratta degli aspetti negativi della tecnologia che minaccia di sopraffare la mente dell’uomo e la sua relazione con l’indebita prevalenza dell’intelletto sulle altre capacità interiori dell’uomo.
Si è discusso sull’uguaglianza di tutti gli uomini, uguaglianza che non deve essere intesa come livellamento dell’individualità, ma come parità nei riguardi dei princípi spirituali, e perciò, in ultima istanza, come uguaglianza davanti alla legge. Nel caso dell’istruzione, si è posto l’accento sulla necessità che essa apra la strada a quell’“umanesimo” che può compensare in Occidente gli eccessivi sviluppi tecnologici, e che in Oriente può dare un orientamento realistico alla cultura.
La discussione sui princípi fondamentali ha portato all’elaborazione dei vari punti di un moderno sistema di metafisica ed etica di carattere universale. È stato rilevato che, cosí facendo, è necessaria una presa di coscienza critica del carattere puramente teorico di una tale dichiarazione, che dovrebbe quindi essere accompagnata da un’azione intrapresa con le medesime finalità. Eminenti pensatori, mistici e scienziati di ogni parte del mondo hanno collaborato allo sviluppo dialettico di questa comprensione.
Tra loro c’erano Jawaharlal Nehru, Jacques Rueff, Yensho Kanakura, Helmuth von Glasenapp, Clarence H. Faust, Ras-Vihary Das, Swarni Siddheswarananda, Olivier Lacombe, A.R. Wadia, Hilmi Ziya Ulken, André Rousseaux, G.P. Malalasekera, Ibrahim Madkour, Humayun Kabir, John T. Christie, Albert Beguin.
I discorsi pronunciati da Sua Ecc. Maulana Abdul Kalam Azad, Ministro dell’Istruzione dell’India, e dal Dr. Sarvepalli Radhakrishnan sono stati veramente degni di nota.
Massimo Scaligero
AA. VV. Humanisme et éducation en Orient et en Occident, Convegno internazionale organizzato dall’UNESCO. «Unité et diversités culturelles», 1951. Recensione tratta da East & West, Vol. 5, No. 1, Aprile 1954.
Alcune delle caratteristiche essenziali che ci permettono di contattare la personalità spirituale di Srī Rāmakrishna sono descritte in questo libro in un modo semplice e felice. La versione originale di quest’opera era Srī Rāmakrishna Līlā-prasanga di Swāmi Saradānanda. Nonostante la forma storico-cronica che ha assunto, con i suoi requisiti filosofici e le sue note dottrinali, contiene e irradia un amore potente e un sentimento di gratitudine che sono veramente toccanti. Queste caratteristiche essenziali sono illuminate da un’adesione intima e amorevole all’anima del Maestro. Esse ci permettono di vedere la persona di Rāmakrishna Paramahamsa come l’araldo di un nuovo ciclo spirituale che appartiene non solo all’India ma al mondo intero.
Il concetto di “Grazia” emerge per la prima volta in Oriente attraverso il suo insegnamento. Sotto qualunque forma possa apparire all’uomo, e a qualunque stadio della sua evoluzione, la Divina Madre elargisce perpetuamente i suoi doni. Se lo desidera, l’uomo può essere destinatario di questo infinito amore. Ogni Yoga offre un modo per liberare l’anima dalle ostruzioni che intralciano l’afflusso della Forza Divina, che è sia Amore che Conoscenza. Dottrine, riti, pratiche magiche non sono niente; in realtà sono un ostacolo se non sono visti come un mezzo per tacitare l’ego cosí da divenire ricettivi al potere trasformante del Divino. Questo è un primo fondamentale motivo rivoluzionario che Srī Rāmakrishna ha apportato al mondo spirituale dell’India: lo shock dato al tradizionalismo è tale da procurare una reazione in campo etico-sociale, ma la Tradizione ne trae una rinnovata vitalità.
Un’altra grande innovazione fatta da Srī Rāmakrishna è la nozione dell’unità metafisica di tutte le religioni. Egli non predica questa unità a causa di mere intuizioni e aspirazioni: è giunto a tale convinzione in base all’esperienza personale dell’essenza di ogni Iniziazione e di ogni religione per averle assorbite, e questo lo ha portato a vivere e a percepire dall’interno il contenuto di una data rivelazione, finché non ha raggiunto la visione della Forma Divina che ne è l’incarnazione.
