Nella vita di tutti i giorni siamo abituati alla concretezza, che serve a dipanare le indispensabili necessità dell’andamento quotidiano. Questa concretezza non urta contro la dedizione alla spiritualità, anzi la completa e ci fa uscire dall’astrattezza, che è sempre deleteria.
La concretezza ci suggerisce una certa routine, anch’essa da non considerare come negativa nella sua ripetitività, ma aiutatrice nel dare un ordine allo svolgersi degli impegni, tra i quali dobbiamo sempre ricavare il giusto spazio per la disciplina interiore. Chi vive in maniera disordinata trova brandelli di tempo, quando li trova, per dedicarsi agli esercizi. Massimo Scaligero diceva che la routine è una grande aiutatrice per chi segue una Via spirituale, e consigliava di organizzare la giornata, tenendo conto delle possibilità lavorative, secondo ritmi scanditi da regole di tipo monastico: ora et labora!
Ma la concretezza, in un mondo tanto materialistico, sembra aver dato il posto a un’astrattezza organizzata e ritenuta giusta, scientifica. Pensiamo ad esempio alle ore. La giornata è fatta di ventiquattro ore. Si sente ripetere continuamente l’espressione H24 riferita alle piú diverse questioni: la donna che si lamenta perché in casa lavora H24, la badante che è necessaria per H24, i turnisti che si alternano perché il lavoro necessita di una continuità H24 ecc. H24 significa che esistono in realtà ventiquattro ore vere, piene. L’orologio analogico riporta 12 ore che si ripetono, e quando la lancetta ha indicato il 12, poi prosegue con il 12:5: mezzogiorno e cinque, 12:15: mezzogiorno e un quarto, o 12:30: mezzogiorno e mezzo, detto anche “la mezza” ecc. Stessa cosa per la notte: quando la lancetta arriva sul 12, quella è la mezzanotte, e poi c’è la mezzanotte e un quarto, e mezza, e tre quarti ecc. In un orologio che segna le 24 ore, in alto compare il numero ventiquattro seguito regolarmente dall’uno.
Ed ecco arrivare l’orologio digitale, quello delle nostre radiosveglie, del computer, del telefonino. Qui le ore non sono piú ventiquattro. Misteriosamente l’ultima ora, la ventiquattresima, non esiste piú, si passa direttamente all’ora zero, il massimo dell’astrattezza. L’orologio segna le 0:5, le 0:15 o le 0:30 ecc. Che fine ha fatto la ventiquattresima ora? Perché non possiamo viverla come le altre ventitré? Che senso ha quel numero 0:00 dell’orologio digitale? Perché non possiamo calcolare tutta intera la ventiquattresima ora e poi passare alla prima ora del giorno?
Dicono che i Romani non conoscessero lo zero e che i saggi arabi ci abbiano fatto questo meraviglioso regalo dello zero. Sarà forse giusto per i calcoli matematici, in cui si va sotto lo zero (anche questa un’astrazione, pur se necessaria), ma nella vita vera non si va mai sotto lo zero. Anche quando siamo in bolletta e abbiamo dei debiti, quei debiti si sommano come debiti e vanno pagati in concreto!
La concretezza è nemica della distrazione, dell’approssimazione, della sventatezza. Significa puntualità negli appuntamenti, esattamente come puntualità nell’esercizio della volontà.
Tutti gli esercizi contribuiscono a renderci piú concreti. Sembra un paradosso, perché si confonde la concretezza con il materialismo. Per tornare all’esempio dei frati degli antichi conventi: quanto piú misticismo veniva vissuto, tanto piú ci si applicava, oltre alle orazioni e allo studio, anche alle ferventi opere di costruzione e riparazione del convento e della chiesa, alla cura dell’orto, alla conservazione dei frutti con le marmellate e le composte, alla raccolta delle erbe per tisane, pozioni e pomate.
Questo, riferito al nostro vivere nel mondo odierno, significa suddividere il tempo della giornata in ore di necessaria pratica del quotidiano, bilanciata dal lavoro spirituale. Nessuna delle due parti deve prevalere sull’altra. E riguardo alla parte pratica, anche qui si devono equilibrare due atteggiamenti contrapposti: non dobbiamo sentirci continuamente preoccupati per quanto la parte pratica esige da noi, angustiandoci se non riusciamo a tenere testa a tutto ciò che si considera doveroso fare, né dobbiamo disinteressarci del dovere per inseguire il piacere, il divertimento, buttandoci dietro le spalle gli impegni considerati poco importanti.
