Sanremo è sempre Sanremo. L’Italia è sempre l’Italia. La RAI TV è sempre la RAI TV.
Ma l’uomo non è ancora l’Uomo. Non c’è nulla da fare, non è ancora l’Uomo Ci sono stati sí, innegabili sviluppi, notevoli progressi, e traguardi promettenti; abbiamo fabbricato una lunga sfilza di comodità a vantaggio del benessere economico, sociale, sia collettivo che individuale; per carità, niente di gratuito, ma con imposte, gabelle, accise, banche di qua e finanziarie di là, ce le stiamo pagando ancor oggi.
Non abitiamo piú squallide spelonche o umide palafitte; i mastodonti e il Diplodoco di Carnegie non ci fanno piú paura; mangiamo cibi quasi tutti cucinati a dovere, vestiamo abiti firmati e scarpe lucide (almeno il dí di festa; pur conservando le tutine colorate e calzari sportivi griffati per il temo libero). Ma ci siamo impantanati nelle torbide paludi dei welfare promessi a rate, della prestanza a tutto campo, del finto “uno-per-tutti-tutti-per-uno”, della becera indulgenza per il no fees; nell’intento di nascondere la devastante regola del mors tua vita mea, che sguazza nei club vacanzieri del nostro ego; per abulia, per codardia, o forse per la cronica incapacità di distinguere il semi-falso dal mezzo-vero, abbiamo demandato ogni facoltà di decidere sulle cose importanti a gruppi estranei trasversali o a cosche compaesane formate da personaggi che sarebbe stato molto piú saggio impiegare in altri lavori, magari meno importanti ma socialmente utili e controllabili da vicino.
Sí, l’avete capito: ho assistito alla prima serata Tv del Festival. Ho resistito per mezz’ora, e poi ho dovuto ritirarmi per pensare. Perché è facile, fin troppo facile assegnare a questo spettacolo, che simile a certe comete d’infausta ricorrenza, imperversa ormai puntuale da 73 anni a questa parte, il titolo spregiativo di “schifezza kitch”, di “spazzatura TV” o di “indecenza canora”; come è altrettanto paradossale e preoccupante ritenerlo “un evento artistico culturale offerto in mondial vision con ricchi premi e cotillon”. Gli estremismi, ancorché opposti, rappresentano in due forme diverse un’unica allucinazione.
Entrambe le definizioni infatti, non spiegherebbero niente, e finirebbero, secondo me, solo ad ingrossare le file dei pro e dei contro; tanto per cambiare. È questa l’ epoca in cui gli esseri umani non vanno d’accordo su nulla; il che non li rende felici, e di conseguenza, col minimo residuo di fantasia rimasta in dispensa, tendono a ribaltare i presupposti da cui erano partiti, per vedere se, cosí facendo, le cose funzionino meglio.
Tuttavia, mentre prima io stavo con i “viola a pallini gialli”, (si fa per dire ) e mi scontravo con quelli che agitavano vessilli diversi (mettiamo di colore bordeaux con l’orlo dorato) ora che ho scelto pur’io d’aderire a quest’ultimo, non devo sorprendermi troppo se trovo i precedenti fans del bordeaux che mi vengono contro e mi contestano, agitandomi sul naso le bandierine viola a pallini gialli che già furono le mie.
Se ho cambiato io, agli altri dev’essere garantito il medesimo diritto. Purtroppo ci manca ancora la coordinazione. Per cui ad ogni mutazione di massa (che non sia quella di massa-critica) risulta per ora un’ulteriore sgangherata franatura.
È la regola ferrea del ribaltamento dei valori; o lo si fa tutti assieme, oppure quel che ne salta fuori è una Schweinerein peggiore delle precedenti.
Ecco perché ritengo il Festival di Sanremo “Venti/Ventitré” (come dice il suo valente paggio/alfiere, Amadeus) al di là di qualsiasi riferimento estetico valutativo, un oggetto da studiare; da studiare approfonditamente, seriamente; da sottoporre all’attenzione dei migliori scienziati di fama internazionale, giacché, signori miei, noi qui ci troviamo di fronte alla “super-essènzola” dell’odierno umano. È un qualcosa di magico poter vedere come siamo, come ci siamo intimamente rifatti, non solo dal punto di vista fisiognomico e organico, ma anche da quello psicoetico e cardionoseoanimico.