Questa rivelazione si traduce in una sorta di realismo magico come espressione di una poetica penetrazione delle analogie. Le sue parole evocano una volta ancora alla loro fonte le piú alte e le piú segrete tradizioni spirituali, utilizzando a tale scopo un linguaggio semplice, che potremmo quasi dire moderno, in cui anche il pensiero piú profondo diviene immagine che parla direttamente all’intelligenza del cuore. Tutte le chiavi e i segreti degli antichi testi fluiscono attraverso questa rivelazione in una unità mai raggiunta prima; e qualcosa di nuovo permea l’intera concezione, il senso di libertà. Infatti, l’insegnamento di Rāmakrishna è penetrato dal soffio della libertà, e questo lo mette in contatto con noi moderni; come occidentali, ci sentiamo piú a nostro agio con esso che con il tradizionale pantheon indú.
La suprema scoperta che facciamo in Srī Rāmakrishna è proprio questa: nessun vero atto d’amore può essere fatto dall’uomo se non è fondato su una libera decisione. La Madre è inesauribile nei suoi doni, ma solo a condizione che la ritroviamo sempre dietro la Maya, anche dietro la Maya delle opere buone e della condotta morale. Le virtú che acquisiamo al fine di portarle nel mondo come ornamenti e le dottrine che acquisiamo e spieghiamo sapientemente per avere intorno a noi dei seguaci rispettosi, sono anch’esse un inganno. Non dobbiamo solo liberarci dalla natura esterna dissolvendo le apparenze; c’è anche una natura ancora piú sottilmente ingannevole, quella che esiste dentro di noi. Srī Rāmakrishna ci chiama a godere dell’autentica libertà, quella che ci libera anche dalla Maya interiore, e che è la condizione essenziale del vero amore, della vera fratellanza, della vera socialità, di là da ogni moralismo e da ogni eloquenza umanitaria. Solo l’uomo la cui visione non è ostacolata, che non è immerso nell’avidyā, può riconoscere il Divino in un altro; ed è questa grande possibilità che regola veramente la fraternità. Non c’è altro modo.
L’opera di Swāmi Saradānanda (Sarat Chandra Chakravarty), che fu uno dei discepoli personali del Maestro e il suo primo grande biografo, si sviluppa intorno a questo tema, che viene orchestrato, ora con note aeree e celestiali, ora in profonde tensioni sonore, seguendo il filo di episodi, commenti, considerazioni, sempre posti nella cornice della dottrina e della storia. È stata tradotta dall’originale bengalese in inglese da Swāmi Jagadānanda, in cinque volumi con la prefazione di un saggio descrittivo di Swāmi Nirvedānanda che illustra la personalità dell’Autore.
Il primo volume tratta del contesto storico e dei primi anni di vita di Gadadhar.
Il secondo tratta i primi chiari segni delle sue aspirazioni spirituali, le sue prime esperienze in quella direzione, le varie Iniziazioni che ha ricevuto, l’incontro con Bhairavi Brahmani e la sua conseguente conoscenza della Sādhanā tantrica; segue il suo incontro con Vatsalya Bhāva e Madhura Bhāva, fino a quando entra in contatto con l’asceta nudo Tota Puri, dal quale apprende la pratica del Vedanta nella sua forma finale.
Il terzo e quarto volume riguarda le esperienze di Srī Rāmakrishna come Maestro spirituale; i suoi incontri con altri Maestri come Devendranath Tagore, Dayananda Sarasvati e Keshab Chunder Sen, L’influenza che egli ha esercitato su alcuni di loro e quindi sulle piú importanti correnti del pensiero spirituale in India, e infine tratta della formazione di un gruppo di discepoli intorno a lui.
Nel quinto volume ci viene mostrata l’altezza della missione del Maestro nel mondo e le sue relazioni con Narendranath, che è stato il suo piú amato discepolo, e che, con il nome di Vivekānanda, avrebbe dato una forma pratica ad alcune delle principali tendenze idealistiche del Maestro.
Ogni saggio sulla vita di Rāmakrishna Paramahamsa aiuta a rievocarlo, perché nessun tentativo di stabilire una relazione tra gli uomini e la luce che da lui emanava può essere altro che un atto d’amore. Quest’opera di Swāmi Saradānanda possiede inoltre una fedeltà all’aspetto oggettivo di eventi e impressioni che può portare molti dati preziosi per completare la nostra conoscenza della vita del Maestro. Quest’opera non è stata il risultato di una precisa intenzione del suo Autore; è nata da alcuni primi saggi che si sentiva spinto a scrivere per chiarire fatti, circostanze e situazioni spirituali: mentre procedeva, il lavoro cresceva, come se fosse organizzato da una forza interiore, arricchendosi di nuovi ricordi e di osservazioni; ha acquisito cosí una struttura e una unità sostanzialmente organiche che si fanno sentire soprattutto nello stile impersonale che l’Autore usa come tributo di rispetto per il Maestro, tacitando le interpretazioni soggettive in favore dei fatti, cioè della verità.