All’inizio della seconda parte del Faust di Goethe, nel gran salone alla corte dell’Imperatore, durante una delle tante feste che vi si tengono, c’è una sfilata di maschere, nella quale compare un’allegoria che riguarda proprio questo. L’Araldo annuncia l’arrivo di un pachiderma guidato da una graziosa fanciulla. Dietro di lei un’altra donna, maestosa, in piedi, cinta di luce. A fianco del grande elefante avanzano due donne in catene: una ha sul volto dipinta l’inquietudine, l’altra è raggiante di giubilo, ridente; la prima smania per la libertà che non ha, la seconda, pure se in catene, si sente libera e festosa. La prima rappresenta la Tèma, l’eccessiva preoccupazione per il quotidiano, la continua paura dell’insolito, del pericolo: «Fuori, nel mondo, da queste porte / vorrei fuggire di tutto cuore… / Ma là in agguato fiuto la Morte / e qui rimango tra fumo e orrore». L’altra donna rappresenta la Speranza, in veste sfarfallante, poco preoccupata di quanto può accadere, perché vive la vita oltre ogni tormento, solo vogliosa di divertimento e di ogni tipo di godimento: «In ogni luogo, brigata accètta, entrerem franche, gioia a cercare. / E in qualche luogo, la gioia schietta / sicuramente saprem trovare».
Sull’elefante, parla ora la giovane donna che lo guida, la Prudenza: «Le due Nemiche di tutti gli uomini / Tèma e Speranza, incatenate / tengo lontane dall’uman genere. / Fatemi largo, ché vi salvate!».
Questo dunque il pensiero di Goethe: le due opposte tendenze, di troppa preoccupazione o di troppa spensieratezza di vita, sono nemiche dell’uomo. Sulla groppa dell’elefante, dietro la Prudenza: «…s’erge possente / stupenda Dea tutta fulgente, / con le veloci ali distese / verso il trionfo sempre protese. / Con quel gran nimbo di luce e gloria, / lontano e intorno splendore dà. / Il suo superbo nome è “Vittoria”, / Dea d’ogni fervida attività».
È la fervida attività, quindi, ci dice Goethe, a darci la Vittoria: fare, applicarsi, con volontà e soprattutto con costanza. La costanza è un altro importante elemento di concretezza, da non trascurare. Si prende a volte una solenne decisione: «Da domani farò questa cosa, che finora ho trascurato» o «Da domani non farò piú questa cosa, che nuoce alla mia salute». L’impegno è preso, e per un certo periodo teniamo fede alla decisione. Ma poi ci dimentichiamo, o consideriamo troppo pesante il proseguire. In fondo… solo per oggi… e quell’oggi si ripete il giorno dopo e l’altro ancora.
La concretezza ci fa essere qui, ora, presenti a noi stessi, non distratti, non con la testa fra le nuvole, non spaventati da pericoli che qualcuno ha tutto l’interesse a farci intravedere incombenti su di noi. Sicuri che il Karma avrà le sue ragioni per portarci incontro tutto quello che ci accadrà, e sappiamo che il Signore del Karma è il Christo. Potrebbe Lui inviarci qualcosa di dannoso invece che di salvifico?
Siamo noi, certo, che prepariamo il nostro Karma, con le azioni che compiamo, alle quali risponde sempre una reazione. E se la reazione ci appare negativa, o drammatica, ci lamentiamo del destino avverso, arriviamo a credere di essere vittime di un maleficio, di avere nemici che tramano con occulti sortilegi alla nostra perdizione. In verità, dietro ad ogni evento karmico c’è una possibilità di espiazione e di redenzione. Possibilità anch’essa concreta.
Se affronteremo con questa sicurezza le avversità, supereremo entrambi gli squilibrati atteggiamenti entro i quali tendiamo ad oscillare, l’eccessivo timore o l’eccessiva leggerezza, oltre i quali otterremo il giusto e concreto risultato: quello della Vittoria alata!
Marina Sagramora