È lo spettacolo piú spettacolare dello spettacolo stesso, e nulla, nulla di quanto tutte le radiografie, le risonanze magnetiche e le TAC della nostra scienza medica piú progredita e intruffaldina può meglio evidenziare, saprebbe mettere in risalto l’intima struttura: un modello conglomerativo d’intricata complicità, falloso, obliquo, pencolante, fragile, inermigato, fumoso, strizzito e desudiciato; ricoperto e ingrassato dal penoso candore dei maquillage, dei trucchi subdoli, dell’oro che cola, delle luminose gratuite e dello spreco cromo-rutilanti, dalle fantasmagorie dei frac a lustrini e delle intime trasparenze sedo-deduttive, capaci di mutare nei monitor lo scorcio d’un occhietto ombrettato, nell’imponenza apoteosica che avvia l’“Also Sprach Zarathustra” alla Richard Strauss. Il fatto poi che Zaratustra non abbia parlato cosí, non frega a nessuno. Si mormora nel popolo delle platee: «Chi sarebbe ‘sto Zoratesta?» S’ipotizza nel popolo dei loggioni: «Dev’essere il nuovo acquisto del Napoli».
E si va avanti, perché come è giusto che sia per tutte le comicità d’avanspettacolo, pure per quelle che non sono da rispettarsi: “The Show Must go on” (pare che a suo tempo, l’abbia detto anche Nerone, ma in latino).
Non possiamo tuttavia concederci divagazioni che non ci spettano; non lasciamoci distrarre da subdoli realismi di bassa fattura; dobbiamo rimanere concentrati sui fatti e osservare con attenzione i personaggi che, celebrando ognuno a suo modo, li hanno introdotti, magna cum pompa, nel mondo virtuale dei network, dei social e delle comunicazioni di massa.
Una grande festa è sempre una grande festa! Per i festaioli, per i guastafeste e per i manifestanti d’ogni alcunché, che infestano, ribaltando festosi tutto quello che trovano, le vie del tempo e le strade del mondo. A volte la troppa gioia fa strani scherzi.
Tre sono le figure Cariatide su cui poggia questo ennesimo Festival: il Presidente, il Comico Mattatore (Volontario) e il Presentatore-Conduttore (Comico Involontario).
Ci sarebbero pure altri figuranti di contorno, ma sono i “caratteristi” che, anche se di lusso, restano sempre caratteristi (alcuni da mezzo secolo e piú) e recitano la loro particina in evidente souplesse; mentre altri, piú giovani e freschi, tatuati e tecnologizzati a puntino, sono costretti a guadagnarsi l’indice di gradimento, tentando, con acuti fuori copione (capaci di raggiungere atti demenziali di florilegio in luogo pubblico) d’emozionare un immaginario collettivo, piú sfizioso che incapricciato.
Poiché ogni cosa ha da cominciare dal numero uno, è doveroso parlare anzi tutto del Presidente, del nostro Presidente (che non è come dire il Presidente di tutti, ma ci si accompagna cosí volentieri che, a momenti, uno non se ne accorge nemmeno).
Il Presidente è il simbolo del Presidenzialismo; è l’immagine, il logo, la griffa dell’imperturbabilità psicopolitica, pure nei tempi di maretta e derive. Ma come gli elicotteri con la scritta RESCUE sul fianco, che arrivano sempre a togliere dai pasticci i gitanti troppo spensierati, cosí pur’Egli ha avuto la sensibilità di non rinunciare a presiedere il Festival, nel solenne momento d’apertura, o meglio, rendendo solenne il momento dell’apertura.
La presenza di un Presidente è un evergreen; smussa, addolcisce, evolve, innalza; svolge una silente funzione rasserenatrice anche tra i fans canori di opposte fazioni, se non tendenze, e tutto sommato, nel caso in esame, è stato un necessario contrappeso a tutti gli straripamenti artistici, e non, che si sono avvicendati per ben cinque serate sul palcoscenico del Teatro Ariston.