Massimo Scaligero
Swāmi Saradānanda, Srî Ramakrishna, the Great Master, translated by Swāmi Jagadānanda. Ed. Srî Ramakrishna Math. Mylapore, Madras, India. Recensione tratta da East & West, Vol. 5, No. 1, Aprile 1954.
Il lavoro intrapreso da “Studi Carmelitani”, di raccogliere in un volume le opere, le opinioni personali e i saggi di personalità di spicco del mondo della cultura su un unico tema, espresso verbalmente in un convegno e attraverso contatti personali, ha portato in questa occasione a una nuova pubblicazione di particolare e attuale interesse, perché tratta il problema dell’uomo per il fatto che egli partecipa della duplice sfera dell’umano e del sovrumano. Questo implica l’analisi dei limiti dell’umano, e la critica delle possibili imitazioni su un piano superiore delle cose operate su uno inferiore. Il problema nei suoi aspetti filosofici è posto da F. Michel-Marie de la Croix, il quale in un’analisi sulla libertà e sulla struttura degli atti umani mostra chiaramente che la libertà non può essere il punto di partenza ma il punto a cui si arriva. E dato che un atto veramente libero è, in sostanza, un atto d’amore – né si può concepire un atto d’amore altrimenti che come qualcosa di voluto liberamente – per questo il martirio è un’affermazione essenziale di quella libertà interiore che qui è considerata nei suoi aspetti metafisici, teologici, storici e psicologici, da collaboratori come Mons. Charles Journet, F. Gabriel de Sainte-Marie-Madeleine, F. Pierre Debongnie, F. Bruno de Jesus-Marie, Dr. Henri Pequignot, Prof. André Soulairac, F. Philippe de la Trinité, Dr. Charles-Henri Nodet, F. Lucien-Marie de Saint Joseph.
La discussione sul soggetto della libertà di azione e dei suoi limiti, considerata dal punto di vista filosofico, e nelle sue reazioni in campo morale e giuridico, ha riunito un gruppo di pensatori ciascuno dei quali si è sforzato di dare conto, studiata con eccezionale completezza, di quell’attività interiore che può manifestarsi nell’uomo indipendentemente dalla sua natura; ed hanno anche esaminato il caso piú generale degli impedimenti che la natura può porre al normale manifestarsi di una simile attività, portando anche a fenomeni patologici. La questione è tale che coinvolge non solo la filosofia, ma anche la psicologia e la biopsicologia. Questo aspetto del problema è stato discusso anche dal Prof. André Soulairac, il Dr. Suzy Rousset, Charles Baudouin, il Dr. Henri Samson S.J., il Prof. Etienne De Greeff, il Pr. Françoise Dolto e il Prof. Pierre Desclaux.
L’argomento è stato considerato dal punto di vista della Scienza dello Spirito da Stanislas Fumet, dal Prof. Jean Filliozat, dal Dr. Jean Vinchon, dal Dr. Paul Gossa e dal Prof. Jean Lhermitte, e forse è qui che si trova la vera sostanza del problema, perché viene fatto uno studio di quel quantum di potere creativo che l’uomo mette in atto in quanto è artista, o pensatore, o mistico, o yogi. Questo potere creativo è una realtà che ha in effetti i suoi limiti umani ma che è allo stesso tempo immateriale, irriducibile al piano dei sensi, incondizionato da potenze esteriori-fisiche. Cosí, il pensiero ha in effetti bisogno del cervello per esprimersi, ma non può che essere identificato come una funzione virtualmente indipendente dal cervello stesso, e come tale riconoscibile ed evidente alle nature piú evolute. Vediamo quindi che ci sono limiti ai poteri umani, ma non alla conoscenza – parliamo di conoscenza super-razionalistica e spirituale – che è già percepita come realtà quando prende cognizione dei limiti umani. Ma a che serve una conoscenza dei limiti umani se non il fatto di superarli proprio allo scopo di realizzare quella natura interiore in cui vive l’uomo “reale”, cioè lo “spirituale”? La distinzione è fondamentale. I limiti umani esistono, ma non si applicano a quell’attività cognitiva che è il veicolo attraverso il quale lo spirito si esprime; e quelle limitazioni non sussistono come una realtà finale e definita, ma solo perché la “cognizione” possa percepire ciò che si eleva al di sopra di loro.
Massimo Scaligero
Limites de l’humain – Etudes Carmelitaines, Ed. Desclée de Bromver, Paris, 1953. Recensione tratta da East & West, Vol. 5, No. 1, Aprile 1954.
Link agli articoli in inglese: “Duchesne-Guillemin, Merzari, Unesco, Saradānanda, Etudes Carmélitaines“