L’autore, con la sua competenza nelle dottrine buddhiste e con la pratica e la dedizione con cui le vive, sente necessario portare un contributo di chiarimenti metodologici e orientativi, al problema della entrata dello Zen nella cultura spiritualistica occidentale, e in particolare in Gran Bretagna. II problema per lo Humphreys è la forma della importazione di tale dottrina e la necessità che essa non alteri il contenuto che, per quanto originariamente immesso in una forma che gli è peculiare, è sostanzialmente indialettica. Ma non si tratta soltanto di forma, ossia di traduzione e di apprendimento, ma anche di atteggiamento psicologico e di culto di un tipo di concentrazione e di meditazione a cui l’anima dell’Occidentale non è abituata. In tal senso l’Autore fa una serie di osservazioni di interesse pratico e metodologico: è l’impostazione del problema nella prima parte dell’opera, indi una serie di 80 lettere divise per argomento, nella seconda parte. Sono lettere inviate singolarmente ai componenti di un gruppo di praticanti lo Zen a Londra: sono chiarimenti, incoraggiamenti, consigli, accorgimenti, tutti rivolti a far sí che la pratica dello Zen sia possibile al discepolo occidentale senza che essa si alteri o senza che egli ne venga alterato. La terza parte del libro è dedicata ad esperienze dello Zen e si conclude con un breve studio intitolato Survey and Prophecy (Indagine e Profezia).
L’opera dell’Humphreys è indubbiamente apprezzabile per la ricchezza di dottrina e per la buona volontà che egli ha di aprire il varco all’autentico Zen in Occidente. La sua espressione è precisa ed equilibrata. Se un difetto si può trovare in essa, da un punto di vista Zen, è proprio che egli vuole troppo spiegare e troppo aiutare il discepolo: troppo precisare gli atteggiamenti e le distinzioni di valori o di gradi. Mentre il discepolo viene aiutato dal giusto orientamento e dall’esser lasciato solo a combattere con le proprie difficoltà: che non è mancanza di amore, anzi il contrario. Quando il discepolo ha ricevuto la giusta tecnica del meditare, deve essere lasciato anche sbagliare, perché questa è la misura del suo comportamento e della sua libertà. II troppo aiuto, l’eccesso di spiegazione, può addormentare il suo essere libero, può portare su una linea ascetica colui che non è chiamato a simile esperienza. Mentre le forze interiori vengono stimolate proprio dalle difficoltà di procedere nel sentiero. Una esposizione o una esplicazione che analizzi il modo dell’apprendimento e della pratica di dottrine come lo Zen, si allontana sempre dal contenuto originario, quando, presa dalla preoccupazione degli impedimenti intellettuali e razionalistici, è costretta a muoversi su tale piano. Si tratta di una scienza che non è democratica: che non può essere portata al livello dei molti, bensí, al contrario, esige che coloro che sono capaci si elevino ad essa. E questi pochi possono aiutare nella giusta forma i molti.
Comunque, l’opera dell’Humphreys rimane positiva: è una delle piú importanti sull’argomento e, in definitiva, utile a chi veramente voglia seguire tale via.
Massimo Scaligero
Christmas Humphreys, Zen Comes West.
London, George Allen and Unwin Ltd., 1960.
Da: “Il Giappone”, Vol. 3 – 1963.
Istituto Italiano per l’Africa e l’Oriente (IsIAO).
L’Autore fa in questo volumetto una esposizione semplice e riassuntiva dello Zen, di pratica utilità per il comune lettore occidentale, ma anche per l’uomo di cultura. In una prima parte egli fa un quadro storico-dottrinario del Buddhismo, dedicando particolare attenzione al tema del Karma e delle ripetute vite terrene, e a quello della concentrazione e della meditazione. Seguono una seconda parte dedicata al Buddhismo Mahāyāna, e una terza dedicata propriamente al Buddhismo Zen, al suo contenuto meditativo tendente a ritrovare le forze pure della vita mediante l’estinzione del “mentale”. In questa parte viene tratteggiato tutto ciò che caratterizza l’ascesi pura e il costume monacale dello Zen; vengono citati detti e scritti di Maestri Zen, cosí da dare un’idea dello stile di simile espressione.