Il Presidente presiede: inappuntabile, avvolto nel suo morbido completo scuro, con la cravatta in tinta a puntini chiari, che potrebbero indicare una lievissima inclinazione alla trasgressività, subito trattenuta dalla serietà dottorale degli occhiali dorati, dietro ai quali lo sguardo democraticamente benevolo, si estende non soltanto al paese, ma sull’intero continente, considerato, con dolce freddezza, anche nelle sue pruriginose incontinenze, come un diabetico di vecchia data può considerare un gelato al mascarpone; nel mentre le labbra sottili si tendono in un sorriso paternostico, ancor piú sfumato, quasi fosse un approvato compiacimento per quel che sta succedendo fuori del
Palazzo, e che di sicuro gli recherà un ulteriore feedback di empatici grattacapi, ch’Egli dal suo alto ufficio studierà, sanerà, casserà, modificherà, suggerirà, con agili tratti di penna, accompagnati da un infinito senso di serena stanchezza per i discoli patrioti, per le cittadinanze precarie e per la ribalderia di alcune tifoserie parlamentari, effettivamente petulanti e diversamente educate.
Ma questa sera, dal suo palco d’onore, Egli potrà ascoltare le voci di quel mondo turbolento e masochista, sempre in bilico tra la stoica sofferenza e la sana voluttà, in tutto relax. Sa che ancora una volta sarà la musica a vincere; né potrebbe andare altrimenti, trattandosi, oramai da anni, della stessa musica.
Il compito principale di un Presidente è quello di garantire diritti e tutele per tutti; ovvero per tutti quelli che non sono presidenti, e in questo Egli compie ogni giorno lo sforzo magistrale d’essere equo quanto basta a non danneggiare il concetto stesso di equità. Il paese riconoscente ricambia il beneficio, sforzandosi, ogni giorno, anche lui, di far quel che vuole e piace, senza troppi scossoni e strombazzamenti.
Con discrezione, in punta dei piedi, da dietro le quinte di broccato e velluti pesanti, da dietro pareti pregiatamente insonorizzate, noi ascoltiamo con deferente rassegnazione le lezioni di vita, che Egli puntualmente ci elargisce ex cathedra, nel fitto calendario di ricorrenze e rimembranze, con perfetta dizione, a intervalli regolari, pause rilassanti, eleganti cadenze e punti-a-capo fermamente risoluti. Ognuno ha le melodie che gli competono. E se te le canta col tono giusto, come fai a dirgli di no?
Seconda Cariatide: dovrò qui invocare una Musa particolarmente dotata: infatti è cosa ardua definire una personalità istrio-gigionesca, scompensativa, autocelebrante, instabile quanto un’anguilla sincopatica, e piú esplosiva di un boccione di nitroglicerina nelle mani di uno sbandato colto da crisi d’astinenza durante la sfilata di carnevale. Attributi tipici del Comico Volontario, cui è stato affidato non solo il proemio d’avvio della manifestazione, ma addirittura il vibrante abbraccio tra la plebea platealità del festival e l’alta presenza della Prima Carica Istituzionale; la quale, pur nel confinamento sul palco patrizio con familiare a carico, ha sovrastato, o forse, meglio dire, è svettata su ogni ché: pubblico, fiori, comici, cantanti, musicisti, ballerini, valletti, soubrette e mummie di passaggio, con la sobria, compassata autorevolezza di chi vuol essere comunque presente anche quando s’occupa d’altro. Soltanto un lieve, invedibile irrigidimento delle spalle, appena accennato, indica all’osservatore acuto, il peso e l’onere di quanto debba venir sopportato per reggere in maestosa rettitudine quel multiforme mondo di storture che pochi politici canuti hanno voluto incontrare.
Tuttavia al di là del girone d’élite, torniamo da basso dove la Cariatide n. 2 sta conquistando la scena. Devo dire d’essere rimasto incantato dalla sua capacità di connessione; nessuno al mondo saprebbe, in una manciata di minuti, legare fra loro i concetti piú perigliosi e bisticcianti quali arte, libertà, repubblica, melodia, fratellanza, ottimismo, amor patrio e psicofarmaci, con la gioiosa irruenza d’un CapoBanda professionale alla festa del Patrono. Altro che Direttori d’Orchestra! Egli ha saputo condurre in un crescendo (che avrebbe fatto impallidire d’invidia lo stesso maestro Rossini) le emozioni del parterre e dei telespettatori sparsi sulla restante superficie globale, con l’impeto stuzzichevole del monellaccio da strada, che tra beffe, lazzi e guizzi, fa ridere, diverte e commuove, scompisciando il viscerale dell’umano: quello che la decenza e il senso buono (di vetera lontana fattura) si rifiuta ancor oggi di far ridere, divertire e commuovere, per via di un’antica follia ostativa chiamata dignità.
