La tradizione Bāul, di origine bengalese, è divisa in produzione poetica e musicale. Il contenuto di queste due forme espressive è prevalentemente sociale, non in senso politico ma come ricerca interiore, da parte degli uomini del popolo – negli umili villaggi del Bengala – per una autonomia che possa avere valenza sia etica che civica. Questa poesia sociale e religiosa è collegata alla danza e ai semplici riti di offerta: troviamo le danze gamhhirā e gājan, i canti jhāpān e karam, e le poesie pānchāli e bratakathā; questa poesia si colora dell’idea di un impulso rivitalizzante nell’uomo, il quale viene ostacolato dalla corrente della storia esterna, che agisce come corrente dell’alienazione della volontà individuale e anche come distruttrice della pura energia creatrice.
Questo tipo di produzione poetica sociale e religiosa indica – se consideriamo la corrente integratrice che rende veicolo dell’Amore divino anche l’essere umano piú semplice – il punto di arrivo dello Spirito nel circuito della forza interiore grazie allo sforzo del poeta liberato. Vediamo in particolare che questo chiarisce il fatto che non può esservi congiunzione con il mondo sovrasensibile al di fuori della via del cuore liberato. Questo dà all’“Io” un mezzo per unirsi di nuovo alle forze originarie dell’Amore, che sono le forze dell’“Io” superiore. Per aiutarci a considerare il contenuto metafisico del compito, abbiamo la Shri Krishna-vijaia di Maladhar Basu e la Chaitanya-charitāmrita di Krishnadas Kaviraj; in esse possiamo identificare lo sforzo compiuto per collegare la corrente musicale e poetica alla bhakti, e la necessità della coscienza di liberarsi dalla psiche o dal corpo. È ovvio che per poter effettuare tale comunione, bisogna possedere totalmente il pensiero da rappresentare, o il pensare stesso, cosí da liberarlo da ogni necessità di essere riflesso; e, come tale, da giustificarne la natura soggettiva, sia filosofica che dialetticamente esoterica.
Il presente lavoro è una preziosa testimonianza della tradizione Bāul. La traduzione è di un esperto musicologo, Deben Bhattacharya, che ha raccolto i canti con amore e studio. Il loro contenuto mistico parla al lettore, sia orientale che occidentale, come a un potenziale discepolo; a colui che, grazie ad averli letti, può trarre da quella correlazione con le proprie qualità interiori il potere di intravedere l’elevazione poetica al Sovrasensibile, secondo l’ascetismo richiesto dalla consapevolezza dinamica della correlazione. Egli non può intuirlo se cerca l’elemento spirituale al di fuori di esso, cioè di là dall’atto dell’Io in cui è già presente, e se si affida ciecamente alla mera interpretazione razionale.
È anche chiaro dalle osservazioni di Deben Bhattacharya, che questi poeti contadini credono che lo sforzo dello Spirito sia destinato a fallire, se non unisce la corrente musicale e lirica al Principio che può penetrare tutto ciò che è umano, risvegliandolo alla sua vera esistenza. L’umano non è la misura del proprio essere, ma della sua caduta; il poeta Bāul sente questa caduta profondamente, la soffre, ma sa che la magia del canto può superarla, perché può unirsi alla Shakti salvifica, la vera forza dell’anima.
Cosí il bisogno di una determinazione di liberazione sempre piú misticamente consapevole viene sottolineato, in questa poetica, quasi come un metodo implicito: fino alla soglia del Mondo celeste, la consapevolezza dell’Io non tocca l’Io, anche se attinge alle sue forze interiori; utilizza il suo corpo vitale e fisico. Anche quando il poeta mistico ha sperimentato la coscienza superiore, o lo “Specchio del Cielo”, in realtà è ancora rimasto entro i limiti vitali e fisici, e lí non può effettuare un collegamento con la Madre divina. Il superamento del limite, detto anche “realizzazione spirituale dell’umano”, è la possibilità che l’anima sia tanto indipendente dal corpo e dalla psiche da usare l’estasi poetica come veicolo dell’estasi metafisica.
Sembrerebbe che alcuni poeti Bāul abbiano una conoscenza precisa della barriera vitale e fisica che condiziona l’esperienza interiore. C’è un superamento dell’umano che attende il cantore Bāul e che non può venire dall’umano, ma dalle esigue schiere di chi conosce il canto; questi pochi sono capaci di percepire l’indicibile continuità dell’azione reintegratrice e possono cessare di appellarsi alle forze incatenate dell’umano per superare le catene dell’umano. C’è una continuità che non può essere comunicata; non deve essere raggiunta attraverso nozioni o argomenti, ma attraverso le forze della segreta musica interiore dell’anima.
Abbiamo qui qualcosa di piú della poesia mistica: siamo di fronte a una sorta di chiave di reintegrazione interiore, che non ha tanto bisogno di essere insegnata o discussa, quanto di essere svincolata dal simbolismo poetico in quanto tale, e vissuta come evento dello Spirito. Un commento può solo essere la meditazione stessa, capace di realizzare lo Specchio del Cielo; un commento dialettico è permesso a una sola condizione: che abbia come base lo stesso movimento della musica poetica. Come tale, deve garantirla come premessa a se stessa, e persino a colui che legge; ne consegue che qualsiasi meditazione possa derivarne, non deve essere una esplorazione del suo contenuto interiore, ma deve essere in sé quello stesso contenuto.
Massimo Scaligero
The Mirror of the Sky, tradotto da Deben Bhattacharya.
Londra, George Allen and Unwin, 1969.
Da: East and West, Dicembre 1970, Vol. 20, No. 4.
Link all’articolo in inglese: “The mirror of the sky”