Bambini al guinzaglio

Pedagogia

Bambini al guinzaglio

Scrive una lettrice: Vorrei sapere quale lettura date alle redinelle per bambini. In centro a Verona molti bimbi passeggiano insieme ai genitori con queste imbracature.

 

Nadia L.

 

 

Bambini al guinzaglio

 

Le redinelle, o piú giustamente guinzaglio per bambini, sono una delle tante dimostrazioni di come l’uomo stia cercando di umanizzare gli ani­mali, svilendo, o imbastardendo, se stesso.

 

Se la tendenza all’utilizzo del guinzaglio per bambini è in aumento, aumentano pure i pas­seggini per cani, i cani che vengono tenuti slegati negli spazi condominiali e nei parchi, liberi di abbaiare a qualsiasi ora del giorno e della notte perché viene riconosciuto loro un diritto che in­vero diviene sempre piú difficile riconoscere ai bambini e in definitiva agli esseri umani.

 

Avete mai notato la curiosa somiglianza tra i box con palline in cui vengono fatti ‘giocare’ i bambini all’interno dei centri commerciali e i fagiolini in polistirolo che si utilizzano per spedire oggetti delicati? I bambini vengono immessi in box protettivi come fossero oggetti pronti alla spedizione.

 

 

Legame e separazione alla base del sentimento di autonomia

 

La percezione del legame con la madre e la percezione della separazione dalla madre si sviluppano contemporaneamente nel bambino. A mano a mano che cresce la percezione del legame aumenta la coscienza della separazione. È proprio ciò che ci capita quando siamo innamorati: ci accorgiamo del sentimento che ci unisce ad una certa persona perché quella persona ci manca. Proprio quando siamo distanti da una persona e ci accorgiamo del sentimento di separazione che ci divide, affiora in noi la coscienza del legame.

 

Bambino che gattona

 

In questa sorta di danza tra legame e separazione si crea quello spazio che permetterà al bambino di avviare le sue prime esperienze di autonomia. Queste esperienze di autonomia si inverano perché il bambino avverte questo calore, questo amore che dà coraggio e infonde fiducia.

 

Il legame e la separazione sono due lati della stessa medaglia: nella misura in cui il legame sarà saldo, allora il bambino inizierà a gattonare allon­tanandosi dalla mamma, a esplorare tutto quello che c’è a portata di mano… e a sperimentare impli­citamente il piacere della separazione. La separa­zione di cui parlo non ha nulla a che vedere con l’abbandono, quanto piuttosto con la necessità che l’adulto sappia lasciar andare il piccolo. Il piccolo si aspetta che questo legame possa scio­gliersi e ricostituirsi, il bambino vorrebbe contare con sicurezza su questo gesto dell’adulto.

 

 

I tre peccati mortali della pedagogia

 

Henning Köhler (1951 – 2021) parlava spesso dei tre peccati mortali della pedagogia:

 

I. Abbandonare il bambino.

II. Mancanza di apprezzamento/stima per il bambino.

III. Non lasciare libero il bambino.

 

In natura

 

Dobbiamo lasciare libero il bambino, permettergli di sperimentare la separazione: è quello che lui vuole! Non potrebbe divenire autonomo altrimenti. Si avven­turerà fiducioso, si allontanerà da noi, compirà le sue prime esplorazioni, a patto che questa separazione saprà fondarsi sulla certezza che in ogni momento potrà contare su noi: in ogni momento il bambino potrà godere del nostro sostegno. Dobbiamo attendere che lui richieda questo sostegno, però. È questo che vuol dire rispettare il bambino. “La mamma presta attenzione a ciò che faccio e allora io mi allontano: posso speri­mentare la separazione”.

 

 

L’angoscia degli adulti inibisce l’autonomia del bambino

 

Cosa accade quando un genitore non permette al bambino di compiere i suoi passi in autonomia? L’angoscia del genitore, quando non permette al bambino di sentirsi libero, lo paralizza.