Come un tempo esisteva la medaglia patacca, cosí oggi ci viene propinata la comicità patacca, la quale si pone un unico fine: dar lustro a tutte le altre patacche in ascolto, mandandole in visibilio, schizzando in alto l’indice SHARE e riempendo a cascata i forzieri della RAI, compresi quelli dei cortigiani e della servitú addetta. Ma questo, sia ben chiaro, non è assolutamente un retroscena; è stato anticipato in tutti i modi possibili e immaginabili; la finalità del festival da anni è ben chiara ed esplicita, delineata a trecentosessanta gradi, i suoi propositi non mai stati tenuti nascosti.
È uno dei business piú colossali del mondo, e mi meraviglia soltanto che il teatro Ariston (assieme all’intera cittadina di Sanremo, con i suoi abitanti, il sindaco e la giunta comunale) non sia ancora stato trasferito di peso e ricostruito, pietra su pietra, nel Qatar, che giustamente è la nuova Mecca dei petro-narco-dollari, dei bitcoins e, perché no?, pure dei nostri eurini, che forse al confronto con altre pecunie non reggono il passo, ma in compenso non puzzano di piú.
Se dopo tutto questo, qualcuno vorrà ancora sostenere che ogni forma d’arte ha i suoi diritti, e che la gara tra melodie delle italiche ugole (italiche? si fa per dire) rappresenta un vanto ed un valore aggiunto al patrimonio nazionale già colmo di nobili ricchezze, gliene sarò davvero grato: la freschezza di un’anima genuina mi fa sempre piacere, e nei casi acuti di alterazione psichica funge pure di reciproco conforto.
Tratto saliente della Cariatide N. 2 è la mobilità. In lui tutto si muove, salta e balla, dai capelli ai lacci delle scarpe, non tanto perché vi sia un’agitazione particolare della corporeità (che magari c’è, ma è niente al confronto di quella interiore), bensí per il motivo i suoi bio-ritmi si sono talmente sperduti nel marasma di una ricercatezza confusionale, di natura evidentemente estrorso-auto-maniacale, che sono costretti a recuperarsi freneticamente nel penoso ma ricreativo sforzo di una ricomposizione statica; senza naturalmente riuscirci. Persino gli abiti indossati gli saltellano addosso anche quando sta fermo (secondo me, finge); la giacca larga/obliqua gli pende da una parte, il colletto sfilacciato apre la camicia su un torace piú o meno avicolo, una parte di essa fuoriesce con prepotenza nei pressi della cintola dalle brache, che a loro volta gli ricadono in molli, flosci piegoni sulle calzature che grazie alle punte emergenti s’intuiscono appena. Segno che l’esperienza del Piccolo Diavolo funziona nonostante gli anni di distanza.
Il suo discorso sulla Costituzione? Ineffabile, ipertrofico, ammicchevole, goliardesco, pseudosinallagmatico, panegirifico e pamphlettoso. Sono certo che dopo una siffatta lectio magistralis, anche il mio nipotino Riccardo, di anni otto, vorrà andare a letto col libretto dei Padri Costituenti sotto il guanciale. Gli Articoli della Costituzione sono tutti benigni, ma Benigni è l’Articolo piú costituente di tutti. Non fosse altro per lo sforzo spasmodico di spiegare dialetticamente il mondo, la vita, l’arte, “le opere e i giorni”, con torrenti di parole, esondazioni dialettiche, slavine travolgenti e valanghe di frasi fatte, sparate fuori come tappi di bottiglie di spumante, agitate con febbrile esultanza dal mattatore della prima serata.
Dopo di lui, il diluvio è già stato. Nei giorni del dopo-festival, con la testa ancora imbottita da 500 canzoni, 1.000 ritornelli, 2.000 gag e 20 ore di sofferta programmazione, sarà difficile ricordarsi che ovunque nel mondo sta andando tutto bene. Sarà difficile ricordarsi che la vita continua ad essere bella e che in fondo, ma molto in fondo, non c’è niente da preoccuparsi fintanto che terremoti e guerre accadono in lontani altrove. Noi siamo contenti d’essere costituenti.