Anche qui ritorna il tema del libro Lo Zen arriva in Occidente, e a tale riguardo lo Humphreys affronta il problema dell’allenamento interiore quale può essere seguito da un discepolo Zen in questo tempo.
Concludono il volumetto: “Ten Principles of Zen”, I Dieci Princípi dello Zen, una buona bibliografia, un glossario e un indice.
1. Vivi qui e adesso;
2. Sii attento a tutto ciò che fai;
3. Sii autentico nei tuoi sentimenti;
4. Ama te stesso;
5. Impara a lasciare andare;
6. Sii onesto con te stesso e con gli altri;
7. Sii cosciente dei tuoi desideri;
8. Sii responsabile di te stesso e del mondo;
9. Non contrastare il fluire della vita;
10. Trova la pace interiore.
Massimo Scaligero
Christmas Humphreys, Zen, a Way of Life.
The English Universities Press, 1962.
Da: “Il Giappone”, Vol. 3 – 1963.
Istituto Italiano per l’Africa e l’Oriente (IsIAO).
Masumi Shibata fa precedere la traduzione del sermone di Tetsugen da una introduzione che ristabilisce la necessità della meditazione quale disciplina che conduca da una condizione ancora espressiva della natura individuale alla eliminazione assoluta, persino di se medesima. La meditazione assisa e il kōan sono il duplice metodo: presenza preparatrice e assenza integrale.
Per dare un’idea dell’insegnamento di Tetsugen, l’autore tratteggia le figure di altri due maestri Zen: Dogen (1200-1253), fondatore della Scuola Sōtō, e Hakuin (1685-1768), della Scuola Rinzai, noto per aver portato molto innanzi l’esercizio del kōan.
Tetsugen (1630-1683) appartenne alla Scuola Ōbaku (Huang-po), fu noto per aver realizzato la prima edizione giapponese dell’intera collezione dei testi buddhisti. Per raccogliere i fondi necessari a tale pubblicazione, comprendente 6.956 libri, egli peregrinò per tutte le province del Giappone, e nel corso di uno dei suoi pellegrinaggi pronunciò il Sermone. Fu noto altresí per il suo spirito di carità e di soccorso ai poveri e ai bisognosi.
Il Sermone descrive i quattro aggregati che servono di supporto alla coscienza: materia, impressioni, concetti e formazioni mentali. Perché la coscienza si realizzi allo stato puro, deve portarsi oltre gli aggregati, liberarsi della loro illusoria esistenza. Ma anche cosí attuata la coscienza va considerata essa stessa come un aggregato, il quinto, di cui occorre liberarsi. Qui Tetsugen attinge al nucleo piú puro e piú nobile del Buddhismo e indica una tecnica meditativa che può portare alla liberazione finale della coscienza. La coscienza deve avere tale possibilità di afferrare se stessa, da poter eliminare se stessa grazie a un atto piú profondo di liberazione. Ed è la possibilità del satori.
Massimo Scaligero
Masumi Shibata, Le sermon de Tetsugen sur le Zen.
A cura di G. Renondeau – Tokyo, Risosha, 1963.
Da: “Il Giappone”, Vol. 3 – 1963.
Istituto Italiano per l’Africa e l’Oriente (IsIAO).
Il presente volume trae origine dal Convegno sul tema “Zen Buddhism and Psychoanalysis” che ebbe luogo nell’estate del 1957 a Cuernavaca, Messico, sotto gli auspici del Department of Psychoanalysis of the Medical School, Autonomous National University of Mexico.
A una prefazione di Erich Fromm, seguono Lectures on Zen Buddhism di D.T. Suzuki, Psychoanalysis and Zen Buddhism di E. Fromm, e The Human Situation and Zen Buddhism di Richard De Martino.
L’incontro tra Zen e psicoanalisi è anche possibile sul piano dialettico – quello di qualsiasi scienza astratta di questo tempo – perché la dialettica è quel movimento dell’intelletto razionale che, pur derivando dallo Spirito, ogni volta si separa dalla sua sorgente e perciò, nella impossibilità di operare secondo leggi dello Spirito, può assumere qualsiasi forma e dimostrare tutto. Cosí lo Zen, divenuto dialettica, discorso, conferenza accademica, può benissimo incontrarsi con il discorso, o la dialettica psicoanalitica. Resta a vedere che cosa ne viene fuori.