 

Recinto

 

L’angoscia dei genitori – che non è seconda a quella degli insegnanti – è divenuta ormai una malattia sociale. Non mi riferisco solo ai guin­zagli per bambini – che non lasciano libero il bambino – ma a tutti quei dispositivi che ne controllano il movimento, gli spostamenti. Que­sti dispositivi non sono un male in sé, non vanno incriminati. Il pensiero che vi è dietro, però, indica una tendenza alla sfiducia, una diffidenza che sottende ad una necessità di controllo e di indagine non sani.

 

 

 

Un esempio

 

Mal di pancia

 

Lo scorso anno, in una classe prima, un’alunna mi ha chiesto di andare in bagno: lamentava dolore al pancino. Trascorsi alcuni minuti sono uscito dalla classe per capire se stesse bene e l’ho vista parlare allo smartwatch (un telefono integrato in un orologio) della sorellina piú grande: avevano chiamato la mamma perché, in caso di un problema qualsiasi, la mamma aveva richiesto alle bimbe di essere avvertita telefonicamente. La mamma non ha detto alle bimbe di avvertire gli insegnanti: ha semplicemente comu­nicato loro di mettersi in contatto con lei attraverso il telefonino segreto.

 

Il male al pancino è il disturbo classico con cui matura il senso della vita nel bambino. Il bambino impara, proprio in questo periodo, ad avere coscienza delle sensazioni trasmesse dagli organi interni. La scienza chiama questo complesso di sensazioni cenestesi o senso viscerale. Rudolf Steiner chiama questo complesso di sensazioni (a cui aggiunge altri aspetti animici e spirituali) senso della vita.

 

Cosa succede se il bambino invece di venir tranquillizzato venisse allarmato? Questo dialogo con gli organi interni verrebbe percepito come un allarme continuo, produrremmo angoscia: gli onni­presenti adulti diverrebbero i soli mediatori dei due mondi (sensoriale e percettivo) del bambino.

 

Richiesta di attenzione: «Mamma, mi guardi?»

Richiesta di attenzione: «Mamma, mi guardi?»

 

Lasciare libero il bambino implica un grande investimento di tempo e di energie da parte dei genitori e degli educatori. Se volessi permettere al bimbo piccolo di esplorare in autonomia uno spazio dovrei curare quello spazio: dovrei liberarlo dagli oggetti potenzialmente pericolosi, dovrei scegliere quali oggetti introdurre e quali no (ad esem­pio: legno o plastica?). Avrei bisogno di tempo e dovrei esser presente a me stesso e al pic­colo: non dovrei fare lo zombie che guarda il telefonino mentre mio figlio gioca al parco: questa è una declinazione dell’abbandono! Il bambino vuole godere della nostra attenzione: questo fa parte del gioco.

 

Se da una parte l’angoscia degli adulti (geni­tori, insegnanti, zii, catechisti…) ricade col­pevolmente sui bambini camuffata da premure eccessive (zelo, scrupolo, controllo, sicurezza), dobbiamo pur riconoscere che la loro autonomia (il terzo peccato mortale della pedagogia) viene inibita perché non si ha né tempo né spazio da dedicare loro. Meglio legare al guinzaglio piuttosto che farsi sostegno dei loro inciampi, meglio un box con quattro giochini dentro piuttosto che permettere al bambino di esplorare lo spazio circostante, meglio uno spazio giochi asettico in cui il bambino non potrà farsi neppure un graffio ma dove non svilupperà mai il senso di com­passione per l’altro.

 

caduta dal triciclo

 

È solo dopo aver conosciuto il mistero del dolore (il dolore per un’ingiustizia subita, per un ginocchio sbucciato, per una caduta dal triciclo, o dalla bici) che si potrà avere compassione per l’altro. Non può esistere una vera comprensione altrui senza questa capacità di con-muoverci, di muoverci inte­riormente insieme all’altro, di essere parte­cipi del suo movimento.

 

Il bambino al guinzaglio non fa esperienza del proprio movimento, imbrigliato com’è da un arnese che lo sopraffà e lo costringe, non può com­piere l’esperienza della separazione e riceve l’implicita attestazione di sfiducia (secondo peccato mortale della pedagogia) verso un movimento che non può compiere se non imbrigliato come un puledro o al guinzaglio come un cane.

 

 

Nicola Gelo