In uno sforzo eroico di ottimismo conservativo, si potrebbe addirittura tentare di convincere i bambini dei territori in conflitto, che le loro tragedie sono solo un gioco fra grandi, e che se si comporteranno bene e seguiranno le regole (sicuramente Internet dispone di qualche manuale ad hoc) verrà estratto in premio un carro-armato vero. A scelta: Tiger, Leopard o T-14 Armata.
Terza (e ultima) Cariatide: la migliore e la piú complessa in assoluto. Per questo la trattiamo per ultima. Qui non si tratta piú di un’autorevole compostezza, né di una invasatura paranoico-sbarazzina; qui c’è qualcosa di molto piú serio e “avanzato” (avanzato, nel senso di progredito, non in quello denigrativo di “residuo”; bisogna fare attenzione con le parole, ché una ti manda nella stratosfera e un’altra, magari simile, ti sprofonda nell’astenosfera). Probabilmente il caso della Terza Cariatide è anche il piú grave, in quanto minaccia di durare nel tempo; ma è una gravità tanto sottile, rarefatta, impalpabile e distribuita in modo cosí omogeneo su tutto l’assieme che la riguarda, da apparire come una naturalezza particolare o una spontaneità caratterizzante il self made man di rango.
Lo abbiamo definito il “Presentatore-Conduttore e Comico Involontario” ma, ora lo possiamo dire, è una palese ingiustizia. Perché, secondo me, qui si dà il caso di un fenomeno completamente nuovo; la sua portata consiste proprio nel non mostrarsi consistente, da qualunque parte lo si guardi e osservi, anzi è pervaso da una forma d’inconsistenza talmente robusta da sfuggire anche ai controlli piú severi e accurati: è un aeromobile pubblicitario che vola pacifico in territorio amico ad una quota cosí bassa che nessun radar lo può rilevare. Ci si chiederà: ma se è amico, perché vola di nascosto?
E qui sta il bello del Presentatore-Conduttore: non lo sa neppure lui. Egli infatti crede di presentare e condurre, ma in realtà lo stesso suo modo di proporsi comporta una tale vena di comicità del tutto involontaria, che ti sorprende piacevolmente e ti viene la voglia di dire: «Ma dove l’hanno pescato uno cosí!». Però non appena l’hai detto, ti accorgi che, oltre al risibile, c’è pure la sua efficienza, la sua onestà intellettuale (forse è meglio dire “cerebrale,” perché di intelletto qui non è che ce ne sia piú di tanto, e che del resto, per quel che ha da fare, non gli servirebbe nemmeno). C’è la sua maniacale precisione per il rispetto dei tempi e degli spazi pubblicitari, che vengono preannunciati da lui medesimo con una verve disinvolta, seducente, del tutto confidenziale, come si proporrebbe un manicaretto raffinato ad un ghiottone impenitente temporaneamente impedito.
Ma insomma, nel suo piccolo, egli conduce, vuol condurre e sa condurre, divertendosi un mondo nel pensare di saperlo fare, e felice di farlo, con la gaia innocenza di un bimbo che, tracciati alcuni sgorbi colorati su un foglio di carta, ce li esibisce orgoglioso in attesa di un nostro amorevole elogio. Che gli vorresti dire? Nulla di critico; nulla di severo; non puoi mica metterti a sparare sulla croce-rossa, ti sentiresti un cialtrone, un infame o quanto meno uno che ha dei grossi problemi con se stesso. Tale assoluzione, unanime pur con le attenuanti generiche non condivise (anche questa è bella, eh?) lo rende di colpo imparagonabile con tutti i maestri conducenti di lunga data che hanno calcato studi e teatri di posa. Lo pone ad un livello di purità radiotelevisiva ancora mai visto, e sí che di “purezze” in Rai ne sono passate tante!