Forse l’inconscio è stato mai sperimentato da Freud o da Jung? A ben pensarci, no. Perché, sia la psicoanalisi sia la psicologia analitica, come ogni altro tipo di ricerca psicologica di questo tempo, debbono porsi dinanzi ai fenomeni della psiche da fuori di essa: sono sempre irrimediabilmente fuori della psiche e hanno di essa quei fatti compiuti da cui mediante logica astratta cercano di risalire a leggi e a princípi. Non sono le leggi e i princípi effettivi, ossia percepiti o sperimentati, ma solo quelli astrattamente concepiti. Se poi si guarda bene, quei fenomeni della psiche si riducono meramente a percezioni sensibili: non si dà mai allo psicanalista una percezione della psiche, ma solo una percezione dell’organismo corporeo investito da un movimento psichico, o di altri dati comunque sensibili, in base ai quali mediante il ben noto metodo tenta di risalire i fatti segreti della coscienza. Sia la percezione delle varie reazioni del soggetto, sia il metodo di interrogazione, sono comunque una dialettica che sta irrimediabilmente fuori dell’àmbito della coscienza: che viene immaginato, supposto, dedotto, mai veramente percepito. Tale percezione non potrebbe essere che sovrasensibile.
La psicologia moderna potrebbe divenire vera solo se cominciasse a basarsi su una esperienza sovrasensibile, ossia su una metodica percezione interiore dei moti della coscienza. Ed ecco che qualcuno scopre che quella controparte sovrasensibile di cui tale psicologia manca, quella indagine piú interna dell’inconscio, potrebbe venire dallo Zen. Ma a patto che lo Zen sia esso stesso dialettizzato. Altrimenti come si potrebbe accedere ad esso? Per questo dicevamo che sul piano dialettico, tutti gli incontri sono possibili, perché s’incontrano i bei discorsi, le belle conferenze, le dotte esposizioni: non certo le anime. Certi incontri sono contaminazioni tipiche della cultura di questo tempo.
Carattere essenziale dello Zen è il suo essere non-dialettico, è l’esigere esclusivamente l’atto interiore. La disciplina Zen porta a un cosciente esaurimento dei modi umani di valutazione dell’esistere, di tutti gli psicologismi e delle situazioni critiche della coscienza, di cui invece la psicoanalisi ha bisogno per aver una materia da interpretare e da far sussistere indefinitamente, altrimenti verrebbe meno la sua necessità scientifica, e la professione di psicanalista sarebbe un fallimento. Se uno psicanalista dovesse accettare i princípi dello Zen (il che è difficile, perché per accettare occorre concretamente intuire) dovrebbe cessare di fare lo psicanalista e fare un lungo lavoro di meditazione purificatrice per liberarsi di certe rappresentazioni che, non rispondendo alla realtà della psiche, finiscono con l’imprimersi deleteriamente su essa.
Queste nostre affermazioni non dovrebbero sembrare troppo severe, se si tiene conto che, in definitiva, personalità della politica e della scienza di questo tempo, uomini rappresentativi e responsabili, da cui dipendono molte situazioni collettive, allorché vogliono provvedersi al loro equilibrio interiore scosso o logorato, si affidano a chi in verità ha ben poche possibilità di penetrare nel retroscena della coscienza, sempre dedotto e supposto, mai in realtà obiettivamente sperimentato. Quindi è grave la responsabilità di chi si assume il ruolo di medico della psiche. Non meno grave, tuttavia, della dialettizzazione dello Zen e di tutte le sue volgarizzazioni ad uso dell’utilitarismo di fondo degli attuali ricercatori dello spirito: che cercano lo spirito, e perciò lo Yoga o lo Zen, per metterlo a disposizione delle loro aspirazioni carrieristiche, professionistiche, pubblicistiche e persino economiche.
Massimo Scaligero
D.T. Suzuki, Erich Fromm, Richard De Martino,
Zen Buddhism and Psychoanalysis
New York, Grove Press Inc., 1963.
Da: “Il Giappone”, Vol. 3 – 1963.
Istituto Italiano per l’Africa e l’Oriente (IsIAO).
Link agli articoli originali in inglese: “Humphreys, Shibata, Fromm, Suzuki, De Martino”