Resistenze
Accetta e piega la corolla fiera
di petalo giallo la folata maligna
che ingiuria radice stretta
a ghermire la terra.
Natura potente nutre e difende
l’esile stelo e umile e grato
regala i colori della sua
poca esistenza.
Racconta sereno il piccolo fiore
del navigare umano
nel mare terreno
che una facile brezza serale
ne sradica l’àncora.
Cosí sono fatti gli ormeggi
del mondo e di terra: il docile asseconda
la vita e colora, il forte cede all’intemperia
d’Amore appassendo.
Marcello Sebastiani
Ho trovato la mia pietra
e il mio sole parla,
basso, sulla collina,
ma ancora abbiamo
infiniti minuti
d’amore, ora,
e i raggi bassi
mi fanno arcobaleni
fra le ciglia
Poi tutto scomparirà.
Ancora.
Stelvio
Non credo
alla superficiale
e grottesca
rettitudine
di alcuni viandanti
di questo mondo,
che credono
all’innocenza
solo come difesa
personale,
per scrollarsi
di dosso
ogni responsabilità
della propria
mancata
crescita.
Rita Marcía
LIMBO
Giuseppe ha novant’anni.
Ha il respiro forzato,
le labbra screpolate,
negli occhi
uno spesso strato
di malinconia.
È nel reparto
di osservazione,
limbo dei malati
dal destino ignoto
deposito
di uomini e donne
sofferenti
nella lunga attesa
di un letto.
Qui c’è solo un corpo
buttato su una barella,
accanto ad altri corpi
in promiscuità.
Forse all’inferno
‒ pensa Giuseppe ‒
c’è questa stessa
luce fredda,
questa solitudine
affollata, ci sono
questi lamenti,
questi dolori.
Solo raramente
appare qualcuno:
un figlio, un amico.
Hanno un borsone
in mano,
un thermos, un frutto.
Portano una carezza,
una parola,
un po’ di consolazione,
una breve attenzione.
C’è da imboccarlo,
lavarlo, cambiarlo,
controllare la flebo,
la febbre, le medicine.
Ma soprattutto,
Giuseppe
ha bisogno di amore.
Liliana Macera
FRONTE DELL’ODER, 1945 – FRAMMENTO DI PURGATORIO
«Stanotte, mentre l’artiglieria nemica
taceva e le stelle rilucevano,
è sorta in me una strana domanda
e un presagio:
cosa sto veramente facendo qui
con questo mitra tra queste macerie?
Improvvisamente ho percepito
la mia nera arma come un’antica daga
romana, baluginante in non so
quale foresta della nostra Germania».
«Io invece ho spesso sognato che scappavo, vestito in uno strano modo,
per una palude costeggiata
da immensi salici mentre grida
terribili salivano da ogni parte».
I due giovani soldati si accesero
una sigaretta mentre la fresca
brezza dell’aspra primavera baltica
disperdeva le nebbie dell’aurora.
«A volte, da bambino, sognavo
anch’io di scappare
tra alberi immensi, e barbari
dipinti in volto, assetati di sangue».
«C’è chi dice che nei sogni
ricordiamo frammenti d’esistenze
passate sotto altri firmamenti…».
«Si vede che entrambi siamo fuggiti
in chissà quale rovinosa disfatta,
perduta in chissà quale secolo,
forse di questa stessa terra…».
«O poco piú a Sud! –
aggiunse con un ghigno Karl. –
Forse eravamo tra quei pochi
Romani che riuscirono a fuggire
dal massacro di Teutoburgo».
«Già – scosse la testa Franz
con un gesto d’approvazione.
– forse siamo stati fra quei vigliacchi
che, presi dal terrore,
hanno abbandonato le insegne
e i fratelli all’orrore».
I due si guardarono e sorrisero:
«E magari adesso dobbiamo
scontare quell’antica colpa qui e…».
Un’improvvisa esplosione
e una grandine di proiettili
interruppe quello strano dialogo:
i russi avevano ripreso l’assalto finale
a quelle ultime postazioni sull’Oder,
presto la strada per Berlino
sarebbe stata aperta.
I due ripresero a sparare
con le mitraglie che erano
rimaste efficienti, ma ormai
i carri e la fanteria rossi
incombevano inesorabili.
Sovrano, il sole s’era alzato
sopra una nube di polvere e di spari,
numerosi colpi raggiunsero i due
ma non indietreggiarono di un passo.
Prima che la Vergine Morte
giungesse a chiudere finalmente
i loro occhi, pieni di sangue
e lacrime, rividero i loro compagni
della Legio XIV Gemina
schierati, con le insegne e l’Aquila,
sorridenti.
Marco Rossi