L’intrattenimento in TV è concepito cosí, ha le sue regole, e quando è canoro ha pure i suoi ritmi. Amedeo Umberto Rita Sebastiani li conosce bene, li conosce tutti, canzoni, testi e musica, d’ogni cantante compositore e cantautore, a partire dal secolo XII ai nostri giorni; li ha presentati, intervistati, fagocitati e mitizzati mentre si riempiva le tasche del loro incenso, rendendolo in pochino anche suo. Con quello che invece non sa o non ha acquisito (poca cosa in verità, riguardante solo le materie umanistiche, letterarie e scientifiche) ci gioca su improvvisando gag sulla smemoratezza del cantante muto o sull’afasia del corista sordo.
Se fosse stato calciatore avrebbe avuto un profilo terribilmente mediano: non para, non tira in porta, non corre a tutto campo, ma non insulta, non sputa, non litiga con l’arbitro e non è mai outsider. È l’ideale per l’allenatore di media classifica che non si pone traguardi né teme pericolose derive. Galleggia, e lo fa cosí bene che perfino gli anatroccoli, quando lo vedono esibirsi, smettono di chiedersi se siano brutti o no.
Di fronte alle sue performance, ora ardite, ora delicate, ma sempre incrementalmente vanesie, perfino Amleto sarebbe rimasto sconcertato a bocca aperta, lasciando a metà la sua celebre frase. Amadeus si sarebbe allora precipitato in suo soccorso, accomodandosi al pianoforte, e sussurrando a voce alta (ché tutti sentano): «Coraggio Principe, l’accompagno io…».
Egli (Amadeus) pur essendo l’uomo che converge a sé ogni limite, non si pone limiti; forse un giorno siederà in Parlamento; e se qualche maligno sosterrà che senza scandali non si entra a corte, egli ammetterà, col candore del non-volontario-scelto, che il suo primato consiste proprio nell’averli saputi annacquare tutti prima ancora che potessero scandalizzare.
Il che di per sé è già scandaloso, nel senso che ogni parlamentare viene ad essere eletto in base al numero di scandali puntualmente riportati dalle cronache. E che – dopo, ma molto dopo – deve vendersi anche i calzini per pagare avvocati e forensi onde annullare gli effetti degli scandali procurati, che nel frattempo vengono dimenticati dalla pubblica opinione, per l’arrivo di scandali nuovi di zecca. Dev’essere questa la ragione per la quale vi sono ministri con portafogli e altri senza.
Tutto ciò potrebbe però portarci fuori tema e quindi prima di restare come un subacqueo in Selva di Valgardena, sarà meglio rientrarci.
Da un giornalista in vena di cose da inventare, venne chiesto al nostro “Ama” (cosí lo chiamano con affetto amici e parenti, fingendo d’ignorare che egli preferirebbe di gran lunga farsi chiamare “Deus”, ma questo gli è categoricamente negato dai suoi Autori; non sarebbe allineato con l’indice di gradimento – dicono – che è, e deve restare, modesto, anche per non divergere troppo dal livello dei suoi fans), venne dunque chiesto, provocatoriamente, se con la magica memoria del musicofilo spinto, ricordasse il nome della band, giunta terza nella kermesse folkloristica di Capracorta in Altura, tenutasi nell’omonimo loco, a fine estate ‘89.
Rispose Ama, con l’arguzia festosa del super modesto medio, astuto ma non troppo: «La so! La so! Si chiamava “ByBy-Non-Mi-Becchi Mai”. E ti dirò di piú: se non fosse stato per la gomma anteriore sinistra scoppiata all’ultimo momento, sarebbero anche arrivati primi». Narrano che dopo averla proferita, il nostro Ama ci abbia riso sopra per ore, e il giornalista in vena di cose da inventare non abbia per contro inventato piú nulla e si sia dedicato poi all’aeromodellismo.
Eh sí! Ci sono piú cose tra Sanremo e il Teatro Ariston che in tutte le filosofie fin qui pensate e pensabili. Perché questa splendida macchina lucifericante di highlights policromi e plastiche trasparenze, inebriante e ossessiva ad un tempo, come farebbe a svolgersi se non avesse in cura un “deus” , il quale, contrariamente alla modalità classica, non scende dall’alto alla fine della tragedia, ma la propone fin dall’inizio, senza che alcuno spettatore se ne avveda, ma anzi, la goda come un evento di qualità.
Un ribaltamento nei recessi profondi della catarsi noetica, utilissimo alle anime di uomini incautamente espostisi alle correnti del modernismo degenerativo, che conferisce loro la facoltà di assistere indenni (o quasi) all’immane spettacolone sanremese, dimenticando che intanto i Cavalieri dell’Apocalisse imperversano su molte parti del globo. È proprio vero: le virtú sono come i cruciverba; basta insistere, cercando soluzioni in rete o nelle enciclopedie, e alla fine vengono. Il che mette d’accordo tutti i governi di questo mondo, operanti nel segno del politically correct.
Del resto, diciamocelo apertamente, ché tanto siamo alla fine della tenzone : cos’altro si potrebbe offrire di meglio ad un pubblico di appassi(ona)ti intel(l)utenti, bramosi di rinverdire le esauste, offuscate emotività (dietro al fasto occulte, notava il Parini) se non cinque soireé consecutive di tonici lavacri purificatori, con relativo ammollo full immersion, delle cose che oramai in famiglia non si lavano piú?
(Ci sarebbero ovviamente anche le lavanderie a gettone – altrimenti i Jefferson avrebbero dovuto cambiare mestiere – ma sono oramai ridotte a delle sentine plebee, squallidi ritrovi per extracomunitari e studentelli squattrinati; nulla da paragonare alle poltroncine in velluto rosso dell’Ariston e succedanei).
Bisogna presentare al pubblico quello che il pubblico ama e si aspetta, tutto qui l’arcano: una gara di noterelle stridenti, rapperie tambureggianti, gag compiacenti, morbose efferatezze, piccole intemperanze, degli “oops mi scusi”, e degli “ullalà che piacere che mi fa”; sempre meglio che star lí a rompersi la testa chiedendosi se un documento sottoposto al Segreto di Stato produca gli stessi effetti di un altro, del quale, la medesima legge, vieta la sola divulgazione. Non sta scritto da nessuna parte che si debba vivere nella difficoltà perenne.
Che poi lo stesso Amadeus per primo eccepirebbe l’incongruenza, giacché, anche per lui, difficoltà comincia con D, non per N.
Per cui – TUTTO CIÒ PREMESSO – a sipario calato, a fari spenti, cantanti e musicisti rincasati, la RAI TV nel riprendersi il ruolo guida di Pubblica Educatrice (momentaneamente dismesso causa festival) in un impeto di coraggio e generosità, offre un guizzo di sano moralismo radiotelevisivo, indicando, urbi et orbi, la via ottimale da seguire ipso facto onde ottenere almeno un piccolo risparmio sulle bollette energetiche di questi tempi cosí dispendiosi e sperperecci, e pertanto si assume il compito di ricordare a tutti che la frase illuminante (a basso voltaggio) nonché password per un new deal energy-etico, d’ora in avanti sarà la seguente:
Credo sia la ciliegina sulla torta. Di piú non si poteva. E pensare che per recuperare questo indegno slogan, facendo scempio (e profanando) il versetto di Giuseppe Ungaretti, direttori e dirigenti RAI TV si saranno riuniti in conclave segreto per giorni e forse anche notti intere.
Nell’attuale momento storico (probabilmente ogni momento della nostra vita è storico, ma molti indizi fanno capire che il presente è un momento cruciale) in cui ogni essere è chiamato a gran voce dal karma dell’umanità a risaltare le forze della coscienza e aumentare l’intensità della Luce Interiore che può provenire soltanto dalla Vera Conoscenza Spirituale, ci viene elargito, a mo’ di paterno-saggio-consiglio, di affievolire quella esteriore ai fini di contenerne costi e consumi.
Evidentemente quest’ultima è l’unica luce riconosciuta dalla cultura dei giorni correnti, e gli esperti analisti della RAI Tv non sono in grado di riconoscere altre. Temo che non siano i soli.
Quale testimonial della campagna pubblicitaria, a favore d’un ipotetico risparmio energetico, è stata scelta e voluta a larga maggioranza dal marketing strategico di Saxarubra, una poesia, la piú breve ed incisiva che mai venne scritta. È stata scelta e voluta, ma dopo averla deturpata, manomessa e despiritualizzata, nel poco onorevole tentativo di renderla acconcia alla bisogna.
Se il diritto all’ultima parola verrà affidato a questa ulteriore turpitudine, allora essa non è piú un sintomo, ma una diagnosi dei nostri tempi, del nostro mondo, della nostra vita.
Angelo Lombroni